Fisco demagogia e beni pubblici

Il progetto del centro-destra di tagliare le tasse con l'intento di rilanciare la domanda interna non sta in piedi. Non sta in piedi sul piano economico e, contrariamente a quanto sembrano pensare anche alcuni politici del centro-sinistra, nemmeno su quello politico.

Incominciamo dagli aspetti economici. La prima cosa da dire è che l'ipotizzato taglio delle tasse si scontra con una impraticabilità contabile. Sebbene il governo Berlusconi insista nel vantare "conti migliori di Francia e Germania" la realtà è che la finanza pubblica italiana, proprio negli ultimi tre anni, ha accumulato un disavanzo occulto. Anzi, occultato. Che condoni e cartolarizzazioni faticano sempre più a nascondere.
Per di più questo disavanzo è della peggiore qualità. Esso sconta infatti fattori di miglioramento che dipendono dall'esterno (come i bassi tassi di interesse che hanno permesso di contenere il costo del debito) e di peggioramento che dipendono invece dalla gestione interna (come l'aumento per gli acquisti di beni e servizi).
Per questo motivo, oltre che per un indebitamento superiore al Pil, difficilmente l'Europa potrebbe accordare ad un aumento del disavanzo italiano, dovuto a riduzione di tasse, la stessa comprensione dimostrata verso Francia e Germania. Comprensione contro la quale, per altro, pende un ricorso della Commissione.

Oltre tutto, a favore della prevedibile severità dell'Europa, giocherebbe l'assoluta inconsistenza della tesi secondo la quale l'economia italiana potrebbe trarre vantaggio da una riduzione del prelievo fiscale sulle persone fisiche. Considerato il clima di insicurezza e precarietà nel quale vivono milioni di persone è infatti del tutto improbabile (e comunque piuttosto azzardato) dare per scontata la destinazione a consumi dell'ipotetico beneficio fiscale. A maggior ragione se le risorse per ridurre le tasse fossero reperite con tagli dei trasferimenti a regioni e comuni. Perché, in tal caso, delle due l'una: o vengono aumentate le addizionali per le imposte locali, oppure vengono aumentati i costi dei servizi. A cominciare dai trasporti,  o dai tikets sanitari. Nell'uno e nell'altro caso, il risultato comunque non cambia: ciò che la maggioranza delle famiglie risparmierà sulle imposte nazionali evaporerà in imposte locali od in aumenti dei costi dei servizi pubblici. Senza nessun significativo effetto espansivo sui consumi delle famiglie. Ma quand'anche questo si dovesse miracolosamente verificare, bisogna dire che il beneficio per il sistema produttivo italiano sarebbe minimo.

Come quasi tutti sanno (evidentemente ad eccezione di chi ci governa) il problema cruciale dell'economia italiana è la perdita di competitività. La debolezza della domanda interna deriva infatti in primo luogo dalla circostanza che vasti settori del sistema produttivo nazionale non sono in grado di reggere la concorrenza dei Paesi emergenti. Quindi anche se si facesse affidamento sulla teoria secondo la quale una riduzione delle imposte si finanzia da sola con l'aumento del gettito prodotto dalla crescita economica che quella stessa riduzione induce, il caso italiano la esclude comunque. Perché l'eventuale, ipotetico aumento della domanda finirebbe per favorire soprattutto le importazioni. Basta dare un occhiata ai dati sul commercio mondiale per rendersi conto della tendenza al peggioramento della posizione italiana.

Non è quindi difficile capire che, stante l'attuale realtà italiana, una manovra di alleggerimento fiscale può corrispondere a motivazioni elettorali, ma non ha alcuna plausibile motivazione economica. Se la politica economica italiana, invece di essere affidata ad un fiscalista (esperto nell'escogitare metodi di elusione ed erosione fiscale) fosse stata in altre mani forse persino il governo si sarebbe reso conto che la priorità per l'Italia consiste in un recupero di competitività. Invece, purtroppo, di fronte alla crescita dei paesi emergenti il Governo ci ha fatto perdere tre anni. Perché si è  illuso di poter fronteggiare la loro concorrenza con la precarietà e la compressione del costo del lavoro.
Il solo risultato è stato quello di portare l'economia italiana in un vicolo cieco. Il nostro sistema produttivo continua infatti a perdere terreno malgrado un costo del lavoro tra i più bassi, una flessibilità tra le più alte d'Europa, una fiscalità nella media europea ed un costo del danaro assestato da anni su minimi storici. Stando così le cose, è evidente che il sistema produttivo continuerebbe a declinare anche se la domanda interna venisse sostenuta con una manovra fiscale miracolosamente capace di risolversi davvero in un aumento del reddito di cui le famiglie possono  liberamente disporre.
Sarebbe quindi indispensabile che, nel caso la finanza pubblica potesse davvero offrire qualche insperato margine di manovra, le risorse disponibili venissero destinate ad impieghi in grado di accrescere la competitività del sistema produttivo. A cominciare dalla spesa per la ricerca e l'innovazione. In difetto converrà rassegnarsi all'idea che, senza un recupero di competitività, di tasse se ne pagheranno di meno. Ma solo perché si ridurranno inesorabilmente i redditi da tassare.
 
