Essere islamici in Italia

***

L’Italia era ed è tuttora considerata un paese quasi monoliticamente cattolico. Anch’essa sta tuttavia vivendo, ultima arrivata sul palcoscenico europeo, il cambiamento storico che la sta portando a diventare una società plurireligiosa e pluriculturale.
A dircelo sono i fatti, a cominciare dalle cifre: la più simbolicamente importante e significativa delle quali ci mostra la presenza di oltre mezzo milione di persone provenienti da paesi musulmani (quanti siano musulmani praticanti è naturalmente un altro discorso), regolarmente residenti nel nostro paese, più un numero non trascurabile di irregolari, più i convertiti e i naturalizzati, per un totale stimabile oltre le settecentomila persone considerabili culturalmente come musulmane. L’islam è dunque oggi la seconda religione del paese, anche se si tratta in maggioranza di cittadini stranieri; tendenza questa, tuttavia, destinata a mutare nel prossimo futuro, soprattutto per l’apporto delle seconde generazioni, nate in Italia.

Il Marocco conta circa un terzo delle presenze musulmane, segue l’Albania, di cui solo una parte dei provenienti, comunque maggioritaria, è considerabile di vaga (sovente molto vaga, trattandosi di un paese fino a poco tempo fa governato da un regime di ateismo di stato particolarmente coerente e conseguente) origine musulmana, quindi la Tunisia, il Senegal, l’Egitto, il Bangladesh, il Pakistan, l’Algeria, la Bosnia, e poi ancora Iran, Nigeria, Turchia, Somalia e… Italia, con un nucleo numericamente contenuto ma assai attivo di convertiti all’islam, che giocano un ruolo importante nell’islam ‘visibile’ e organizzato.

Detto questo, il problema dei numeri non è il più rilevante. Essi servono appunto a determinare un ordine di grandezza. Ma il problema, o meglio il fatto, è qualitativo, non quantitativo. E ci mostra un islam non più solo neo-arrivato, ma ormai anche entrato in quella che potremmo considerare la ‘fase due’: quella della sedentarizzazione, della stabilizzazione, in parte anche dell’istituzionalizzazione, per quanto ancora ad uno stadio relativamente embrionale.

Quali le specificità dell’islam italiano? Possiamo almeno sottolineare: la diversificazione dei paesi di provenienza, che impedisce di fatto l’identificazione, sia sul piano istituzionale che su quello della percezione, con un solo paese di provenienza; la maggior velocità di ingresso e di insediamento, la più diffusa condizione di irregolarità e la maggior dispersione lavorativa e residenziale rispetto ad altre realtà europee; la scarsità di provenienze da ex-colonie, con un legame preesistente (ad esempio culturale e linguistico) con il paese di emigrazione; il ruolo importante giocato dai convertiti; il fatto che la presenza islamica si visibilizza già con la prima generazione; la mancanza o la debolezza relativa, almeno per ora, di interlocutori associativi laici di qualche peso e rappresentatività, che rende ancora più rilevante il ruolo sociale e religioso giocato dal tessuto delle moschee.

La strutturazione interna è influenzata tuttavia anche dai rapporti con la realtà esterna, che toccano anche le modalità di legittimazione dell’islam, e il suo processo di istituzionalizzazione. In questo processo, un ruolo importante gioca la percezione mediatica dell’islam, che spesso e volentieri ne diffonde un’immagine tutta in negativo, e più influenzata da vicende esterne concernenti il mondo islamico (il fondamentalismo, o la situazione di alcuni paesi, come l’Algeria, il Sudan, l’Afghanistan – e, oggi, le imprese di Bin Laden) che da reale conoscenza delle sue dinamiche interne.

