E' paradossale che si spingano i lavoratori verso la previdenza complementare e non si dia loro la possibilità di aumentare i versamenti a quella pubblica, più sicura e meno costosa. In questo modo, tra l'altro, si sottraggono risorse al sistema produttivo nazionale: solo il 3% degli investimenti dei Fondi è in azioni italiane
I colpi di scena che stanno caratterizzando l'iter della delega pensionistica per la previdenza integrativa e il dibattito che lo accompagna hanno almeno il pregio di mettere in luce i corposi e contrastanti interessi in gioco che fin qui - almeno all'apparenza - erano rimasti in secondo piano. I plateali contrasti all'interno del governo stanno evidenziando anche gli inconcepibili conflitti d'interesse che finora erano rimasti latenti.
Tuttavia, il rischio principale è che ancora una volta l'attenzione dell'opinione pubblica venga distolta dalle problematiche più generali e di più grande rilievo implicate nella partita che si sta svolgendo in materia previdenziale.
Le dimensioni degli aspetti finanziari della contesa sono notevoli e aiutano a capire anche "l'effervescenza" con la quale si manifestano le varie posizioni. L'insieme dei nuovi Fondi chiusi e aperti nati a partire dalla fine degli anni '90 finora hanno acquisito contribuzioni per circa 8 miliardi di euro. Si tratta di una cifra di tutto rispetto, ma se gli attuali accantonamenti per il Tfr fossero dirottati per intero verso la previdenza complementare, tenendo conto dei contributi aggiuntivi dei lavoratori e delle imprese che dovrebbero accompagnare l'adesione ai Fondi, il flusso complessivo annuo di risparmio diretto verso la previdenza privata sarebbe compreso tra i 17 e i 18 miliardi di euro. In 5-6 anni - cioè nello stesso arco di tempo dall'avvio dei nuovi Fondi ad oggi - il capitale da essi gestito supererebbe i 100 miliardi di euro.
Non c'è dunque da stupirsi se, ad esempio, le società assicurative - contando anche sui loro autorevoli sponsor nel Consiglio dei ministri - richiedano che i loro Fondi pensione individuali (Fip) siano equiparati ai Fondi collettivi nella regolamentazione della previdenza integrativa.
Le cose di cui sorprendersi, semmai, sarebbero altre. Ad esempio, come è stato già notato anche da altri interventi su E&L, appare strano che, nonostante i costi (inclusivi dei profitti) dei Fip siano 4-5 volte superiori a quelli dei Fondi negoziali (cosicché per ottenere la stessa copertura pensionistica occorrono diverse annualità di contribuzione aggiuntiva), negli ultimi tempi le adesioni ai primi siano state superiori a quelle verso i secondi. Ma ancora più strano dovrebbe apparire che di fronte alla diffusa e crescente esigenza di aumentare la copertura pensionistica, il confronto tra i rimedi presi in considerazione e le scelte lasciate ai singoli vengano limitati alle diverse forme della previdenza privata a capitalizzazione, mentre viene del tutto esclusa anche la facoltà individuale di rafforzare il rapporto assicurativo con il sistema pubblico il quale, peraltro, offre le prestazioni più stabili e i costi di gestione più convenienti in assoluto.
In realtà, anche queste "stranezze" non devono stupire più di tanto; infatti esse confermano quanto il potere di convincimento degli interessi forti presenti nel mercato possa travolgere ogni tipo di considerazioni razionali se ai lavoratori e a tutta l'opinione pubblica non viene fornita una adeguata informazione. Quest'ultima condizione non è affatto garantita dalla concorrenza dei mercati finanziari la quale, in campo previdenziale, non assicura affatto soluzioni efficienti.
Ridimensionando, come sarebbe opportuno, il rilievo degli interessi di parte (più o meno legittimi e più o meno condivisibili), la situazione di stallo nell'iter della riforma pensionistica potrebbe e dovrebbe essere l'occasione per favorire una seria riflessione più generale e trasparente sulle politiche previdenziali in atto da diversi anni e sulle loro significative interconnessioni con i complessivi equilibri del sistema economico.
