Federalismo, tre standard per salvare il Sud

La riforma ha preso una brutta piega per il Sud, che appare condannato a una pressione fiscale più pesante. Ma si può correggere la rotta se oltre allo standard sui costi se ne prevederanno altri due, relativi a qualità dei servizi e tasse. Ed evitando la trappola della gradualità

Mancano ancora le crude cifre. Ma il quadro si va delineando: la riforma federalista così come l'ha disegnata il Nord (i protagonisti sono Bossi, Calderoli, Tremonti, Formigoni, Antonini...) mette il Mezzogiorno in una condizione di forte dipendenza finanziaria dal governo nazionale, spingendolo ad alzare la pressione tributaria. Fare del Mezzogiorno un'area con fiscalità di svantaggio (più tasse sia sulle imprese sia sui cittadini) ne pregiudica per sempre la possibilità di sviluppo.

Il federalismo fiscale ha tra gli obiettivi quello di legare il più possibile il gettito fiscale riconducibile ai territori con l'effettiva spesa, in base al principio vedo-voto-pago. In Italia ci sono imposte che sono molto mal distribuite sul territorio e altre che hanno una distribuzione non troppo lontana da quella della popolazione. Logica avrebbe voluto che per finanziare servizi sociali (sanità, istruzione, trasporti) si fossero intestate agli enti locali e alle Regioni in primo luogo le imposte con un gettito equilibrato e cioè l'accisa sui carburanti, l'accisa sui tabacchi e i proventi fiscali da giochi e lotterie. Nulla di tutto questo: si è preferito puntare su Irap (la più sperequata di tutte), Iva e Irpef. E, nell'applicare il meccanismo, si sono utilizzate formule che amplificano la sperequazione. Per esempio per l’Iva si è passati dal sistema attuale, che si basa sui consumi ed è relativamente equilibrato, a quello del gettito formale, amplificando i divari. Per l’Irpef si stabilisce che la compartecipazione regionale va calcolata "aliquota per aliquota" e non per esempio puntando solo sul gettito dell'aliquota base al 23%, che è un po' meno sperequato.

Insomma: nella ripartizione della torta fiscale si favoriscono le aree dove ci sono più ricchi dimenticando che la spesa sociale è legata al numero di abitanti e non alla consistenza dei portafogli. Il risultato di tali formule è che le Regioni del Sud avranno un grado di autosufficienza lontanissimo dal 100% e dovranno coprire gran parte dei costi per sanità, istruzione e trasporti utilizzando l'autonomia tributaria e la perequazione.

La costituzione all'articolo 119 dice però che le Regioni devono essere finanziate in misura tale da poter coprire integralmente i costi dei servizi sociali fondamentali mettendo insieme trasferimenti dal centro (compartecipazioni) tributi propri (addizionali) e solidarietà (perequazione). Per cui un meridionalista disattento potrebbe non preoccuparsi affatto della bassa quota di compartecipazione, perché il totale deve sempre arrivare alla medesima cifra. Ovvero: se c'è meno compartecipazione da Iva o Irpef, ci sarà più perequazione. Va detto però che la tutela dell’articolo 119 e quindi la perequazione al 100% è garantita soltanto per i servizi minimi essenziali, mentre il perimetro delle spese regionali è più ampio.

Già questo dovrebbe allarmare il Sud. Ma c’è di più e di peggio: tutte le Regioni avranno una leva fiscale a disposizione sull'addizionale Irpef (tre punti) e sull'Irap (cinque punti). Il meccanismo non è stato ancora definito nei dettagli, tuttavia si immagina che ci sia un livello intermedio di aliquota che è quello di partenza. Se le Regioni del Sud fossero libere di abbassare aliquote, ciò vorrebbe dire, in base all'articolo 119, che ogni euro di risparmio fiscale per i propri cittadini e imprese sarebbe coperto dalla maggiore perequazione, visto che il totale complessivo è invariabile almeno per i servizi essenziali. Ma tale regola sarebbe assurda perché darebbe mano libera a tagli fiscali indipendenti dall’efficienza e contrasterebbe con il senso di responsabilità che impone il federalismo fiscale. Quindi alle Regioni del Sud sarà negata la possibilità di ridurre il prelievo fiscale sotto l'aliquota-base. In compenso con grande probabilità gli amministratori meridionali saranno costretti a utilizzare al massimo la propria leva fiscale per compensare il gettito insufficiente da compartecipazione su voci di spesa non tutelate dall'articolo 119.

