Francia - L’accordo sulla modernizzazione del mercato del lavoro

Pressati dal governo, che minacciava di intervenire per legge, il padronato e i sindacati (tranne la Cgt) hanno raggiunto un accordo che introduce un maggiore flessibilià, ma in cambio di contropartite importanti sull'applicazione delle nuove norme e sul sostegno ai lavoratori

Dopo quattro mesi di intense contrattazioni, l’11 gennaio 2008 è stato firmato un accordo nazionale interprofessionale tra le tre organizzazioni padronali di Francia e quattro confederazioni sindacali su cinque. Solo la CGT ha rifiutato l’accordo. Il testo è stato subito salutato, pressoché negli stessi termini, dal primo ministro, che ci vede “un vero passo verso la flessicurezza alla francese” e dal MEDEF (la principale organizzazione padronale), secondo la quale l’accordo “inventa” la flessicurezza alla francese. Un po’ a tutti i sindacati ripugna l’utilizzo del termine di flessicurezza benché faccia ormai parte del vocabolario della CES (la Confederazione europea dei sindacati). Ma le organizzazioni firmatarie considerano che l’accordo costituisca un compromesso insufficiente sì, però positivo ed una prima tappa sulla strada del riconoscimento di nuovi diritti. La CGT, invece, senza ignorare la presenza di alcune disposizioni favorevoli, considera che il testo contiene soprattutto “nuove misure di flessibilità”.

Il contesto

Fra ottobre 2006 e maggio 2007, padronato e sindacati hanno organizzato un processo di “confronto sociale” che ha per oggetto la definizione delle basi di un negoziato globale sul mercato del lavoro. Un movimento accelerato dall’elezione presidenziale: col nuovo governo che ha chiesto alle parti sociali di negoziare, entro la fine del 2007, un accordo mirato “alla modernizzazione del mercato del lavoro ed alla garanzia dei percorsi professionali”. Di fronte a uno scacco, affermava il governo, avrebbe trattato la questione per via legislativa. Tenuto conto dell’orientamento politico del governo e della sua maggioranza parlamentare, è scontato che la minaccia di un intervento legislativo ha rafforzato la posizione negoziale del padronato e condizionato la decisione finale dei sindacati firmatari. Tuttavia, la rilevanza delle concessioni che, nella fase finale del negoziato ed in rapporto alle sue pretese di partenza, sono poi state accettate dal padronato ha mostrato che non ci si è trovati di fronte a un finto negoziato. Sia governo che padronato accordavano grande importanza alla legittimità che alle riforme sarebbe stata conferita dalla firma delle quattro confederazioni sindacali. Per cui è stato indispensabile accordare loro contropartite significative.

Un accordo multidimensionale sull’occupazione

Per la prima volta in Francia, è stato realizzato così un accordo che copre simultaneamente diversi campi dei rapporti d’impiego: differenti forme di contratti di lavoro, gestione previsionale dell’occupazione e delle competenze, formazione professionale continua, indennizzo della disoccupazione ed aiuto all’inserimento professionale di chi cerca impiego, ecc. In certi campi, l’accordo stabilisce disposizioni immediatamente applicabili (altre hanno bisogno di  modifiche al Codice del lavoro e sono oggetto di un progetto di legge che il Parlamento ha iniziato a discutere). In altre materie, fissa orientamenti da mettere in opera in seguito attraverso la contrattazione intercategoriale o di settore di cui l’accordo stabilisce già il calendario. Ora, in qualche pagina, non è certo possibile render conto del contenuto particolarmente complesso di questo accordo (e, per un’analisi più dettagliata, rinviamo a Jacques Freyssinet, “L’Accordo dell’11 gennaio 2008 sulla modernizzazione del mercato del lavoro: un avvenire incerto”, La revue de l’IRES, n° 54, 2007, cfr. www.ires-fr.org). Per cui ci limiteremo, qui di seguito, ai compromessi alla fine decisi tra le principali richieste del padronato e dei sindacati, senza trascurare tuttavia una questione delicata che le parti hanno concordemente deciso di lasciare in ombra.     

