Fiat, la spia di una crisi più generale

Il problema è quello della grande impresa in Italia. Che cosa fare per reagire

La crisi della Fiat, oltre ad una evidente specificità, sulla quale si stanno confrontando i diversi soggetti, a vario titolo coinvolti per ricercare una soluzione, rappresenta il paradigma della crisi del capitalismo italiano.
Una crisi che innanzi tutto è crisi della grande impresa, progressivamente indebolita e marginalizzata dalla struttura del sistema industriale del nostro paese. Si tratta di una crisi iniziata negli scorsi decenni, che si è manifestata in diversi paesi europei ma che da noi ha avuto una gravità particolare, e soprattutto non ha dato luogo a strategie di reazione vigorosa com’è avvenuto altrove.

Una crisi che, per vari motivi, ha coinvolto sia interi settori come la chimica, la siderurgia e da ultimo l’auto, e singole grandi imprese, con una serie di caratteri comuni ed orizzontali che ne costituiscono i motivi strutturali. Nella stessa crisi Fiat, accanto a cause più recenti, sono risultate determinanti quelle di più lungo periodo, e che attengono essenzialmente ad una strategia puramente difensiva di fronte ai processi di trasformazione del settore, fondata sulla riduzione dell’occupazione e sugli aiuti di Stato, nell’assenza di intese internazionali, indispensabili per collocarsi adeguatamente nel mercato globale. L’accordo con la General Motors, dopo il tentativo andato a vuoto con la Ford, è giunto troppo tardi ed ha i caratteri più di una annessione graduale alla corporation americana che un accordo tra partners a condizioni equivalenti.

Una prima causa della crisi del capitalismo italiano è certamente di cultura industriale, nel senso che nel nostro paese si è consolidata una cultura contro la grande impresa, considerata da molti, sia a destra che a sinistra, ad un tempo, come lo strumento del gran capitale e del privilegio, soggetto di inefficienza, di sfruttamento e attrattore delle risorse pubbliche tramite un connubio con il potere politico.

Si è progressivamente oscurata, nella cultura industriale del nostro paese, l’idea che la grande impresa è strumento essenziale di innovazione tecnologica ed organizzativa, di diffusione della ricerca e della cultura manageriale, di più elevati livelli di produttività, di innovazione delle relazioni industriali; il soggetto che fa sistema e quindi serve, non solo nel rapporto di sub fornitura, anche alle piccole imprese e mantiene quindi un ruolo indispensabile in qualsiasi sistema industriale evoluto.

A fronte della concezione negativa della grande impresa si è esaltata la piccola come modello più adatto alla laboriosità italica, e capace di conciliare meglio sviluppo e stabilità sociale.

Vivendo nel Nord-Est conosco benissimo l’enfasi con cui sono stati esaltati i risultati di questo modello, per molti versi importanti, ma ne intravedo tutti i limiti strategici nel momento in cui è stato assunto come modello generale in alternativa alla grande impresa.

Oggi, infatti, con il progredire della competizione e livello globale esso mostra fino in fondo la corda, in quanto non riesce a far emergere la nostra industria oltre una posizione di nicchia. Una nicchia dinamica e dignitosa, specie in alcuni comparti, ma sempre di nicchia si tratta.

Una secondo motivo strutturale di crisi riguarda la struttura proprietaria dell’impresa industriale del nostro paese, caratterizzata da una abnorme presenza della proprietà familiare, diffusa a tutti i livelli dimensionali, compresa la grande impresa.

Essa storicamente ha rappresentato un elemento di forte staticità, di diffidenza verso le innovazioni tecnologiche ed organizzative che progressivamente si rendevano necessarie per reggere la concorrenza e conquistare nuovi mercati ed è stato fattore non secondario del consolidarsi del nanismo della nostra industria. Essa inoltre spiega la carenza di autonomia del management, indispensabile per progettare strategie di non breve periodo, e, in buona parte, il rifiuto di diverse imprese della quotazione in Borsa e, più in generale, di un rapporto più evoluto con i servizi finanziari anche se, per la verità, in questo campo l’impresa ha incontrato tutte le difficoltà derivanti dal permanere della ristrettezza speculativa della nostra Borsa, dall’arretratezza impressionante del nostro sistema bancario e dall’assenza di investitori istituzionali degni di questo nome.

Un ulteriore problema che la prevalente struttura familiare ha proiettato sulla grande impresa è derivato dal ricambio generazionale, che talvolta ha provocato conflitti di potere e spinte disgregatrici che nulla hanno da spartire con le esigenze di stabilità e di sviluppo strategico dell’impresa.

Una riprova di questo grave limite della struttura proprietaria e della base finanziaria del nostro capitalismo è rappresentata dalle difficoltà di realizzare un corretto processo di liberalizzazione della componente pubblica del nostro apparato produttivo.