Molte Regioni del Nord, invece, potranno permettersi e probabilmente faranno sgravi tributari. Di fatto ci saranno due aree fiscali nel paese: una relativamente leggera, che coinciderà con il territorio dotato di migliori condizioni infrastrutturali e di sicurezza, un'altra dove si pagheranno più tasse per avere servizi inferiori.

Come se ne esce? Una risposta possibile c’è: il meccanismo dei tre standard. Il primo standard da rispettare è ovviamente quello dei costi, nato per combattere gli sprechi, principio sul quale non c'è alcun dubbio né opposizione da parte dei meridionali. Il secondo standard da misurare è quello dei servizi: non conta infatti solo che un servizio costi il giusto, ma anche che la sua qualità rispetti dei parametri di risultato, cioè che il servizio sia davvero utile per i cittadini. Tale meccanismo è già previsto dalla legge 42 del 2009 e nei decreti attuativi andrebbe previsto con il medesimo rigore con il quale si calcoleranno i costi standard. Il terzo standard deve essere una richiesta del Sud virtuoso: è quello delle aliquote fiscali. Funziona così: se una Regione del Sud rispetta i costi standard (cioè quelli effettivamente praticati nelle tre Regioni prese come riferimento) e offre servizi sociali di qualità standard (ovvero simili a quelle delle tre Regioni di riferimento) allora - ecco il terzo standard - la sua pressione fiscale non può essere superiore a quella delle regioni-modello. In pratica si applicheranno le stesse aliquote Irap e Irpef delle aree-standard, sgravi compresi, e tutto l'eventuale mancato gettito delle addizionali sarà coperto dalla perequazione verticale, cioè garantita dallo Stato.

Certo, per una Regione del Sud inefficiente e incapace di fornire servizi di qualità, non ci sarebbero vantaggi dal terzo standard. Ma non è proprio questo che vogliamo con l’introduzione del federalismo? Non si punta a distinguere fra buona e cattiva amministrazione? Con la formula dei tre standard si dà alle aree virtuose del Sud la possibilità di godere del medesimo trattamento tributario della parte più efficiente e sana del Paese. E questo Sud che funziona, fosse anche rappresentato in prima battuta da una sola Regione, sarebbe comunque un modello e una speranza per tutto il Mezzogiorno.

L'alternativa è accettare l’aggravarsi della pressione fiscale o il taglio dei servizi sociali cadendo nella trappola della gradualità: il Sud dice sì suo malgrado a regole che lo penalizzano ma riesce a trattare sui tempi di applicazione, rinviando l'andata al regime di alcuni anni. Sarebbe una visione miope peraltro già seguita con esiti infausti con il decreto 56 del 2000, che stringeva un po' alla volta ma inesorabilmente i rubinetti del finanziamento sanitario per il Mezzogiorno in un arco di tredici anni.

Per una volta, i politici del Mezzogiorno devono guardare lontano e sapere che le regole che si scriveranno adesso saranno la base del patto sociale per i prossimi decenni: aver rinviato l'attuazione del federalismo fiscale a un momento successivo alla scadenza del loro mandato elettorale non servirà al Sud. E non permetterà ai politici di corte vedute di salvare l'anima.

(*) Marco Esposito è autore di Chi paga la devolution? (Laterza 2003) e coautore di Domani a Mezzogiorno (Guida 2010), vincitore del premio Sele d'Oro per la campagna sul federalismo fiscale del 2008.

Lunedì, 8. Novembre 2010
 

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