Il contratto unico di lavoro: un’ostilità condivisa

Nel corso della campagna per le elezioni presidenziali, Nicolas Sarkozy aveva proposto con forza la creazione di un contratto unico per lottare contro la segmentazione del mercato del lavoro generata proprio dalla compresenza di molteplici forme contrattuali. Sostenuto dai rapporti di diversi esperti (quelli di Pierre Cahuc e Francis Kramarz, “De la precarité à la mobilité, vers une sécurité sociale professionnelle”, Paris, La Documentation française, 2005), questo progetto prevede di non lasciar sussistere che una sola forma di contratto di lavoro, di durata indeterminata. In questo quadro, ai dipendenti spettano diritti e protezioni  (per esempio, sulla durata del preavviso di licenziamento e delle relative indennità) in proporzione al periodo di lavoro svolto nell’impresa. Sono soppresse, d’altro canto, le procedure specifiche in caso di licenziamento economico e al giudice viene sottratta ogni valutazione di legittimità della decisione dell’imprenditore. Invece, l’impresa che licenzia è tenuta a versare al Servizio pubblico dell’impiego un contributo destinato a sostenere le misure di aiuto al reinserimento dei lavoratori licenziati.

I sindacati sono ostili a questo progetto perché vi scorgono il rischio di una precarizzazione generalizzata nei rapporti d’impiego. E, sorprendentemente, neanche il padronato è favorevole all’idea. In effetti, i datori di lavoro trovano evidenti vantaggi nel poter disporre d’una gamma variata di contratti di lavoro che sistematicamente utilizzano in funzione dei loro bisogni. Le loro richieste non sono, dunque, affatto quelle dell’unificazione tanto cara a Sarkozy, ma puntano proprio sull’allargamento di questa gamma e sulla flessibilità della loro utilizzazione. Per cui, nel corso del negoziato, le due parti non hanno affatto discusso del contratto unico di lavoro.

Le due principali rivendicazioni di parte padronale

Su due punti, che presentava come essenziali, il padronato ha ottenuto concessioni significative a proprio vantaggio, pur accettando contro-concessioni forti sulla modalità della loro messa in opera concreta.

La rottura consensuale. A fianco del licenziamento e delle dimissioni, viene introdotta una terza modalità di rottura contrattuale, affidata all’accordo delle parti. Ma, di fronte al rifiuto secco di tutti i sindacati alla nozione di “rottura amichevole” preconizzata dal padronato, l’accordo si è fatto con una terminologia più neutra, ma che al fondo introietta l’esigenza posta dal padronato. Le contropartite ottenute dai sindacati nel caso in cui il datore di lavoro prospetti questa formula al dipendente sono: - l’imposizione di una discussione preliminare nel corso della quale il secondo possa essere assistito da un consigliere (per esempio, un rappresentante eletto del personale o un responsabile sindacale); - l’imposizione di un periodo di ripensamento di quindici giorni a favore del dipendente; e un accordo firmato da sottoporre all’omologazione degli uffici del lavoro (cui spetta verificare il rispetto delle procedure previste e se il consenso del dipendente sia stato dato liberamente). Infine, al dipendente spetta un’indennità per rottura di contratto almeno uguale all’indennità di licenziamento, insieme al diritto di beneficiare del sussidio di disoccupazione.

Il contratto a obiettivo definito. Il padronato chiedeva la creazione d’un nuovo tipo di contratto a tempo determinato legato alla realizzazione di un obiettivo predefinito. E’ un contratto che, al raggiungimento dell’obiettivo, si interrompe senza che l’interruzione configuri un caso di licenziamento: dunque, senza la procedura prevista, né il controllo di legittimità da parte del giudice. Su questo punto, la controffensiva sindacale particolarmente vigorosa ha strappato una trasformazione ed una riduzione dello scopo stesso della proposta. Questo tipo di contratto resterà a durata determinata, e potrà applicarsi a ingegneri e quadri e solo a titolo sperimentale ad altre categorie, se introdotto in un accordo di settore. (Paradossalmente, sembra che per periodi di lavoro brevi un dipendente sia meglio protetto da un contratto a tempo determinato, normalmente con una durata massima di 18 mesi, che da uno a tempo indeterminato,).