La questione generale e di grande rilievo economico e sociale che ci troviamo di fronte è come offrire una pensione adeguata a milioni di lavoratori la cui prospettiva attuale per la vecchiaia è di avere una copertura reddituale del tutto insufficiente; questo problema andrebbe affrontato e risolto non in base alla forza delle varie lobbies in campo, ma tenendo conto delle diverse conseguenze che da ciascuna delle scelte possibili deriverebbero per la funzionalità del sistema previdenziale, per gli equilibri finanziari della nostra economia e per la distribuzione del reddito nel paese.
Dopo le riforme degli anni '90, il problema principale del sistema pubblico non è la sua sostenibilità finanziaria ma l'inadeguatezza del suo grado di copertura. I miglioramenti di bilancio già ottenuti sono superiori a quelli preventivati e le previsioni circa il valore massimo della spesa rapportata al Pil - atteso fra circa tre decenni - sono scese dal 23% al 16% o anche meno.
Con riferimento alle esigenze del complessivo bilancio pubblico, va anche rilevato che, attualmente, le prestazioni previdenziali al netto delle trattenute d'imposta sono inferiori alle entrate contributive per circa un punto di Pil, cosicché è il bilancio della previdenza che alimenta positivamente quello pubblico e non viceversa.
Il miglioramento della sostenibilità finanziaria è stata tuttavia ottenuto a discapito dei tassi di sostituzione: un lavoratore dipendente con 35 anni di anzianità e a prescindere dall'età, con il sistema retributivo maturava una pensione che, rispetto all'ultima retribuzione, era pari al 67% nel settore privato e al 77% in quello pubblico; con il sistema contributivo a regime, andando in pensione a 62 anni, in entrambi i casi il tasso di sostituzione scenderà a circa il 50%; per i lavoratori autonomi e quelli con contratti atipici, che nel frattempo si sono molto diffusi, nelle stesse condizioni contributive e di età, il tasso di sostituzione sarà di circa il 30%. La loro ridotta indicizzazione fa sì che le prestazioni pensionistiche allontanino progressivamente le condizioni reddituali dei pensionati da quelli del resto della popolazione.
L'iniziale scarsa cognizione di questi effetti delle riforme - peraltro diluiti nel tempo - sicuramente ne favorì l'accettazione sociale e politica. Adesso che c'è più consapevolezza dell' inadeguata copertura pensionistica che si prospetta, i comprensibili e crescenti timori vengono strumentalizzati per derivarne - del tutto incongruamente - la necessità di una consistente diffusione della previdenza privata.
In realtà, lo sviluppo dei Fondi privati costituisce uno degli obiettivi qualificanti del nuovo corso delle politiche previdenziali avviato negli anni '90. Esso consentirebbe non solo di "modernizzare" il sistema pensionistico, arricchendolo di ulteriori "pilastri" accreditati di poter offrire maggiore remunerazione al risparmio previdenziale; sarebbe anche l'occasione per rafforzare il nostro sistema finanziario ed economico, dotandolo di più possenti investitori istituzionali.
Queste argomentazioni sono state sostenute con una pluralità di accenti adattati anche alle circostanze economiche e politiche. Ad esempio, cavalcando le illusioni generate nella fase di rigonfiamento speculativo dei rendimenti di Borsa si è sostenuto che l'adesione ai Fondi pensione avrebbero consentito anche ai lavoratori di partecipare ai dividendi della crescente ricchezza finanziaria; d'altra parte, ciò li avrebbe resi protagonisti della modernizzazione del sistema economico e finanziario.
