Fiat, una crisi scritta nei geni

E' sconsolante assistere alla partita fra il potere politico e ciò che resta del sistema industriale

La crisi dell’auto italiana, targata Fiat e famiglia Agnelli, sta arrivando drammaticamente all’epilogo. Il declino era in atto da tempo ed ora molti segni lasciano presagire il collasso finale.
Come si è arrivati a questo disastro? Qualche sintetico riferimento alla storia della Fiat può, probabilmente, aiutare a capire. La Fiat (prima quella del fondatore Giovanni Agnelli e poi quella di Valletta) si consolida e cresce con la compiacenza del potere politico che le garantisce, tra l’altro, un mercato protetto. Negli anni cinquanta, anche grazie alla dimensione che è riuscita ad acquisire, la sua l’influenza economica e politica si espande. Se infatti ha costantemente bisogno del potere politico, è però anche sempre più in grado di condizionarlo.

La crescita economica ha posto le basi per un allargamento dei consumi sul mercato interno, favorendo così anche l’avvio della motorizzazione di massa. Quello che verrà definito “miracolo economico” cambia il volto dell’Italia. In pochi anni il paese tende a modernizzarsi. Anche se a prezzo di gravi e sempre irrisolti squilibri. In quegli anni però, le modalità e la direzione dello sviluppo non sono decise dal potere politico (che, di fatto, si limita ad avallarle), ma soprattutto da tre personaggi di rilievo che sono a capo delle principali strutture produttive del paese. E precisamente da Vittorio Valletta, Oscar Sinigaglia, Enrico Mattei. Il primo è alla guida della Fiat, gli altri dei due maggiori gruppi di aziende pubbliche (la Finsider e l'Eni). Queste ultime, come fornitrici di acciaio e di benzina, hanno però un ruolo tendenzialmente ancillare rispetto all’automobile.

La preminenza dell’auto, unita alla posizione centrale della Fiat in campo tecnologico e produttivo, ed alla concentrazione di decine di migliaia di dipendenti, fanno del gruppo torinese l’epicentro del capitalismo industriale italiano. La sua pratica dei rapporti sociali, fondata su una miscela di paternalismo e repressione, la trasformano anche nel luogo simbolico dello scontro di classe. Questo spiega perché, in tutto il dopo guerra, le vicende sindacali della Fiat si colorano sempre di significati politici forti. In certi casi persino eccessivi.

L’immaginario collettivo non è influenzato soltanto da chiavi di lettura politico-ideologica. Contano e molto anche i dati di fatto. In venti anni, dal 1951 al 1971, i dipendenti del gruppo passano infatti da poco più di 70 mila ad oltre 180 mila. Alla fine degli anni 60 (con l’acquisizione dell’Autobianchi e della Lancia) la Fiat controlla il 95 per cento della produzione italiana di autovetture. Controllo che diventa totale negli anni ottanta quando riesce, prima a sbarrare la strada ai giapponesi ed alla Ford, e poi a mettere le mani sull’Alfa Romeo.

Fino agli inizi degli anni 70, di fronte alle grandi opportunità di mercati in espansione e forte di un successo che sembra strepitoso ed inarrestabile (diventa il secondo produttore europeo superato, per una sola incollatura, dalla Volkswagen) la direzione della Fiat concentra l’attenzione e gli sforzi sull’incremento della produzione. Le questioni sindacali e sociali (che del resto non avevano mai costituito il fulcro delle preoccupazioni della dirigenza aziendale) vengono relegate nel retrobottega. Nel gruppo dirigente Fiat predomina infatti la convinzione che l’aumento, seppure graduale, del tenore di vita degli italiani avrebbe, da solo, posto rimedio ai problemi ed agli squilibri sociali. Il modello di organizzazione produttiva resta perciò la fabbrica gerachico-autoritaria.

Intenta soprattutto ad inseguire gli obiettivi di produzione la dirigenza non sembra nemmeno rendersi conto che, sotto la superficie di una apparente tranquillità, cominciano a ribollire (sia in azienda che nel paese) tensioni sociali che, se lasciate senza risposta, potrebbero produrre un vero e proprio moto sussultorio.