Sul piano istituzionale, notiamo che, come altre minoranze religiose, alcune organizzazioni islamiche hanno chiesto il riconoscimento, mediante Intesa con lo Stato italiano, così come già avvenuto per la maggior parte delle minoranze protestanti e per gli ebrei. Anche Testimoni di Geova e Buddhisti hanno peraltro firmato un’Intesa con lo Stato, che non è tuttavia stata ancora ratificata dal parlamento, e vede contrari alcuni settori del medesimo, come della Chiesa e della società.

Qui ci limitiamo a ribadire la legittimità della richiesta di Intesa e la sua sostenibilità: di principio, numerica (trattandosi comunque della seconda comunità religiosa presente nel paese, dopo quella maggioritaria cattolica – naturalmente includendo i residenti, e non solo i cittadini), politica (anche nel senso, non secondario, pur se auspichiamo non diventi primario, di politica ‘estera’), e anche giuridica, almeno ad una prima analisi dei progetti di intesa finora proposti alla discussione, che nonostante diffusi timori non sembrano avanzare richieste in contrasto con l’attuale ordinamento giuridico.

Pare in ogni caso irrealistico ipotizzare una rapida conclusione della vicenda dell’Intesa con l’islam, sia per motivi concernenti l’islam stesso (ad esempio la risoluzione in via definitiva del problema della rappresentanza, attualmente divisa in diverse organizzazioni in contrasto tra loro), sia per motivi che hanno a che fare con vicende politiche più generali. I due principali schieramenti politici hanno infatti posizioni diversificate sui problemi delle Intese (sono stati alcuni partiti di centro-destra, in particolare Lega e AN, a bloccare la ratifica parlamentare delle ultime due, siglate dal governo D’Alema), e vi sono forti pressioni, per esempio in una parte del mondo cattolico, ma non solo in esso, affinché, al posto delle Intese mancanti, si approvi una nuova legge sulle libertà religiose: legge che, di per sé positiva, se bloccasse tuttavia le altre Intese aprirebbe ad un regime di doppio binario, di religioni di serie A e di serie B, difficilmente sostenibile in termini di uguaglianza di diritti e dunque di legittimità democratica.

Ci preme sottolineare tuttavia che l’ossessione ‘statalista’ e centralizzatrice, implicita nell’enfasi sul processo di Intesa, non deve farci dimenticare gli importanti risvolti locali e decentrati del processo di istituzionalizzazione: che, rispettando in questo le caratteristiche intrinseche e ineliminabili dell’islam, e in particolare l’assenza di un clero formalizzato e gerarchizzato, nonché di riconoscimento interno indiscutibile, dovrebbe tener conto che, sul piano locale, per molti motivi, a cominciare dalle diverse presenze etniche d’origine, ma anche per altre ragioni (presenza di moschee facenti capo ad organismi, movimenti, confraternite, gruppi locali, ecc., differenti), l’istituzionalizzazione può dare luogo a risultati ed equilibri diversi da quelli raggiungibili sul piano nazionale. In pratica un diverso ambito territoriale potrebbe dare luogo a una diversa composizione dell’interlocutore islamico. L’istituzionalizzazione infatti passa anche per la presenza e l’attivismo nelle istanze locali, municipali e regionali, su problemi non indifferenti, che vanno dalle modalità di presenza e manifestazione culturale nella scuola alla macellazione halal, dai luoghi di culto ai cimiteri (una forma di ‘integrazione post mortem’, di fronte alla quale assistiamo talvolta a resistenze, da parte istituzionale – per esempio nella concessione di aree cimiteriali – perfino sorprendenti).

