Finalmente un record per l'Italia: gli indipendenti

Nessun paese europeo ne ha quanti noi e solo quelli poco sviluppati raggiungono percentuali simili rispetto al totale dell'occupazione. I motivi sono vari, e tra le conseguenze una merita di essere sottolineata: che senso ha, in questa situazione, insistere sulla flessibilità del lavoro?
Va all'Italia il record europeo del lavoro indipendente, con una percentuale che sfiora il 28 per cento sul totale degli occupati. Si tratta delle percentuale più elevata in tutta Europa e nessuno sembra in grado di insidiarci perché il dato italiano è in costante crescita. Siamo infatti passati dal 27,5 per cento del 2003 al 28 per cento del 2004.
 
L'Ocse parla di vera e propria "anomalia italiana". Perché, in effetti, questa forma di occupazione risulta prevalentemente diffusa nei paese a basso reddito pro-capite. Ad esempio: in Turchia è il 49,4 per cento; in Messico il 37,1; in Corea il 34,9. Invece, secondo i dati (diffusi da "Factbook  2005" dell'Ocse) la media italiana di lavoratori indipendenti in tutta Europa è avvicinata solo dai Paesi della penisola iberica. In particolare dal Portogallo che arriva al 26,8 per cento; a maggiore distanza la Spagna con il 18,6 per cento. Decisamente più basse poi le quote della Germania (11,4 per cento) e della Francia (8,8 per cento). Anche se con una  minore differenza, manteniamo saldamente il primato pure nei confronti dei paesi entrati solo di recente nell'Unione Europea. La Polonia si attesta infatti al 27,3; la Repubblica Ceca al 17,3; l'Ungheria al 13,5.

Come si può spiegare il poco invidiabile primato italiano di lavoro indipendente rispetto a tutti i  Paesi dell'Unione Europea? E' presto detto. Gran parte dei 4.230.000 "indipendenti" occupati nei servizi, dei 1.517.000 nell'industria, dei 593.000 nell'agricoltura (dove superano il numero dei dipendenti, fermo a 441.000) sono in realtà lavoratori dipendenti camuffati da autonomi. I Co.co.co., i lavoratori a "progetto", i "subordinati" costretti alla partita Iva per riuscire a lavorare, sono tra le forme di rapporto incoraggiate dalle imprese per evitare i fastidi di assunzioni e licenziamenti e per lucrare un alleggerimento fiscale e contributivo che diversamente graverebbe sulle aziende.
 
Giocano inoltre anche la particolare struttura produttiva italiana costituita in buona misura da piccole imprese, per le quali la crescita avviene, molto spesso, al di fuori dell'azienda stessa. Ci sono infine i cambiamenti che hanno coinvolto interi settori. Basti pensare all'edilizia. Fino a qualche anno fa le imprese edili avevano centinaia, a volte migliaia, di dipendenti. Oggi una impresa edile è fatta dal titolare e da una segretaria. Il resto è tutto appalto e subappalto.

Accanto a queste motivazioni, per così dire strutturali, ce ne sono poi altre che aiutano a capire la crescita del lavoro indipendente degli ultimi anni. Le politiche fiscali e soprattutto i condoni hanno cambiato in modo significativo la distribuzione del reddito tra lavoratori dipendenti ed indipendenti, a favore di questi ultimi. Negli ultimi due anni (secondo i dati della Banca d'Italia) i redditi delle famiglie con capofamiglia un lavoratore indipendente sono aumentati dell'11,7 in termini reali; mentre quelli con capofamiglia lavoratore dipendente sono diminuiti del 2,1 per cento, sempre in termini reali. Insomma, i lavoratori autonomi hanno sensibilmente migliorato la loro situazione economica. I lavoratori dipendenti l'hanno invece nettamente peggiorata.
 
Stante questo sviluppo non si fa fatica a capire che un certo numero di coloro che svolgevano "alle dipendenze" un lavoro con importanti contenuti professionali abbiano cercato (quando il loro potere contrattuale lo ha consentito) di trasformare la  prestazione da dipendente in autonoma. Per migliorare la propria libertà nel lavoro e soprattutto il proprio reddito.

Che in questo contesto si insista con la tesi che il recupero di competitività al nostro apparato produttivo dipenda da un accrescimento ulteriore della flessibilità del lavoro e del salario per quanti lavorano alle dipendenze è una stravaganza che solo la cultura della destra può formulare senza arrossire. Oppure si deve dare ragione a Musil ("L'uomo senza qualità") quando sostiene che: "Se di dentro la stupidità non somigliasse straordinariamente all'intelligenza, se di fuori non si potesse scambiare per progresso, genio, speranza, perfezionamento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe".
Mercoledì, 8. Febbraio 2006
 

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