Energia, un paese alla canna del gas

Non potremo fare a meno ancora per parecchi anni, ma questa fonte continua a pesare sui danni ambientali ed è prevalentemente in mano a paesi antidemocratici e instabili, fornendo loro una potente arma di ricatto. Eppure non stiamo facendo abbastanza sulle alternative che, come dicono i numeri, sono già disponibili

Il Medio Oriente in fiamme e la guerra scoppiata per l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia, oltre agli orrori provocati da ogni guerra e al virus della violenza che si spande pericolosamente per il mondo, ci stanno dicendo con chiarezza una verità che solo gli stolti - o gli interessati agli affari collegati alle forniture - non capiscono: gas e petrolio che bruciamo per mantenere e accrescere l’economia e i consumi, di cui godiamo in molti nelle società avanzate, non solo stanno soffocando il mondo, accelerando il cambiamento climatico, ma sono anche formidabili armi di ricatto che tengono sotto scacco le nostre democrazie.
Al di fuori dei nostri confini, queste armi sono in mano a Paesi antidemocratici e instabili. All’interno delle società democratiche, le forniture di idrocarburi sono gestite da imprese così ricche e potenti da avere una forte capacità di influenza sulle scelte energetiche, e non solo.


Possiamo fare subito a meno di queste fonti di energia? No, questa è un’illusione. A medio e anche medio/lungo termine soprattutto il gas naturale sarà indispensabile. Ma va detto che è un’illusione anche l’idea che si possa tranquillamente temporeggiare, invece che accelerare con decisione nella transizione verso le fonti rinnovabili, che presenta anche problemi di ostica soluzione sociale e politica, perché di volta in volta, di guerra in guerra, si può trovare un altro venditore di idrocarburi.  Sostituire un fornitore con un altro, grazie ai buoni uffici delle grandi società petrolifere nazionali – basti qui pensare all’Eni per l’Italia – va bene per l’immediato, ma è una scelta di corto respiro: perché i paesi ai quali ci affidiamo sono instabili e perché in una fase così convulsa di mercato e di domanda il costo di queste materie prime è destinato a restare elevato, ponendo problemi di non poco conto sia in termini di crescita economica, sia in termini di costo della vita.

In sostanza, pensare al gas va bene, ma pensare “solo” al gas e non spingere l'acceleratore a tavoletta sulle rinnovabili, sul risparmio energetico (e ci sarebbe uno spazio grande per farlo senza tagliare i servizi) così come sulla ricerca, a questo punto sarebbe un delitto: è ora che la transizione energetica, parte decisiva della transizione green, esca dall’ambito del dibattito tra tifoserie che sta caratterizzando l’avvio della campagna elettorale per le prossime elezioni europee, per diventare uno dei fulcri dell'autonomia e della libertà delle società che si dicono democratiche. Bastano pochi dati e qualche semplice riflessione per capirlo.

In seguito alla guerra dello Yom Kippur, tra Israele e i paesi arabi vicini, esattamente mezzo secolo fa, i paesi arabi riuniti nell’Opec (l’organizzazione dei produttori di petrolio) decisero di spingere fortemente al rialzo i prezzi del greggio, innescando il primo shock petrolifero e mandando l’intero mondo in recessione.

Può accadere la stessa cosa oggi? La situazione è diversa, ma non meno complicata. Prendiamo per esempio l’Italia: dopo che la Russia ha invaso l’Ucraina nel febbraio del 2022 e in seguito alle sanzioni previste dai paesi occidentali, si è reso necessario cambiare per larga parte fornitori di petrolio e di gas. Passi in avanti sulle rinnovabili e sul risparmio energetico ne sono stati fatti ben pochi. Ma anche grazie alle straordinarie capacità e alle relazioni internazionali dell’Eni, oggi abbiamo le riserve piene e importiamo 25 miliardi di metri cubi di gas l’anno (su un fabbisogno di circa 63) dall’Algeria, paese che non nasconde il proprio sostegno politico alla causa palestinese e che certo non brilla per granitica stabilità. Dalla Libia, altro paese a dir poco instabile, arrivano 3 miliardi di metri cubi, anche se il gasdotto che arriva a Gela potrebbe fornircene 15 miliardi l’anno. Altri 10 miliardi di metri cubi di gas arrivano con il Tap, Trans Adriatic Pipeline, dall’Azerbaijan, passando per una zona appena toccata dalla guerra, come il Nagorno Karabach. Senza contare che dalla Russia arriva ancora gas.

