Fatto il parlamento bisogna fare il partito

Per superare l’evidente svantaggio mediatico ed economico, il PD deve ancor più aprirsi alla gente, deve saper dare voce e potere alla gente – identità reale e non virtuale – anche alla coda sinistra tagliata fuori del Parlamento dalla legge elettorale e con una visione meno acritica delle linee guida europee

Il Parlamento è fatto. Il meccanismo del Porcellum ha funzionato a meraviglia: le “code” a destra e a sinistra (complessivamente circa il 12 per cento dei votanti) sono state tagliate via. Abbiamo così la maggioranza più solida e l’opposizione più coesa dell’intera storia repubblicana. Come mai questo smagliante risultato istituzionale non si era realizzato già nel 2006? La risposta è semplice: allora la sinistra si presentò in coalizione e riuscì a strappare un’esigua maggioranza (anche al Senato, nonostante la legge favorisse la Lega). Questo non è più stato possibile nel 2008.

La coalizione di sinistra del 2006 era ispirata da due anime differenti. Da un lato l’anima “larga” del fronte antiberlusconiano, di diretta discendenza resistenziale: se Berlusconi minacciava la democrazia, lo schieramento della resistenza a questa minaccia non poteva che essere largo, trasversale, interclassista, frontista. Dall’altro il nucleo liberal-democratico del futuro PD, più europeo, meno interessato a logiche frontiste e più preso dalla voglia di stare al governo e di far bene, di lanciarsi sul terreno delle riforme e del risanamento nonostante l’esiguità dei margini di manovra concessi a una maggioranza tanto risicata. Un manipolo un po’ giacobino, ricco di coraggiosi e virtuosi (in chiave UE), ma così poco adatto a dare vita dall’alto delle segreterie ad un partito propriamente democratico, così poco capace di ascoltare e comprendere il Paese, di farsi ascoltare e comprendere dal Paese.

La maggioranza non ha tenuto per il conflitto tra queste due anime. L’anima frontista ha atteso invano mosse che si dimostrassero capaci di evidenziare il rischio autocratico dello strapotere economico-mediatico di Berlusconi e quindi di ridimensionarlo sostanzialmente; e non ha compreso né apprezzato il virtuoso e solitario cammino di risanamento intrapreso in un silenzio angosciante dal nucleo liberal-democratico di governo della coalizione. Troppi sacrifici, troppo silenzio, troppa incapacità di spiegare al Paese, di parlare alla stessa coalizione. E, dall’altro lato, troppe impazienze, troppi distinguo, di nuovo troppe pressioni e troppa mancanza di disciplina di governo. Evidentemente la situazione italiana era, come al solito, grave ma non seria. L’accelerazione nella costituzione del PD (ma si tratta di parola ironica: il PD andava costituito dieci anni fa!) e la legittimazione da parte di Berlusconi cercata da Veltroni hanno fatto traboccare il vaso. Le due anime si sono separate consensualmente.

La separazione, però, ha evidentemente nuociuto di più all’anima frontista, peraltro sconfessata dalla sua stessa mancanza di disciplina. Dopo la rottura Veltroni, forte dell’incoronazione alle primarie, ha imboccato una scelta solitaria (e consapevolmente perdente), forse provocatoria nei confronti della precedente coalizione ma evidentemente obbligata e chiarificatrice. La sua scelta ci ha dato questo Parlamento e ci ha ribadito che combattere poteri forti richiede unità, serietà e determinazione.

Che fare adesso? Il cammino è già scritto. Da un lato bisogna fare l’opposizione: un’opposizione che chieda a gran voce al governo di realizzare tutte le misure sulle quali vi è accordo, almeno formale (quante volte si è detto che i programmi elettorali dei due partiti maggiori erano intercambiabili? Vediamo se è vero). E poi un’opposizione disponibile a collaborare con il governo nella progettazione delle riforme (ma quali? Possiamo credere davvero che il PDL vorrà riformare il Porcellum, che l’ha servito così bene? E ci proporrà riforme istituzionali non autocratiche?), ma solo in cambio di precise contropartite sul terreno della democrazia sostanziale. La politica è bloccata dal ganglio di potere berlusconiano che si è formato (con la benedizione pubblica…) nel cuore del Paese; e anche l’economia è ferma, bloccata, oltre che dal peso sempre incombente del debito pubblico, da un assetto della concorrenza e della contrattazione salariale che automaticamente riduce la quota dei redditi che va ai salari e aumenta quella che va ai profitti e alle rendite. Al riparo dalla frusta dei salari e della concorrenza, le imprese protette continuano a fare profitti e non si rinnovano: rimandano ogni riorganizzazione a tempi più aspri e nel frattempo scaricano la loro inefficienza sulle famiglie e sulle imprese esposte alla concorrenza internazionale.

E qui è il punto intorno al quale bisogna fare il partito. Il partito non c’è, e c’è difficoltà a farlo perché non si sa ancora quale anima bisogna soffiargli dentro: da un lato l’anima frontista ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza (il berlusconismo, per quanto geneticamente autocratico, non è il nazi-fascismo), dall’altro l’anima giacobina e la sua nomenclatura mal concepiscono i movimenti bottom-up (l’hanno dimostrato con la scelta di liste elettorali “paracadutate”, che spesso hanno incluso candidati privi di alcun merito riconosciuto e assai poco capaci di parlare alla gente); e anzi ne sono impauriti perché temono di perdere l’egemonia del nuovo soggetto politico.

Ma qui si parrà la nobiltà del progetto PD: l’unico potere, l’unica forza in grado di combattere vittoriosamente le lusinghe del soft-regime berlusconiano sono infatti proprio quelli di una democrazia pienamente dispiegata, in economia non meno che in politica. Non occorre riandare a Einaudi per capire quanto il monopolio privato sia assai più lesivo dei diritti di pari opportunità di quello pubblico, che almeno si muove con l’obiettivo dell’interesse comune; non rileggere Adam Smith per avere chiaro che il mix micidiale di crescenti rendite da mono/oligopolio e bassi salari blocca lo sviluppo economico e sociale del Paese; non occorre constatare che la Lega, l’ex-AN o la stessa ex-Forza Italia hanno vinto anche perché sono riuscite ad affiancare alla “gioiosa macchina mediatica” del biscione un radicamento nel territorio reale e capace di esprimersi (anche) attraverso il canale dell’organizzazione politica.

Per superare l’evidente svantaggio mediatico ed economico, il PD deve ancor più aprirsi alla gente, deve saper dare voce e potere alla gente – identità reale e non virtuale – anche alla coda sinistra tagliata fuori del Parlamento dalla legge elettorale e con una visione meno acritica delle linee guida europee. Il PD deve saper coltivare la democrazia interna, l’innovazione e la coesione sociale come il bene più prezioso, deve sapersi dimostrare geneticamente alternativo all’attuale maggioranza, farsi portatore fin dalle sue più minute articolazioni di un progetto, di un metodo e di un modo di vivere genuinamente democratici, concretamente innovativi e connaturalmente alternativi a ogni disegno autocratico.  

Giovedì, 29. Maggio 2008
 

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