Federalismo fiscale, chi ha in mano le carte migliori

Bossi, Formigoni, Bassolino, Fitto, Tremonti, Errani: nessuno di loro ha un ruolo facile nella partita arrivata alla mano decisiva. Le diverse posizioni e le manovre trasversali

La partita del federalismo fiscale è arrivata alla mano decisiva - dopo sette anni di inerzia nell'attuazione della riforma Costituzionale del 2001 - e forse è il caso di immaginare un giro intorno al tavolo di gioco per provare a sbirciare quali carte hanno in mano i principali protagonisti.

Bossi. Il leader della Lega e ministro delle Riforme si è seduto al tavolo convinto di poter vincere a mani basse, forte del risultato elettorale e dell'impegno messo nero su bianco nel programma del Pdl di approvare per il federalismo fiscale il testo messo a punto dalla Lombardia nel giugno 2007. Un testo peraltro approvato con un voto quasi unanime del Consiglio regionale e che porta un immediato guadagno di risorse al Nord, a causa del tetto alla perequazione, cioè alla solidarietà, fissato al 50% dei divari rispetto al gettito fiscale, divari parametrati al costo della vita e tenendo conto dell'evasione. Una formula complessa che ha messo in crisi anche i più esperti di contabilità ma che in soldoni sottrae mille euro all'anno per ogni meridionale, ovvero 20 miliardi. I problemi per Bossi sono venuti proprio dalla forza dirompente della sua proposta: non soltanto il Sud si è allarmato, ma anche al Nord c'è stata una presa di distanza dal testo della Lombardia. Il veneto Giancarlo Galan, governatore della Regione dove la Lega ha ottenuto il consenso più ampio, è stato caustico: " Vediamo dove arrivano. Il federalismo fiscale è la madre di tutte le battaglie ma non può essere fatto così, contro una parte d'Italia". Ma lo stop più clamoroso è arrivato proprio dalla Lombardia, da Roberto Formigoni.

Formigoni. Come presidente della Regione più popolosa e ricca d'Italia è un protagonista al tavolo delle riforme. Ma non può dettare legge in Conferenza delle Regioni, dove negli anni scorsi spesso si è creato un fronte di 18 a 2 con il solo Veneto a fianco dei lombardi. Ecco perché Formigoni ha trovato il coraggio di prendere pubblicamente le distanze dal testo del 2007: "Vorrei precisare - ha detto a fine maggio - che quella proposta è del Consiglio regionale, non della Giunta. Serviva, un anno fa, a dare un colpo di gong per costringere il parlamento, nella passata legislatura, a discuterne". Per il presidente della Lombardia la proposta è declassata a "una mera esemplificazione di una possibile modalità di ripartizione delle entrate". La carta sulla quale Formigoni conta di più è quindi un'altra: l'ampliamento dei poteri della Lombardia, ovvero l'attuazione dell'articolo 116 della Costituzione più che del 119, che parla di perequazione.

Bassolino. Il presidente della seconda Regione italiana per popolazione si è seduto al tavolo nelle condizioni peggiori: la tragedia dei rifiuti è diventata il paradigma del Sud che non sa spendere le risorse e che quindi non le merita. Il governatore ha provato a sparigliare creando un coordinamento delle Regioni meridionali, in modo da far fronte comune non tanto con le regioni rette dal centrosinistra, quanto con la Sicilia di Lombardo. Il quale ha già subito lo "scippo" dei fondi per le infrastrutture per coprire il taglio dell'Ici. Tuttavia l'asse Bassolino-Lombardo difficilmente reggerà alla prova dei fatti perché le Regioni a statuto speciale sono comunque meno colpite dal federalismo fiscale. Paradossalmente il miglior alleato di Bassolino è ancora una volta Silvio Berlusconi, interessato quanto lui a uscire in tempi brevi dal tunnel anche mediatico dei rifiuti.

Tremonti. Il ministro dell'Economia ha affermato che il federalismo fiscale è il banco di prova delle riforme costituzionali, in quanto attuazione dell'articolo 119 della Carta. In tale modo ha spiazzato Bossi e si è ritagliato il ruolo di garante dell'equilibrio complessivo della riforma, dettandone anche i tempi: quelli della legge Finanziaria del 2008. Su di lui pesa però la precedente esperienza di governo, quando la materia fu affidata a una apposita Alta commissione per l'attuazione del federalismo fiscale - presieduta da un tributarista in passato molto vicino a Tremonti, Giuseppe Vitaletti - che avrebbe dovuto concludere i lavori in tre mesi ma che dopo tre anni si trovò, nei fatti, declassata a mero centro studi.

Fitto. Meridionale in un governo a trazione settentrionale, l'ex ragazzo prodigio del centrodestra ha un ruolo delicato, come ministro degli Affari regionali, e potenzialmente imbarazzante: se Fitto difenderà a spada tratta il Sud rischierà di trovarsi spalla a spalla con il governatore della Puglia Niki Vendola, che lo sconfisse nel 2005. Se non lo farà, lascerà spazio all'ultimo uomo forte di Rifondazione comunista. La scelta di Fitto è farsi paladino del "Sud che ha le carte in regola". Ma sarà difficile vincere qualche mano con una frase che al momento è poco più di uno slogan.

Errani. Il presidente dell'Emilia Romagna e della Conferenza delle Regioni è l'unico al tavolo ad aver già vinto. Anche se non sa ancora cosa. Se dovesse passare una linea non lontana dalle richieste della Lega, tutti i conteggi danno l'Emilia Romagna come il principale beneficiario dopo la Lombardia. Se si dovesse trovare una mediazione ragionevole per il Sud, il numero uno della Conferenza avrà il merito di aver tenuto insieme posizioni in apparenza inconciliabili. Se anche, infine, dovesse saltare il tavolo per la mancata coesione tra i ministri del governo Berlusconi, da esponente del Partito democratico Errani potrà  trarre benefici per la sua azione politica.

Giovedì, 12. Giugno 2008
 

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