Beneficiando della spinta proveniente da forze e interessi convergenti, dopo alcuni ritardi attuativi, la previdenza privata ha avuto un avvio incoraggiante - specialmente se si tiene conto delle contestuali e più concrete politiche di contenimento delle dinamiche salariali che ostacolavano la creazione del risparmio previdenziale aggiuntivo necessario per l'adesione dei lavoratori alla previdenza integrativa. Tuttavia, anche per l'improvviso dissolversi dei miraggi d'arricchimento finanziario (a tutt'oggi i Fondi hanno offerto rendimenti cumulati mediamente inferiori a quelli forniti dal Tfr), la diffusione dei nuovi Fondi si è arrestata.
La drastica smentita del richiamo più propagandato in favore della previdenza privata non ha però fatto venir meno una sua motivazione di carattere strutturale la cui condivisione, tuttavia, dovrebbe risultare politicamente più imbarazzante in quanto legata alle perduranti condizioni di arretratezza dell'economia italiana nonché agli interessi e alle miopi scelte economiche che essa fa prevalere.
Questi interessi e queste scelte hanno trovato espressione nel primo significativo atto economico deciso dal governo Berlusconi subito dopo il suo insediamento nel 2001, cioè nel disegno di legge delega in materia previdenziale che ha portato alla riforma pensionistica del 2004 e di cui si stanno attendendo le norme applicative.
Coerentemente a quel disegno di legge delega, nel Rapporto di strategia nazionale sulle pensioni redatto dal Governo nel 2002 si prefigura che la copertura pensionistica sia fornita per circa un quarto dai Fondi privati; ma per raggiungere questo risultato essi dovrebbero acquisire l'intero flusso del Tfr e le connesse contribuzioni aggiuntive dei datori di lavoro e dei lavoratori. Parallelamente ad un tale sviluppo dei Fondi privati, che dirigerebbe nuove risorse pari a circa il 10% del costo del lavoro a fini previdenziali, si rafforzerebbe ulteriormente la spinta a contrarre la previdenza pubblica e, dunque, la contribuzione delle aziende al suo finanziamento.
Questo obiettivo - che nell'iniziale disegno della legge delega era perseguito in via diretta mediante la decontribuzione e l'obbligatorietà del trasferimento del Tfr ai Fondi - potrebbe essere raggiunto comunque, anche dopo il forzato abbandono di quelle due misure: sfruttando l'automatismo asimmetrico del silenzio-assenso abbinato ad un'efficace combinazione di forti incentivi fiscali (costosi per il bilancio pubblico) e di una informazione dominata dalla campagna pubblicitaria favorevole ai Fondi (l'attuale diffusione dei Fip conferma quanto il potere dell'informazione possa inficiare la razionalità delle scelte individuali).
Se tale progetto si realizzasse, si avrebbero conseguenze preoccupanti da diversi punti di vista.
Senza cedere a suggestioni congiunturali, generalmente fuorvianti nell'analisi delle questioni previdenziali, va rilevato che la teoria economica e l'esperienza empirica non possono assicurare che nel lungo periodo i rendimenti di Borsa garantiranno pensioni superiori a quelle fornite dal sistema pubblico a ripartizione. Invece, l'entità e lo stesso segno di quei rendimenti sono caratterizzati da incertezza crescente, ed è sicuro che i Fondi abbiano costi di gestione più elevati. Uno sviluppo dei Fondi pensione che li rendesse non integrativi, ma sostitutivi rispetto alla previdenza pubblica aggiungerebbe all'aumentata instabilità dei redditi da lavoro la maggiore incertezza sull'entità delle prestazioni pensionistiche, con ciò riducendo la funzionalità del sistema previdenziale, la cui ragion d'essere è, invece, quella di fornire sicurezza di reddito per la vecchiaia.
Il passaggio ad un nuovo assetto pensionistico nel quale la previdenza privata a capitalizzazione avesse un ruolo significativo non risponderebbe affatto - come anche di recente è stato sostenuto da responsabili della politica economica - ad esigenze di modernizzazione della nostra economia. In realtà questo progetto è coerente e funzionale alle miopi politiche per la competitività prevalenti nel nostro paese le quali, accettando la scarsa propensione all'innovazione della nostra classe imprenditoriale che aggrava l'arretratezza del nostro sistema produttivo, si fondano essenzialmente sulla riduzione degli oneri salariali diretti e indiretti e sulla redistribuzione a favore dei profitti e delle rendite.