E’ del resto soprattutto sul piano locale che si manifestano i momenti e i luoghi di confronto, di incontro e anche di scontro: che si manifestano i problemi, insomma, e che si sperimentano le possibili soluzioni dei medesimi. Ci preme a questo proposito, contro ogni buonismo o irenismo facile, notare che incomprensioni e problemi, rispetto a un fenomeno nuovo, e anche iniziali reazioni di rifiuto, sono sociologicamente non solo comprensibili, ma in un certo senso ‘normali’, fisiologiche, di fronte a un fenomeno inedito e quasi mai ‘spiegato’. Diventano o possono diventare patologiche, come lo sono diventate alcune in tempi recenti, soprattutto per effetto di una gestione non accorta, e quando ad esse si sovrappone una qualche forma di strumentalizzazione politica.(*)

Va sottolineato che è sul piano sociale che, in Italia come in tutta Europa – come abbiamo cercato di mettere in evidenza in un rapporto realizzato per conto dell’Unione Europea, svolto con alcuni colleghi – l’islam si rende presente nella società: con le sue comunità, le sue moschee e le annesse scuole coraniche, le sue associazioni, le festività organizzate pubblicamente (si pensi alla festività che chiude il digiuno del mese di ramadan e la festa del sacrificio di Abramo, spesso organizzate in luoghi pubblici con grandi raduni, specie nelle città più importanti), la presenza visibile nell’abbigliamento (non solo femminile), nella diffusione di negozi ‘etno-religiosi’ (in primis le macellerie halal, che sono ormai diverse decine in tutte le principali città), la presenza nel mondo della scuola, e così via.

Un accenno almeno va fatto a un problema cognitivo che ha ampie conseguenze pratiche. Noi spesso – quasi sempre – abbiamo un’immagine dell’islam come realtà statica, ben definita e immodificabile. Ora, ciò già non è vero nemmeno nei paesi d’origine dell’islam, ma è ancora meno vero in Europa. L’islam trapiantato infatti si modifica in fretta: con il volgere delle generazioni, se non proprio delle stagioni.

Il mondo islamico europeo, e in esso, seppure con un ciclo di sviluppo più tardivo, quello italiano, sta vivendo infatti un processo di trasformazione estremamente rapido. In particolare, risulta di interesse strategico vedere come proseguiranno i processi di strutturazione delle comunità islamiche in questa fase cruciale, in cui non sono più delle comunità etniche provenienti da altrove, dato che con il passaggio generazionale stanno perdendo almeno in parte e progressivamente la caratterizzazione etnica e l’identificazione con i paesi d’origine, ma non sono ancora delle comunità puramente e semplicemente autoctone, per motivi legati tanto alla cultura e ai costumi, quanto alla cittadinanza (né soprattutto sono percepite come tali).

E’ qui, tra i soggetti più giovani, nelle realtà associative, nella presenza ancora relativamente silenziosa ma in movimento dell’islam femminile, tra le seconde generazioni, che è soprattutto visibile e misurabile il terreno reale dell’incontro tra l’islam e il mondo europeo-occidentale, e anche con gli altri soggetti religiosi che questo mondo abitano da più tempo.

Qui è interessante andare a vedere cosa succede davvero. Per potersi confrontare con la realtà, e non solo, come spesso accade – da ambo le parti – con delle proiezioni culturali, disincarnate e proprio per questo spesso irreali.


(*) Che, va detto, nel nostro paese ha raggiunto in alcune recenti occasioni livelli inaccettabili, gravemente lesivi della dignità e forse della legge (per esempio della legge Mancino), e contro le quali non abbiamo udito sufficienti parole di condanna e di dissociazione: come quando, in occasione delle manifestazioni di Lodi e d’altrove, ci si è vantati di aver concimato il terreno su cui è previsto sorga un moschea con “urina di porco padano”, per non parlare delle raffinate ironie su “musulmani e musulpiedi” e gli spiritosi slogan del tipo “Né Mosca né moschea, non abbiamo bisogno di insetti”. Ci pare evidente che, se usato contro un’altra minoranza, come quella ebraica o protestante, o nei confronti della maggioranza cattolica, un linguaggio del genere avrebbe ricevuto risposte che ci è dispiaciuto, da cittadini, non sentire in questo caso.

Lunedì, 17. Giugno 2002
 

SOCIAL

 

CONTATTI