La vulgata "meno tasse per tutti", oltre che impraticabile sul piano economico è anche in contraddizione con il fatto che nelle nostre società crescono i bisogni pubblici. La difesa dal terrorismo è un esempio di attualità. In un mondo globalizzato questo è un compito oneroso degli Stati e della loro cooperazione. La lotta al terrorismo se fatta con gli strumenti giusti (ed efficaci) è più costosa della guerra fatta con le bombe (oltre tutto inefficaci).
La crescita economica e civile poi ha portato nuove esigenze di qualità ambientale. Ma è difficile  e soprattutto costoso riciclare i rifiuti, mantenere puliti i prati e le strade, le acque, ordinare il traffico, assicurare i controlli contro le epidemie, rendere ecologicamente sostenibile una convivenza sempre più mobile ed affollata. Inoltre la richiesta di "ordine pubblico" si fa più complessa e pressante in società nelle quali si mescolano etnie e stili di vita diversi. Ma potenziare e rafforzare la polizia, correggere la lentezza della giustizia e l'indecenza delle carceri, non può che impegnare quote crescenti di reddito nazionale.
Pur potendo contare anche su strutture sanitarie e scolastiche nominalmente private, la salute e l'istruzione restano beni pubblici. Perché disporne è un diritto umano e chi ne beneficia ne avvantaggia tutta la società. Sempre più chiari sono i benefici della ricerca scientifica, mentre cresce la scala degli investimenti che essa richiede. L'esigenza di infrastrutture cresce rapidamente, anche perché la società moderna è sempre più mobile.
Insomma, c'è sempre più bisogno di beni pubblici complessi e costosi. La loro produzione è anche un modo efficiente per attenuare le diseguaglianze di redditi e di opportunità, perché alza la qualità e la durata della vita di cui tutti possono disporre. Costruire un parco pubblico redistribuisce più benessere che sussidiare un impiego inutile.

Eppure da almeno vent'anni in molti paesi (compresa l'Italia) sembra crescere il numero di quanti pensano che la cosa pubblica sia più un problema che una soluzione. La tendenza a ""privatizzare" e "deregolamentare" è sicuramente una reazione alle offese del malgoverno, accompagnate dalla deprecabile mentalità che "le cose di tutti non sono di nessuno" e quindi possiamo disinteressarcene. E' diventato un luogo comune considerare l'intervento dello Stato in economia sinonimo di spreco, di inefficienza, di opportunismo politico, di freno alla crescita. Se la crescita frena, o peggio, si inceppa diventa ancora più forte la richiesta a togliere "lacci e lacciuoli" ed abbassare le imposte. Questa è sempre ed ovunque la ricetta della destra. La sinistra è solo più cauta, ma (non importa se per calcolo elettorale, o per limiti culturali) poco incline ad una politica alternativa.
Non è quindi inutile porci alcune domande. Siamo proprio sicuri che anche lo sviluppo quantitativo, non solo quello qualitativo, non richieda una rinnovata attenzione alla produzione di beni pubblici? Abbiamo fatto tutto il possibile prima di rinunciare all'ambizione di ottenerla in modo soddisfacente? Perché non provare a capovolgere la tendenza in atto e far diventare la produzione di beni e servizi pubblici il cuore dei nostri sforzi di efficientismo, uno dei motori importanti su cui contare per crescere di più e meglio? Non dimentichiamo che l'Italia (come l'Europa) è cresciuta per oltre trent'anni a ritmi sostenuti espandendo soprattutto l'economia pubblica e lo Stato Sociale. Una cosa quindi è eliminare parassitismi, inefficienze, corporativismi, altro è invece assecondare la moda scriteriata di un ridimensionamento della produzione di beni pubblici. Avallando una deriva della quale vengono pericolosamente sottovalutate le conseguenze. Gli esempi su cui riflettere sono molti ed investono funzioni da che dovrebbero essere ritenute esclusive dello Stato democratico. Si va infatti dalla privatizzazione della sicurezza e persino della guerra, alla modifica della "legittima difesa" che affida, di fatto, ai cittadini il compito di farsi giustizia da soli.
Sicché rivalutare la produzione di beni e servizi pubblici, pretendendone contemporaneamente una verificabile efficienza, contribuirebbe anche ad accrescere la democrazia e ad affinare i nostri criteri di giudicare e controllare i politici. Perché li costringerebbe alla concretezza. Soprattutto li indurrebbe a non sbandierare come miracoloso ciò che non è altro che un gioco delle "tre carte" fatto di tagli di tasse e di spesa pubblica. Li costringerebbe infatti a dovere prendere finalmente atto che non è possibile "confortare i tormentati" senza "tormentare i confortati". Appunto l'esatto contrario dei tagli di tasse ai ricchi.
Presa d'atto che, ovviamente, non esclude una possibile rimodulazione del sistema fiscale sull'attività produttiva. Nulla impedisce infatti una diminuzione dell'Irpeg, compensando il minor gettito con l'introduzione di una imposta patrimoniale e la reintroduzione dell'imposta di successione. Soluzione che, se adottata, favorirebbe nello stesso tempo: una maggiore equità, un maggiore dinamismo produttivo (perché incoraggerebbe soprattutto le nuove iniziative), una progressiva trasformazione del capitalismo familiare, che costituisce un tappo allo sviluppo produttivo italiano.
 