Invece di occuparsene la direzione aumenta i ritmi delle catene di montaggio, per recuperare guasti ed imprevisti. Questo avviene mentre il vantaggio salariale di cui, per una quindicina d’anni, avevano goduto i dipendenti Fiat prima si affievolisce e poi scompare del tutto.

Malgrado sintomi sempre più vistosi la vecchia dirigenza, abituata ad una gestione accentratrice modellata su schemi fondamentalmente burocratico-militari, non si avvede del fuoco che cova sotto la cenere. Mentre i giovani funzionari, costretti in una struttura gerarchica che riconosce e premia soltanto anzianità ed ubbidienza, si guardano bene dall’esprimere ad alta voce i propri dubbi. L’azienda si ritrova così del tutto impreparata di fronte all’esplosione della conflittualità sociale della fine degli anni sessanta.

Inizia allora un declino che non avrà più fine. Alla crisi traumatica del vallettismo, alla sclerosi culturale ed organizzativa, si somma infatti la perdita (irreparabile) del controllo pressoché assoluto sul mercato interno. Una azienda poco abituata a competere sul mercato si ritrova improvvisamente nella sgradevole necessità di dovere fare i conti con la concorrenza. Nel 1972 cadono infatti le ultime barriere protettive. Alla perdita di questo sistema di difesa si aggiungono pure gli squilibri negli scambi internazionali, determinati sia dallo sganciamento del dollaro dall’oro che dalla prima crisi petrolifera.

Quindi, a partire dall’inizio degli anni settanta, tra alti e bassi (per la verità, più bassi che alti), tra rilanci (verbali) ed arretramenti (sostanziali), la Fiat e l’auto italiana non riescono più a frenare la discesa. Vengono inesorabilmente perdute quote di mercato ed ancora di più addetti al settore. Dalla metà degli anni 80 alla metà degli anni 90 i dipendenti dell’auto si dimezzano, per dimezzarsi ulteriormente negli ultimi sette anni. La Fiat auto oggi ha meno di un quarto dei dipendenti di quanti ne aveva quando ha incorporato l’Alfa Romeo. Ed anche questa minoranza di sopravvissuti sa perfettamente che, senza cambiamenti radicali, per loro non c’è futuro.

Per cercare di capire lo sviluppo degli avvenimenti si deve tenere ben presente un punto. La Fiat è andata bene fin che ha potuto agire in un mercato protetto. Le cose hanno incominciato a cambiare inesorabilmente quando ha dovuto competere con gli altri. Era proprio inevitabile questa deriva? Non necessariamente. A parte i limiti e gli errori manageriali, che hanno indiscutibilmente aggravato le difficoltà, si sarebbe però dovuto affrontare un problema cruciale. Scelta sempre accuratamente evitata perché il “difetto era nel manico”. In un mercato dell’auto prevalentemente di sostituzione, fare auto competitive è sempre più difficile, ma soprattutto sempre più costoso. Occorrono molti soldi da investire. Risorse difficili da mettere assieme quando, come nel caso della Fiat, l’azionista di riferimento è una famiglia. Non in grado di fare fronte da sola agli ingenti investimenti richiesti. E, come se questo non bastasse, anche intenzionata, non solo a mantenere il controllo della società, ma anche a differenziare l’impiego delle risorse disponibili, orientandone una parte sempre più significativa verso settori ritenuti potenzialmente in grado di dare maggiori soddisfazioni economiche.

Con meno soldi di quanti sarebbero stati necessari e nemmeno tutti concentrati sul “core businnes”, non c’era bisogno di essere esperti del settore per capire che le vicende della Fiat erano destinate ad andare sempre peggio. Cosa che infatti si è puntualmente verificata.

In questo contesto è esplosa l’ultima crisi. Il suo svolgimento è noto. La Fiat vara, con la complicità del governo che lo avalla, un “piano industriale di risanamento e di rilancio”. In realtà si tratta semplicemente di misure di ridimensionamento rese necessarie dalla continua perdita di quote di mercato ed oliate con denaro pubblico per cercare di renderle socialmente meno indigeste. Sono misure che non dispiacciono alle banche creditrici, ma sono vigorosamente respinte da lavoratori e sindacati che, giustamente, le interpretano come “l’inizio della fine”.