La privatizzazione del sistema bancario e di parti significative delle imprese pubbliche e del sistema delle partecipazione statali, ha dovuto fare in conti con enormi difficoltà, derivanti dall’assenza di una base sufficientemente estesa di soggetti economici e finanziari nazionali aventi i caratteri di potenziali subentranti, dalla totale assenza di esperienze di public-company, per cui spesso situazioni di monopolio pubblico sono state sostituite da un monopolio privato ed hanno potuto inserirsi, in vario modo, interlocutori stranieri che hanno acquisito un ruolo di controllo di parti strategiche del nostro apparato produttivo.

Una terza causa risiede nelle politiche pubbliche messe in campo dai diversi governi che si sono succeduti, e caratterizzate da interventi di sostegno contingente fondati essenzialmente sulle svalutazioni competitive e su misure di contenimento dei costi attraverso varie forme di incentivi fiscali e di ammortizzatori sociali che hanno consentito recuperi temporanei di competitività, ma che in prospettiva hanno contribuito a rendere sempre più obsoleta ed arretrata la struttura.

Del tutto trascurate sono state invece le politiche di sostegno alla ricerca applicata, all’innovazione e alla formazione.

L’arretratezza che permane in questi campi rispetto ai sistemi industriali più evoluti è particolarmente grave e impressiona ancor di più, al di là delle chiacchiere, la totale assenza, tanto nelle forze politiche di governo e di opposizione che delle parti sociali, della volontà di mettere in campo politiche e scelte di emergenza per avviare un processo di avvicinamento.

Gli effetti negativi delle suddette cause sono stati: un calo progressivo degli investimenti tesi all’innovazione strutturale e a redditività differita, soprattutto del prodotto, un calo progressivo dell’occupazione indipendentemente dall’andamento del ciclo economico, l’attivazione di processi di anomalo decentramento produttivo, la progressiva scomparsa del rischio di impresa attraverso una gestione aziendale consociativa. Gli stessi ammortizzatori sociali, nella loro finalità e nella concreta gestione da parte delle parti sociali, hanno contribuito non poco alla progressiva obsolescenza della grande impresa.

Essi sono stati pensati soprattutto a favore dei lavoratori di queste imprese e, se hanno svolto un positivo ruolo di riduzione dei conflitti, sono anche stati lo strumento che oggettivamente ha facilitato una gestione aziendale rivolta alla ricerca di margini contingenti di competitività soprattutto attraverso la riduzione del costo del lavoro e della occupazione. Strumenti come i prepensionamenti, l’indennità di mobilità lunga e corta, la cassa integrazione speciale, sono stati utilizzati consensualmente per una uscita morbida dal posto di lavoro di centinaia di migliaia di lavoratori quasi sempre senza possibilità di rioccupazione.

In tal modo essi hanno rappresentato una possibilità di disimpegno delle imprese in ristrutturazione rispetto al destino occupazionale dei lavoratori in esubero, hanno creato evidenti distorsioni nel mercato del lavoro e forti disuguaglianze nei livelli e nella qualità della protezione sociale.

Anche lo stesso sindacato ha gestito spesso questi strumenti più come un obiettivo finale che come un mezzo per creare concrete possibilità di passaggio da posto a posto di lavoro.

Questa destinazione parziale degli ammortizzatori sociali, per il forte peso specifico che hanno avuto i lavoratori della grande impresa nella rappresentanza sindacale, ha costituito un impedimento alla necessaria riprogettazione di un nuovo sistema di protezione sociale dei lavoratori privi del posto di lavoro, fondato su criteri di uguaglianza e di equità e valido per l’intero mercato del lavoro.

Sarebbe bene che nell’attuale stagione sindacale, nella quale si parla molto di diritti, in una forte accezione ideologica, si riuscisse a migliorare in termini di maggiore uguaglianza e di più concreta efficacia i diritti reali di protezione sociale soprattutto in termini di garanzia di un reddito dignitoso a chi ne è sprovvisto e di un livello di formazione che favorisca l’uscita dalla marginalità sociale attraverso l’accesso al lavoro.

La crisi della grande impresa rimane dunque una grave realtà che il paese sta pagando ad un prezzo tanto più elevato quanto più procede il processo di integrazione europea e di globalizzazione dei mercati. Una maggiore dipendenza e subordinazione del nostro apparato produttivo nei confronti delle economie industriali più forti risulta ormai scontata ma ciò non ci deve far ripiegare nella rassegnata accettazione di questa realtà.

Si tratta di reagire, da un lato, con politiche di innovative fondate sulla ricerca, sulla formazione, sulla dotazione infrastrutturale, sulla qualificazione delle reti in modo da migliorare la qualità della base produttiva e, dall’altro, attraverso una oculata strategia di intese internazionali atte a garantirci una presenza di grandi imprese multinazionali che contribuiscano a mantenere competitivo il nostro apparato produttivo.

Venerdì, 25. Ottobre 2002
 

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