Gino Giugni, a braccetto con la Storia

Padre dello statuto dei lavoratori, ma anche ministro del Lavoro, nel governo Ciampi, quando si firma l'accordo del '93 che inaugura la concertazione. Ricordo di un intellettuale che ha fatto da cerniera fra la politica attiva e l'aristocrazia del pensiero

Una volta, Carlo Donat Cattin raccontò che, completato l’iter legislativo dello statuto dei lavoratori, il presidente del Consiglio in carica continuò a manifestare segni di vita emettendo “angosciosi sospiri”. Questione di carattere. Nella sede della Confindustria, le reazioni non furono altrettanto miti. Non è quindi per un capriccio salottiero che, a rodaggio appena iniziato dello statuto, il suo papà – tutti lo hanno sempre chiamato così – viene invitato ad un convegno di giuristi del lavoro per compiervi “un esame di coscienza”. Gino Giugni ci va, lo fa e dice chiaro e tendo: “vorrei che lo facessero anche coloro che continuano a ritenersi giuristi imparziali”.

 

Secondo un modo di dire che mi piace, ma non posso utilizzare se non di rado, Gino aveva una marcia in più. Basta gettare uno sguardo sul suo curriculum vitae per ricavarne la sensazione che la Signora Storia stabilì con lui un rapporto più confidenziale che con altri. Nessuno però saprà mai se ciò dipendesse dall’abilità con cui Gino ha saputo corteggiarla con successo o, al contrario, dall’insistenza con cui lei gli si era incollata addosso. E’ un dilemma della medesima natura esistenziale che, secondo Gino, rappresenta il riepilogo della sua biografia: “non saprò mai se sono un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto”. Ma la verità è che, nell’insieme, i suoi dati biografici testimoniano come e quanto il confine tra sfera accademico-scientifica e sfera politica sia mobile e incerto.

 

Eccezionalmente numerosi, infatti, sono i casi in cui la Signora Storia ebbe bisogno di lui e lo esortò ad agire da protagonista di eventi che appartengono simultaneamente ad entrambe le dimensioni. Sono gli eventi che fanno di Gino un “consigliere del principe” che nei confronti del principe conservava l’indipendenza di giudizio propria del professore, e anzi del “compagno professore”, che non c’è serata di gala offerta da capi di Stato che possa emozionare quanto il sapore, “l’inarrivabile sapore”, del cesto di limoni e arance che, come Gino scrive in un suo recente libro di memorie, gli donarono i braccianti di Avola dove si era recato col suo ministro, il socialista Giacomo Brodolini. Per questo, non vide mai messa in discussione la sua onestà intellettuale come giurista prestato alla politica.

 

Ho sempre sospettato che Gino sottostimasse la possibilità che il suo ruolo di cerniera tra politica attiva e aristocrazia del pensiero fosse idealizzato dalla popolazione accademica. Più esattamente, ho sempre avuto la certezza che non si sia mai sognato di proposi come modello di riferimento. Ciò non toglie che realizzasse le sue performance con tale naturalezza da farle apparire straordinariamente semplici e perciò facilmente emulabili. Viceversa, soltanto per ingenuità o un auto-inganno è dato supporre che il superamento del test dell’affidabilità sia alla portata di chiunque. E ciò anche perché non basta al giurista manifestare la sua personalità senza finzioni né astuzie. Occorre anche che il rapporto col potere politico si sviluppi su basi visibilmente rispettose della distinzione dei ruoli e a condizione che la stagione politica non sia torbida al punto di farlo degenerare in una fonte di rovinose strumentalizzazioni.

 

Ad ogni modo, una cosa è certa: la lezione impartita da Giugni ha determinato il tramonto dell’identikit del giurista come tecnico (o ragioniere) del diritto caro alla tradizione del ceto degli operatori giuridici ed ha ridisegnato la figura dell’intellettuale d’area giuridica accentuandone l’attitudine a confrontarsi col pragmatismo del decisore politico senza smarrire la vocazione a pensare scientificamente.

 

Decisore, del resto, sarà lui stesso, in qualità di ministro del lavoro del governo Ciampi. Difatti, l’accordo del 23 luglio 1993, col quale la prassi della concertazione ha compiuto un salto di qualità, porta la sua firma.

 

Concertazione, si sa, è un brutto neo-logismo che ripropone momenti significativi della storia weimariana da cui nacque il moderno diritto del lavoro e, più che lo sbocco finale di una transizione politico-costituzionale, è la forma evoluta di una ricerca tuttora in corso. Così, è toccata proprio al giurista del lavoro più saldamente convinto che il sindacato dovesse recuperare enormi ritardi quanto ad esperienza di autonomia e libertà la responsabilità di concedergli il viatico per entrare nell’area del potere e del diritto pubblico. Se francamente non posso dire che il tempo sia stato galantuomo, so però che Gino Giugni aveva fabbricato il quadrante per segnare le ore e i giorni, i mesi e gli anni del suo scorrere. Aveva individuato gli anticorpi con cui il sindacato può non farsi catturare. Accreditando l’idea su cui si basa lo statuto di una legislazione promozionale del sindacato senza regolazione legale del soggetto collettivo, aveva ridotto l’eteronomia al minimo storicamente possibile.

 

Fece, insomma, quel che poteva; poi, è accaduto quel che doveva.
Martedì, 6. Ottobre 2009
 

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