Enel, sei domande su una non-scalata

Un'operazione non molto comprensibile, mal gestita sia dall'azienda che dal nostro governo, che tuttavia merita qualche riflessione più che sul fatto in sé, che appare di poco conto, sulle strategie italiane
Gli sconfinamenti nel Belgio sono decisamente infausti per gli scalatori italiani: dopo che anni or sono la scalata da parte del gruppo De Benedetti del maggiore gruppo belga - Société Generale de la Belgique (SGB) - si risolse in un clamoroso insuccesso, sembra votato all'insuccesso anche un tentativo di scalata, peraltro ancor oggi allo stato di "intenzione non dichiarata", da parte dell'Enel su Suez (oggi proprietaria al 100% di SBG).
 
Perchè mai Enel (fatturato 36,5 miliardi di euro), con attività prevalenti nella produzione e distribuzione di energia elettrica, si è proposto di acquisire tutto in un boccone un gruppo di pari dimensioni (fatturato 41,5 miliardi di euro) con attività molto diversificate, sia per settore (elettricità, gas, acqua, trattamento rifiuti), sia per territorio (Europa, ma anche America del nord e del sud)?
 
Impegnare 50 miliardi di euro in un tentativo di scalata ostile a un gruppo di pari dimensione ma di tutt'altro indirizzo strategico sembrerebbe una bizzarria. La questione trova una spiegazione nella circostanza che l'effettivo interesse dell'Enel sembra limitato ad acquisire una parte delle attività di Suez consistenti in Electrabel (12,1 miliardi di euro di fatturato), principale operatore nella produzione e distribuzione di energia (elettricità e gas) in Olanda e nel Belgio. L'Enel infatti ha iniziato ad acquisire imprese elettriche importanti localmente in Slovacchia, Romania e Spagna ed ha acquisito una quota del 12% nella grande distribuzione di gas in Italia. Resta misterioso perchè impiantare una scalata ostile su Suez, che è tra l'altro uno dei principali gruppi industriali francesi, al solo scopo di acquisirne una parte minore.
 
La scalata di un tale gruppo risulterebbe quindi impresa proibitiva per Enel, ed assolutamente incongrua, a meno che l'obiettivo reale di tanta guerra consistesse nello spacchettamento di Suez, parte a vantaggio dell'Enel stesso (Electrabel) ed il resto a vantaggio di qualcun altro, ma di chi? Questo qualcun altro c'è ed è francese: si tratta del gruppo Veola (30,1 miliardi di euro di fatturato), concorrente diretto di Suez, operante nei settori dell'acqua e del trattamento dei rifiuti, quindi interessato ad acquisire la parte di Suez che non interessa l'Enel. 
 
La cosa curiosa è che Electrabel era stata acquisita da Suez solo alcuni mesi or sono, a fine 2005, senza che ci fosse stata da parte del governo belga alcun segnale di dissenso, di percezione di qualche risvolto poco gradito in un'operazione di così ampio rilievo per il paese. La stampa belga sì, aveva protestato, più che altro nei toni dell'ironia, lamentando che ormai le scelte di politica energetica del Belgio si sarebbero fatte a Parigi. Ora invece la protesta dilaga, non tanto in Belgio quanto in Francia. Infatti, come già nel tentativo fallito di scalata di De Benedetti a SGB, anche questa volta è dalla Francia, molto presente nell'economia del Belgio, che è partito un deciso altolà. Tra l'altro l'Enel, che a oggi nel gas naturale conta poco o niente, per acquisire Electrabel si è messa in testa di scalare uno dei principali gruppi privati francesi (Suez), che è inoltre il principale gruppo privato francese, operante in Francia ma ancor più alla grande a livello internazionale nel settore energetico.
 
A questo punto, senza che Enel abbia fatto alcun passo formale per iniziare una qualche procedura di offerta pubblica di acquisto (opa), notizie di stampa (21 febbraio 2006) rivelano che c'è un'intenzione dell'Enel di scalare Suez e contestualmente si scopre che c'è un progetto (quindi più che un'intenzione) di fusione tra Suez e Gaz de France (GdF, l'ente di stato francese nel settore del gas con un fatturato 22,4 miliardi di euro), la cui elaborazione non può non essere nota da tempo e da tempo condivisa dal governo francese, che è il padrone di Gaz de France, tanto è vero che il 25 ed il 26 febbraio i consigli di amministrazione dei due gruppi francesi deliberano in tutti i suoi dettagli il percorso di fusione.
 