Del resto, bastano pochi giorni per avere la conferma che quello presentato non è un “piano industriale”, ma (come verrebbe più appropriatamente definito a Napoli) “un pacco”, senza altro scopo che consentire all’azionista di riferimento di uscire dall’auto, lasciando sul lastrico qualche migliaio di lavoratori, senza tuttavia dover pagare in proprio un pedaggio esoso. E così, mentre l’inchiostro del cosiddetto “piano” non è ancora asciugato, Umberto Agnelli invita Paolo Fresco e Gabriele Galateri (cioè i due che lo hanno elaborato e presentato) a lasciare la guida del gruppo. Invito, per ora, accolto dal solo Galateri, mentre Fresco resta in “lista d’attesa”.

Proprio questo singolare aspetto lascia supporre che Berlusconi conoscesse fin dall’inizio i veri propositi del “giovane” Agnelli. Del resto, l’aveva lasciato chiaramente intendere con un paio di sortite, altrimenti estemporanee, sulla necessità di sostituire i managers al vertice dell’azienda e sulla creazione di un polo di auto di lusso nel quale avrebbero dovuto confluire Ferrari, Maserati ed Alfa. Nella recita messa in scena, Berlusconi con un occhio ha cercato di vedere se nell’armadietto dei medicinali c’erano dei farmaci che avrebbero potuto abbassare la febbre sociale prodotta dalla crisi Fiat, con l’altro ha invece guardato soprattutto alle possibilità (offerte dalla situazione) di influire sul riassetto del capitalismo italiano.

A questo punto come se ne esce? Difficile fare una previsione. L’unica cosa chiara è che la famiglia Agnelli non ha i mezzi (e probabilmente nemmeno la voglia) per mantenere il controllo sul settore dell’automobile. Quindi le alternative possibili sono soltanto due. La prima è che nell’azionariato di controllo della Fiat vengano fatti entrare nuovi soci in grado di mobilitare le cospicue risorse finanziare indispensabili per risanare e rilanciare la produzione italiana di automobili. La seconda è che Fiat auto venga venduta. Tutta assieme, od a spezzatino (come prevederebbe il contropiano predisposto da Mediobanca ed Umberto Agnelli).

Contropiano che però la Fiat ha smentito. Probabilmente anche allo scopo di tranquillizzare le banche creditrici, piuttosto irritate per il cambiamento delle carte in tavola. In ogni caso, la prima alternativa richiederebbe una indispensabile, vigorosa azione di governo, fondata su un solido disegno (o perlomeno qualche persuasiva idea) di politica industriale. Ma, proprio per questo, si tratta probabilmente di una condizione con scarse se non inconsistenti possibilità di essere realizzata. Considerato che il governo, fino ad ora, si è dimostrato più interessato ai possibili nuovi assetti di potere che alla politica industriale.

A sua volta la seconda ha il non piccolo inconveniente di portare (più o meno gradualmente, ma inesorabilmente) all’uscita dell’Italia dall’automobile. Intesa come settore industriale integrato. Potrebbe anche non essere un dramma se ci fossero convincenti e credibili scelte di sviluppo alternativo. Che però nessuno, a cominciare dal governo, sembra in grado di mettere concretamente sul tavolo.

Stando così le cose hanno ragione lavoratori e sindacati di essere preoccupati e pretendere di capire dove si sta andando a parare. A loro non può perciò che andare l’incondizionata solidarietà di tutte le persone ragionevoli. Più difficile aggiungervi anche la speranza. Almeno fintanto che, nella partita in corso tra potere politico e quel che resta del sistema industriale e finanziario italiano, l’ultima cosa che conta diventa il destino delle aziende e soprattutto il patrimonio di lavoro e di capacità che esse custodiscono.

Giovedì, 12. Dicembre 2002
 

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