Lo sviluppo della previdenza integrativa e la corrispondente perdita di disponibilità degli accantonamenti per il Tfr da parte delle imprese sono sempre stati subordinati da queste ultime non solo alla condizione che l'intervento pubblico garantisca l'erogazione di prestiti alternativi da parte del sistema finanziario e che si accolli l'onere del differenziale tra il basso costo sostenuto per quella disponibilità e i tassi di mercato; contemporaneamente viene richiesta anche la riduzione degli oneri contributivi a carico delle imprese, risultato che viene perseguito appunto riducendo le prestazioni pensionistiche pubbliche (finanziate anche dalle imprese) e sostituendole con quelle dei Fondi privati (finanziate essenzialmente dal salario differito dei lavoratori).
Le peculiarità del nostro sistema produttivo caratterizzato da piccole imprese, dalla maggiore diffusione della proprietà familiare e dalla ritrosia ad accettare i vincoli connessi alle quotazioni in Borsa spiegano anche le limitate dimensioni di quest'ultima dovute, quindi, alla scarsità dell'offerta di titoli e non alla carenza di domanda o alla inadeguatezza dei nostri investitori istituzionali.
Le specificità del nostro sistema produttivo e finanziario aiutano a capire anche un preoccupante aspetto dell'allocazione dei capitali acquisiti dai nuovi Fondi pensione chiusi e aperti; attualmente degli 8 miliardi di contribuzioni che essi hanno accumulato ne investono solo il 3% in titoli azionari di imprese italiane, mentre oltre il 60% è allocato all'estero. Se, a seguito dell'acquisizione dei flussi che attualmente alimentano il Tfr, i Fondi si trovassero a disporre in pochi anni di risorse dell'ordine dei 100 miliardi di euro, come risultato si avrebbe la sottrazione alla disponibilità delle nostre imprese di un'ingente mole di risparmio nazionale che in buona parte andrebbe a finanziare i sistemi produttivi stranieri.
Un accentuato sviluppo della previdenza privata avrebbe dunque effetti controproducenti sia sulla funzionalità del sistema previdenziale, sulla distribuzione del reddito e sulla sicurezza sociale -sia sugli equilibri finanziari del sistema produttivo e sulle possibilità di stimolarne l'evoluzione in senso innovativo.
Queste argomentazioni fanno ritenere che, per contrastare la preoccupante carenza di copertura pensionistica che si prospetta per milioni di lavoratori, il modo più conveniente - nell'interesse generale - non sia affidarsi ad uno sviluppo esteso della previdenza privata e assecondare questo o quello tra gli interessi di parte in essa coinvolti. Tanto meno è accettabile che il ricorso ai Fondi pensione sia, per legge, addirittura l'unica possibilità lasciata ai lavoratori.
In base alla legislazione attuale e a quella che si prospetta con l'applicazione della riforma del 2004, i lavoratori dipendenti che dispongono del Tfr possono solo scegliere tra aderire a forme di previdenza privata o lasciare il loro salario differito nell'azienda dove lavorano - ma in tal caso perdono il contributo aziendale e l'incentivo pubblico che sono subordinati all'adesione ai Fondi.
Questi vincoli andrebbero rimossi. I lavoratori dipendenti dovrebbero avere la possibilità di utilizzare l'insieme degli accantonamenti per il Tfr, delle contribuzioni aziendali e degli incentivi pubblici anche per incrementare i versamenti alla previdenza pubblica e, corrispondentemente, aumentarne le prestazioni; le quali rimangono le più stabili e sicure, le meno costose da amministrare e non richiedono sottrazione di risparmio nazionale al nostro sistema economico. Invece è paradossale che lo Stato addirittura precluda ai lavoratori la possibilità di utilizzare tutto o parte di quelle disponibilità per incrementare il flusso di risparmio previdenziale già diretto al sistema pensionistico pubblico.
