Energia e ambiente, la rivoluzione necessaria

Abbiamo di fronte due problemi: ridurre le emissioni di CO2 e far fronte alla scarsità del petrolio forse già tra dieci anni. Ciò significa un cambiamento radicale del nostro modo di vivere e produrre e richiederebbe una strategia globale. Ma i governi non sembrano rendersene conto

Che i dati del mercato e dell’economia cambino  rapidamente è del tutto naturale, ed è anche necessario, se non si vuole cadere nella  stagnazione. Di recente, sembra che si vadano però accelerando i cambiamenti di aspetti strutturali dell’economia mondiale, una tendenza che è cominciata qualche anno fa, e non sembra destinata a scomparire, ad attenuarsi. Ci fronteggiano ormai dei problemi a dimensione planetaria, e non  sembra esserci oggi un’istituzione  dotata dei poteri necessari su di una scala sufficiente per poterli risolvere. I paesi ricchi, e quelli che lo stanno diventando, dovrebbero essere i più preoccupati, perchè la situazione minaccia proprio la “way of life” che  loro godono oggi o vorrebbero godere domani. Invece, essi sono abbastanza sordi su una e sull’altra faccia del problema.

 

Il problema che ci sta di fronte ha infatti due facce. Da un lato è necessario ed urgente ridurre l’inquinamento e le emissioni di CO2 nell’atmosfera; dall’altro, si cominciano a profilare indizi crescenti di una scarsità di petrolio, non immediata ma che sembra avvicinarsi, e minaccia di diventare reale già fra un decennio. Il che, dati i tempi necessariamente lunghi dell’industria petrolifera, vuol dire che la situazione si dovrebbe affrontare oggi senza attendere domani. Gli indizi di  cambiamento e le preoccupazioni che essi creano sono così  importanti da far pensare che si prendano rapidamente decisioni operative. Ciò non è avvenuto, e c’è da temere che non avverrà neanche nel prossimo futuro. Personaggi e governi continuano a pensare che questi siano due problemi diversi. Invece il problema è uno solo e significa una cosa molto difficile, non dico a fare, ma anche soltanto a pensare: dovremo, in pochi decenni, cambiare a livello globale il modo di produrre e di consumare le fonti di energia.

 

Non è certo un problema da poco. Dall’epoca della rivoluzione industriale l’economia mondiale è indissolubilmente legata all’impiego di combustibili fossili, prima il carbone e poi il petrolio ed il gas. L’Europa, senza giacimenti petroliferi in terraferma, rimase ancorata al carbone fino alla seconda guerra mondiale. Quando, negli anni ’50, s’intensificò la concorrenza dell’olio combustibile al carbone, l’Europa prese delle misure, come ad esempio la CECA e l’Euratom, che non ebbero grande successo, ma resero meno traumatico il passaggio da una fonte all’altra. Oggi sembra che il mondo pensi che tutto debba dipendere dal mercato, e che dal mercato ci si debba aspettare la risposta a questi due problemi.

 

Ma la risposta è già venuta. Il mercato ha reagito alla futura scarsità – non a quella attuale, che non esiste –  facendo schizzare il prezzo del petrolio fino a livelli mai visti prima. Ci possiamo chiedere che effetti potrà avere questa risposta. Arricchirà gli speculatori, aumenterà le già enormi entrate dei paesi produttori e gli altissimi profitti delle compagnie petrolifere internazionali, ma non risolverà affatto l’uno l’altro dei due problemi. L’esperienza del primo e secondo shock petrolifero negli anni settanta ce lo fa pensare. Questa volta l’elasticità della domanda si va mettendo in moto  ancor più lentamente di allora, dato che il reddito dei consumatori è molto più alto di quanto non fosse allora, ed il trasporto è un settore molto meno flessibile dell’industria, che fu negli anni settanta e nei primi anni ottanta il principale  agente della conservazione dell’energia e della riduzione della domanda di petrolio.

 

L’industria utilizza oggi per la maggior parte gas naturale e non petrolio, e l’effetto prezzo si fa valere  più lentamente. D’altro canto, le grandi compagnie petrolifere lamentano che i loro investimenti sono rallentati o impediti da tanti fattori, fra cui l’inflazione dei prezzi dei beni capitali, che ha provocato grandissimi aumenti nei costi dei grandi progetti di sviluppo; ed il fatto che i paesi petroliferi non accettano di lavorare con loro né nel proprio territorio né altrove. È  quindi probabile che  gli investimenti non risponderanno se non lentamente all’andamento del prezzo del greggio.

 

L’altra faccia della medaglia è anche peggio. Il problema delle emissioni nell’atmosfera non si può affrontare su scala sufficientemente ampia per avere successo, e rimane sempre più incerto date le posizioni dei maggiori paesi interessati, alcuni fra i quali negano addirittura l’esistenza del problema. La struttura istituzionale degli Stati, ricchi o poveri che siano, non offre lo strumento per affrontare un problema che è planetario: nessun paese è in grado di risolverlo, nei suoi due aspetti, per sé solo. Noi parliamo, a ragion veduta, di globalizzazione dell’economia come motore dell’aumento del reddito mondiale. Essa riguarda però il movimento dei capitali e delle merci. Solo su questi due temi, o, almeno, su uno di essi, essa ha creato  istituzioni capaci di definire un consenso a livello globale sufficiente a risolvere problemi di grande rilievo.

 

Paesi ricchi e paesi poveri, paesi produttori e paesi consumatori, paesi virtuosi e paesi spreconi, paesi che, come l’Europa, in qualche modo cercano di affrontare i problemi e paesi che li ignorano, sembrano tutti avere interessi diversi: e nessuno di loro riesce a impostare la questione in modo da creare un consenso anche solo di una maggioranza di paesi. C’è da sperare che il prossimo futuro porterà qualche miglioramento. C’è da augurarselo, perché il duplice problema che abbiamo di fronte ha un’importanza davvero vitale per l’economia di tutto il mondo.

Giovedì, 3. Gennaio 2008
 

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