 

 Le due principali rivendicazioni di parte sindacale

I sindacati non avevano una piattaforme comune di rivendicazioni, ma almeno in due aree i loro obiettivi convergevano.

• La lotta alla precarietà. I risultati in quest’area sono controversi. In primo luogo, l’accordo sconta e formalizza la morte del CNE (contratto di nuova assunzione). Creato nel 2005, il CNE era un contratto a tempo indeterminato riservato alle piccole imprese (fino a 20 dipendenti); e consentiva il licenziamento ad libitum nel corso dei due primi anni (nel 2006 il CNE era servito da modello anche per il CPE – il contratto di primo impiego— che creava le stesse regole per l’assunzione di giovani in qualsiasi impresa di qualsiasi dimensione). Di fronte ad una serie di manifestazioni massicce, il governo aveva dovuto ritirare il CPE ma aveva mantenuto in vigore il CNE. Che, però, già condannato da diverse decisioni di tribunali francesi, è stato considerato anche dall’Organizzazione internazionale del lavoro, nell’ottobre 2007, come un atto legislativo contrario alle Convenzioni internazionali firmate dalla Francia. L’accordo dell’11 gennaio, dunque, non fa che sanzionare una decisione comunque divenuta necessaria. E’ interessante notare che viene così riaffermato – impegnando il padronato per il futuro – il principio secondo il quale non può darsi licenziamento senza “causa reale e seria” (la negazione in radice del concetto di licenziamento ad nutum). In secondo luogo, però, se questo è indiscutibilmente un risultato positivo, va sottolineato che i sindacati non hanno ottenuto niente per quel che riguarda la lotta alle forme precarie di occupazione (contratti a tempo determinato e lavoro interinale).

• La “trasferibilità” dei diritti. Per ridurre la sudditanza dei dipendenti nei confronti dei datori di lavoro e fornire loro garanzie in caso di mobilità professionale, i sindacati rivendicano la creazione di diritti legati alla persona del lavoratore e non al contratto di lavoro con uno specifico datore. Così il dipendente potrebbe trasferire i diritti che ha acquisito ed utilizzarli sia in un periodo di disoccupazione che nel quadro di un contratto con un nuovo datore di lavoro. Su questo punto hanno ottenuto una vittoria di principio, visto che il padronato ha accettato di riconoscere l’esistenza di tali diritti, sotto il nome di “portabilità”. Ma, per ora almeno, il campo d’applicazione di questi diritti “portabili” resta molto limitato: non riguarda che i diritti individuali alla formazione e ad alcune prestazioni supplementari nel campo della salute e della previdenza sociale. Per il resto, l’accordo rinvia a futuri negoziati di settore.

Come conclusione, provvisoria…

Siamo tipicamente di fronte a un accordo, uno scambio, a somma zero. E’, dunque, facile comprendere come una valutazione globale possa dar luogo a giudizi anche opposti a seconda del peso relativo che viene accordato ai differenti elementi che, nell’insieme, costituiscono il compromesso.

L’impressione d’insieme è che, da una parte e dall’altra, si sia poco ceduto e poco ottenuto. Il contenuto innovativo di questo accordo è modesto: ma, per contro, l’accettazione d’un compromesso multidimensionale costituisce una reale avanzata qualitativa della capacità degli attori sociali di intervenire nella regolazione dei rapporti di lavoro.

L’efficacia dell’accordo dipenderà alla fine, in larga misura, dallo sviluppo dei diversi negoziati  specificamente programmati (per settore, ecc.). Per ora, è interessante osservare che mette in campo una dinamica dall’avvenire ambiguamente aperto a diverse prospettive.

 

* (Professeur émérite à l'Université de Paris I - Président du Conseil scientifique du Centre d’études de l’emploi)

      (Traduzione di Angelo Gennari)

Mercoledì, 23. Aprile 2008
 

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