Insomma, gas, gas, gas. E ci siamo sentiti felici e a posto: l’inverno sarà al caldo. Solo che poi Hamas ha lanciato un formidabile, sanguinario e sanguinoso attacco terroristico contro Israele. La risposta militare non sarà meno imponente, dura, drastica. E così l’Europa e l’Italia si sono riscoperte, come ha scritto Davide Tabarelli, esperto tra i più ascoltati sul tema delle fonti fossili, “esposte alla dipendenza energetica da quelle aree dove, con ciclicità di 5 o 10 anni, si presentano crisi militari che mettono a repentaglio le esportazioni di gas e petrolio, fonti che contano ancora per il 60 per cento dei nostri consumi”. E allora? “Il tubo con la Russia è meglio che rimanga aperto”, ha suggerito l’esperto. Fine dei giochi. E ancora: gas.  

Senza contare che, anche se da venditori diversi, il rischio è di pagare un prezzo spropositato per fonti energetiche che dovremmo lavorare per limitare: dopo l’attacco di Hamas a Israele e i problemi al gasdotto Finlandia/Lettonia (incidente al gasdotto) il prezzo del gas è schizzato oltre i 50 dollari il megawattora. Il greggio Brent ha superato gli 89 dollari.

Ci sono alternative? La risposta è sì e sono tecnicamente anche già disponibili: mentre saltiamo da un fornitore a un altro per evitare le strozzature di guerre e crisi politiche sulle forniture di gas e petrolio, necessarie ancora per diversi anni, è possibile accelerare sugli impianti di fonti rinnovabili per produrre più energia da queste strutture e ridurre in modo drastico i consumi.

Due esempi su tutti. Il primo. I dati disponibili sul patrimonio immobiliare e sui consumi familiari indicano che un piano di intervento pluriennale e pubblico per sostenere il passaggio degli immobili italiani oggi occupati da famiglie con scarse o nulle capacità di spesa dalla classe energetica G alla E, prevedendo che i più abbienti mantengano gli sconti fiscali in vigore fin dal Prodi II per lo stesso passaggio, produrrebbe un taglio dei consumi, a parità di servizi (riscaldamento, cucina, acqua calda…) superiore al 50 per cento.   

Il secondo esempio riguarda il solare sui tetti degli edifici pubblici e privati. Secondo l’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, la superficie potenzialmente disponibile per l’installazione di impianti fotovoltaici sui tetti è “compresa tra 75.000 e 99.000 ettari, sufficiente ad ospitare nuovi impianti fotovoltaici per una potenza complessiva compresa tra 70 e 92 GW”. Per capire l’importanza di questo dato basti dire che si tratta di un quantitativo più che sufficiente a coprire l’intero aumento di energia rinnovabile previsto dal Piano per la Transizione Ecologica al 2030.

Come dire: fare si potrebbe, ma qui si parla solo di gas. O meglio: concretamente e con convinzione di gas e, tanto per sminuire il ruolo che potrebbero avere le fonti rinnovabili secondo i progetti europei, di nucleare. Infatti, le centrali a fusione, che risolverebbero molti problemi, sono di là da venire. Si stanno studiando, ed è giustissimo, ma il traguardo è lontano, molto lontano. Il nucleare vecchio tipo, a fissione, escluso in Italia con un referendum dai risultati inequivocabili, ritorna invece ciclicamente in discussione, ma con molta ipocrisia. Oggi si parla molto delle nuove centrali di IV generazione. Ne parla molto il governo delle destre. Ma in realtà non esistono ancora reattori commerciali di questo tipo: è in corso una fase sperimentale. La previsione più verosimile stima che entro il 2030 i reattori dimostrativi, alcuni dei quali sono già esistenti in Cina e in Russia, avranno dato le risposte necessarie e si potrebbe quindi partire con l’eventuale costruzione di reattori commerciali. Cioè: anni di lavori a partire dall’anno in cui dovremmo – e potremmo - aver già raggiunto risultati apprezzabili sul piano delle fonti rinnovabili, secondo gli obiettivi europei.

In questo contesto, va ricordato infine che le centrali più avanzate dal punto di vista tecnologico e oggi già realizzabili sono di terza generazione, come quella di Flamanville in Francia, in costruzione da oltre un decennio con costi ormai esplosi a livello stratosferico e con continui problemi, e la centrale Okiluoto, in Finlandia, costata anche questa molto, molto più del previsto.

Infine, ma non in ordine di importanza, sul tema del nucleare resterebbe da risolvere l’assenza di un sito dove stoccare al sicuro le scorie radioattive: il governo (tutti i governi che si sono succeduti negli anni, e quello Meloni non fa eccezione) non è riuscito a ancora a individuare e a realizzare, per evidenti motivi di rapporto con le popolazioni dei diversi territori reputati idonei, un sito per la conservazione sicura delle scorie radioattive. Insomma, si straparla di centrali e nemmeno sappiamo ancora dove poter collocare in modo definitivo le scorie delle vecchie strutture fermate dopo il referendum del 1987.

Sabato, 21. Ottobre 2023
 

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