Per i lavoratori con contratti atipici, che non dispongono affatto degli accantonamenti per il Tfr, i cui redditi mediamente sono bassi e discontinui, anche nell'improbabile eventualità di contribuzioni molto lunghe e continuative, la normale applicazione del sistema contributivo non lascia speranza di maturare una pensione adeguata. Per questi lavoratori, la previdenza a capitalizzazione è impraticabile; per essi, non solo l' implementazione del sistema pubblico è una scelta ancora più necessaria, ma va ripensata anche l'applicazione del metodo contributivo.
Ferma rimanendo l'attuale impostazione generale del sistema pubblico che collega le prestazioni alle carriere retributive, per queste nuove figure di lavoratori vanno individuate le possibilità di ampliare le basi di finanziamento delle loro pensioni.
Interventi di questo tipo potrebbero essere attuati nell'ambito dell'architettura dell'attuale sistema pensionistico, operando anche sulla distinzione, già applicata, tra aliquote contributive a carico dei lavoratori e aliquote di computo. Questa strada, però, andrebbe praticata facendo molta attenzione al rischio di accentuare la già presente segmentazione del mercato del lavoro generata dal differente costo contributivo delle nuove figure lavorative. In ogni caso non è possibile affidare più di tanto al sistema pensionistico il compito di compensare le anomalie presenti nei contratti di lavoro che, più linearmente, andrebbero rimosse all'origine.
Attenendosi a considerazioni di puro merito, dovrebbe essere chiaro che, sia per ragioni di funzionalità ed efficienza del sistema pensionistico, sia per motivazioni economiche generali anche legate alle caratteristiche specifiche del nostro sistema produttivo e finanziario, il compito di assicurare una pensione adeguata alla generalità dei lavoratori dovrebbe essere affidato al sistema pubblico a ripartizione. La previdenza a capitalizzazione dovrebbe avere un ruolo accessorio e le autorità di controllo dovrebbero essere molto efficaci nel rappresentare i rischi che essa comporta a chi liberamente volesse aderirvi.
Il sostegno pubblico alla previdenza privata dovrebbe essere rapportato alla sua funzione aggiuntiva. Con le applicazioni della riforma del 2004, invece, per il bilancio pubblico si prospetta un aggravio consistente e cumulativo di anno in anno derivante dalla necessità di finanziare: il differenziale tra il tasso d'interesse di mercato e il minor rendimento degli accantonamenti per il Tfr applicato a quanta parte di essi verranno trasferiti ai Fondi pensione; il costo del fondo di garanzia sui prestiti accordati dalle banche più o meno automaticamente a tutte le imprese che hanno ceduto il Tfr; i vantaggi fiscali concessi ai contributi versati ai Fondi dalle imprese, a quelli aggiuntivi dei lavoratori e ai rendimenti finanziari delle gestioni dei Fondi; le eventuali ulteriori fiscalizzazioni di oneri contributivi.
In ogni caso vanno ripensate le modalità esistenti che consentono di detrarre i versamenti ai Fondi pensione dal reddito imponibile di chi vi aderisce. In tal modo, il contributo pubblico offerto per soddisfare un bisogno di sicurezza sociale non solo è paradossalmente condizionato dall'esistenza di una sufficiente disponibilità di reddito individuale; ma per chi riesce ad usufruirne, l'ammontare dell'incentivo è proporzionale alla sua aliquota fiscale marginale che è maggiore per i titolari di redditi più elevati.
Viene così confermato che quando una funzione sociale è affidata a meccanismi di mercato, il tipo di solidarietà che spesso si verifica è quella che va dai poveri ai ricchi.
Venerdì, 4. Novembre 2005