E' ovvio che una rivalutazione della produzione di beni e servizi pubblici non ha nulla a che spartire con una difesa acritica della presenza dello Stato nell'economia. Tanto più nelle forme e nei settori con cui si è storicamente (e casualmente) determinata nel secolo scorso. Lo Stato che produce panettoni e merendine ha infatti sempre avuto poco a che fare con strategie industriali ed, al contrario, molto con il soccorso ad un capitalismo di rapina. In effetti, l'intervento dello Stato ha costituito assai spesso un generoso rimedio (tanto economico che giudiziario) per il fallimento dei privati. Anche quando si è tentato di giustificarlo con l'esigenza di difendere i posti di lavoro.
Proprio perché nella maggior parte dei casi questa è stata la genesi, è evidente che non può  sussistere alcuna riserva verso la privatizzazione di attività produttive pubbliche non essenziali ai fini della qualità dell'organizzazione sociale, o dell'eguaglianza tra le sue componenti. Di questo processo va semmai deprecata la privatizzazione  "alla Russa" di interi settori dei servizi. Si pensi alla telefonia, alle autostrade, o ad altri settori, dove sono state fatte privatizzazioni senza liberalizzazioni. Con il risultato di una ingiustificata privatizzazione di vere e proprie rendite monopolistiche. E' il caso, per fare un solo esempio, della telefonia. Dove il nuovo gestore privato (grazie al controllo monopolistico della rete fissa) ha potuto addirittura accrescere la quota di mercato nell'intera telefonia, rispetto a quello della preesistente azienda pubblica.
Ugualmente incomprensibile appare anche la (sempre più esosa) difesa di una "compagnia di bandiera" nel trasporto aereo. Tanto più che nessuno sembra in grado di spiegare quale significato può mai avere una compagnia di bandiera nazionale, in una fase nella quale gli Stati nazionali (europei) hanno sempre minore ragione d'essere. Perciò, invece di sperperare tempo e risorse in un impossibile salvataggio di una compagnia di bandiera autartica, sarebbe probabilmente più utile lavorare alla costituzione di una compagnia di stampo europeo, sia per dimensioni che per radicamento.
Altrettanto singolare è il caso della Rai. Parliamoci chiaro: il mantenimento di tre reti analogiche pubbliche serve soltanto a Mediaset. Perché è il pretesto per conservare lo status quo ed impedire (come invece sarebbe necessario) una riorganizzazione del mercato televisivo. In effetti per assicurare il "servizio pubblico televisivo" sono più che sufficiente due reti: una nazionale ed una regionale. Finanziate esclusivamente con il canone. Il che libererebbe risorse pubblicitarie per altri operatori dei media. Per di più, questa soluzione comporterebbe un innegabile vantaggio qualitativo. Sicuramente sui programmi della televisione pubblica e, probabilmente, "per contagio" su tutto il sistema televisivo. In ogni caso, una televisione pubblica non più schiava dei dati di ascolto, ma soprattutto non più costretta a riempire di programmi tre reti, potrà finalmente liberarsi dal condizionamento che la spinge inesorabilmente alla omologazione con la "televisione deficiente". E francamente è arduo capire da dove e da cosa possa nascere il bisogno di una televisione pubblica "deficiente" .
In definitiva, una forte iniziativa per lo sviluppo dei beni e dei servizi pubblici non può essere confusa con la difesa dell'esistente. Difesa che, purtroppo, conta un buon numero di devoti. Non solo a destra. Ma anche a sinistra. Malgrado l'esperienza dovrebbe avere abbondantemente insegnato che l'esistente è sempre il prodotto, più o meno, casuale della storia. E perciò può (o dovrebbe) cambiare con il mutare del contesto storico.
La battaglia per l'accrescimento e la riqualificazione di beni e servizi pubblici dovrebbe costituire invece soprattutto il detonatore di una indispensabile innovazione sociale. Operazione irrinunciabile se il proposito è di rimettere in moto il paese. E comunque, cammino obbligato anche per chi intenda soltanto dare una risposta a  problemi che il mercato, da solo, non sa e non può risolvere.
Lunedì, 21. Giugno 2004
 

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