Fiat, un uomo solo al comando

Chiuso brillantemente il 'divorzio di San Valentino' Marchionne ha di fatto assunto quei poteri che Morchio aveva chiesto senza risultato. Sembra che punti soprattutto su un recupero di efficienza, ma quella che deve giocare è una partita essenzialmente politica in senso ampio

Nulla meglio della complessa procedura di divorzio fra Fiat e Gm ha il merito di sintetizzare la radicale trasformazione dello scenario mondiale dell'industria automobilistica. I discorsi in circolazione cinque anni fa sembrano appartenere a una stagione economica lontana. Il valore delle azioni della Gm, attestato a più di 80 dollari nel 2000, è sceso ora attorno ai 37 (quanto alla performance di Borsa della Fiat, il suo titolo rivela ormai l'incapacità a varcare la soglia dei 6 euro). Nel frattempo, si dà per certa, fors'anche prossima e non più differita al 2010, l'ascesa della Toyota a leader mondiale.

In termini di produzione, la Fiat ha perso in un quinquennio circa un milione di vetture e non prevede effettivi incrementi della sua quota di mercato. Ma è l'industria dell'auto, con la sua eccedenza di capacità produttiva, ad apparire come un terreno sempre più temibile e insidioso da presidiare: oggi i casi aziendali di riferimento sono diventati, oltre alla Toyota, la Nissan risanata da Carlos Ghosn (adesso collocato alla testa della Renault), ma anche gruppi di dimensioni minori come la Psa e la Honda, o di relativa nicchia come la Bmw.

Dopo il "divorzio di San Valentino" (la definizione è dell'Economist), per la Fiat è incominciato il passaggio più difficile e cruciale. Essa rivendica una piena libertà d'azione, che dovrebbe tradursi in una nuova politica delle alleanze: ma con chi? Scrive ancora l'Economist: "[…] chi vorrebbe infittire i suoi legami con un'impresa debole come la Fiat?". Dopo un'occhiata alle varie possibilità, verrebbe da concludere che non resta che la Cina, alla ricerca di tecnologia per i motori d'auto e, chissà, magari interessata a porre un piede in Europa.

Non è con questi criteri soltanto, tuttavia, che può essere giudicato il cammino di risanamento in cui la Fiat di Marchionne si è imbarcata. All'indomani del consiglio d'amministrazione del Gruppo del 28 febbraio (dove si è preso atto di una perdita dell'Auto per il 2004 di 840 milioni di euro), il Lingotto ha preso pubblicamente impegni molto gravosi, specificando che non sono in programma né riduzioni del personale né chiusure d'impianti. Termini, questi, che tradiscono un indubitabile senso politico.

La crisi della Fiat non può essere gestita, per la sua storia e il peso politico che essa ha avuto in Italia, semplicemente come una questione industriale e finanziaria. Governare la crisi dell'auto significa alterare la mappa politica ed economica del paese, iscrivendovi un mutamento che non può evidentemente essere privo di contraccolpi. Non basta allora sterilizzare la Fiat Auto, per impedire che le sue passività si rovescino sugli equilibri del Gruppo e penalizzino perciò anche le due altre grandi componenti (Iveco e Case-New Holland) che stanno andando meglio. Occorre esorcizzare i rischi politici insiti nella condizione speciale e anomala dell'unico produttore italiano d'auto. Bisogna tener buono lo schieramento dei partiti e i sindacati, alla vigilia di una fase contrattuale - quella della categoria dei metalmeccanici - che suscita molte preoccupazioni, per l'entità del recupero salariale che la piattaforma unitaria delle tre federazioni richiede.

A enumerare in fila l'uno dopo l'altro i vari fattori critici che gravano sulla Fiat, verrebbe da concludere che essa ha dinanzi a sé il problema della quadratura del cerchio, cioè qualcosa d'impossibile. Come fare a non tagliare l'occupazione e una capacità produttiva ridondante, riuscendo a far tornare i conti? Dalle prime mosse di Marchionne al ritorno dall'America, sembra che l'amministratore delegato della Fiat punti tutto su un recupero di efficienza interna, abbattendo drasticamente i costi e migliorando un'organizzazione che, certo, non può non essere stata sfibrata dai continui cambiamenti nelle responsabilità aziendali.

Rientrato a Torino, Marchionne ha proceduto all'esonero dei due manager a cui la Fiat di Morchio aveva guardato con più speranza per la ripresa dell'Auto. Dopo un anno incolore a Mirafiori, Demel ha lasciato la posizione, seguito a ruota dall'inglese Martin Leach che, sottratto alla Ford europea, era stato parcheggiato a Modena, alla Maserati. Questi dirigenti non saranno sostituiti, così come non sarà un interim la responsabilità dell'Auto che Marchionne ha assunto su di sé. Ottenuto il consenso sul suo operato e forse in procinto di conseguire un rinvio ulteriore della scadenza del prestito "convertendo" da parte delle banche creditrici, l'amministratore delegato della Fiat ha scelto di concentrare su di sé una massa di compiti che nessuno ha mai assolto in questa forma.

L'impressione che comunica la Fiat odierna è che davvero sul ponte di comando ci stia, con i pieni poteri, un uomo soltanto. Il quale è probabilmente anche l'unico a disporre di una visione completa dell'azienda e di una vastissima libertà d'azione nel determinare i suoi assetti a breve e a medio termine. Senza rivendicare il potere formale che aveva preteso incautamente Morchio, Marchionne si trova ora nella condizione di affrontare una nuova partita i cui limiti non sono noti né, forse, stabiliti a priori.

Ma non vale, per il suo caso, rifarsi al modello di Cesare Romiti né tantomeno di Valletta. E non soccorre nemmeno domandarsi se un manager sperimentato nell'ambito della finanza possa applicare le sue doti a quello direttamente industriale. Le questioni che si evocano quasi quotidianamente in Italia a proposito della Fiat (come l'indeterminata possibilità di un intervento dello Stato a sostegno) non sono assai probabilmente quelle fondamentali. Ove Marchionne riuscisse davvero a ridisegnare un profilo della Fiat del tutto diverso dal passato, senza generare contraddizioni laceranti, avrebbe dato prova di possedere un'abilità politica di sicuro non inferiore a quella finanziaria.

(Giuseppe Berta - docente di storia economica, Università Bocconi di Milano)

Venerdì, 11. Marzo 2005
 

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