Così stando le cose, la scalata del gruppo (Suez+GdF, 64 miliardi di euro) risulterebbe impresa proibitiva per Enel, ed assolutamente incongrua: impegnare 64 miliardi per acquisire un'Electrabel che ne vale 12, e che inoltre non si sa bene a cosa serva all'Enel non pare abbia senso, anche perchè nel frattempo Veola dichiara di non voler partecipare alla progettata opa ostile, che andrebbe in rotta di collisione con le intenzioni del governo francese.
 
Sulla scorta di queste notizie di stampa e in assenza di una effettiva offerta già formulata dall'Enel (che dichiara di avere ancora allo studio la questione e di valutare l'opportunità di lanciare un'opa formale) il governo italiano parte a testa bassa contestando a quello francese una difesa impropria degli interessi nazionali. Il governo francese ironizza, sostenendo che la fusione Suez/GdF è operazione di alta strategia, in itinere da tempo e comunque avviata ad effettuarsi comunque.
 
A questo punto il governo italiano decide di fiancheggiare tardivamente la "non opa" dell'Enel e si rivolge a Bruxelles, dove - dopo la non conferma del nostro commissario alla concorrenza, Mario Monti, l'Italia non ha più voce in capitolo - le questioni di strategia economica sono nelle mani di una troika fortemente liberista (una olandese alla concorrenza, un irlandese al mercato interno, un inglese ai mercati esterni) che tuttavia accoglie con grande freddezza le rimostranze italiane. Finora, quindi, solo un nulla di fatto: l'Enel non ha ancora fatto alcuna offerta formale, il governo italiano ha sollevato proteste che sono state respinte da tutti gli interlocutori in gioco, la fusione Suez/GdF va avanti, sia pure con qualche protesta del sindacato poichè un risvolto della programmata fusione è la diluizione del ruolo dello Stato, poichè nel matrimonio tra una Suez che patrimonialmente pesa 2 e un GdF che pesa 1, la partecipazione pubblica nel nuovo soggetto societario scende dal 70% al 35%, dando luogo a una privatizzazione di grande rilievo.
 
Nel clima elettorale surriscaldato su ben altre e non marginali questioni questa brutta figura di una grande gruppo italiano a guida pubblica e del governo nazionale passa abbastanza sotto silenzio, ma a elezioni concluse meriterà una clamorosa risata e un apprezzamento ironico sulle scarse capacità strategiche e del governo e di una grande impresa pubblica. E l'ENI, principale gestore del mercato italiano del gas e titolare dei gasdotti che alimentano dall'estero la domanda di gas e che quindi sarebbe assai più titolato a valutare l'opportunità di acquisire una rete di distribuzione del gas nell'area Benelux? Tace. Ma già si muovono voci che, sulla base di un'operazione palesemente mal concepita, comunque già fallita e certamente marginale, suggeriscono una fusione epocale tra Enel ed ENI.
 
Come si desume da questa fin troppo minuziosa ma necessaria analisi di quello che si può definire in sè un fatterello, emergono questioni di ben più grande portata.
Primo: è ancora tempo, se mai si è dato un tal tempo, di opa ostili progettate e tentate, tra l'altro mediante intese poco trasparenti, con obiettivi strategici strampalati, che coinvolgono grandi imprese pubbliche nella totale ignoranza del governo che ne è azionista quanto meno di riferimento? Certo che no.
 
Secondo: è possibile che il governo italiano, tardivamente informato del disastroso approdo di un'operazione insensata, accusi il governo francese di indebita ingerenza nel libero mercato quando quest'ultimo si è limitato a consentire a una fusione strategicamente sensata di due grandi imprese francesi, consenso necessario perchè una di queste ha come azionista, non di riferimento ma di maggioranza, lo Stato francese? Certo che no.
 
Terzo: ha valutato il governo italiano quanto dannoso sia stato il licenziamento di un autorevole commissario alla concorrenza come è stato Monti, in cambio dell'acquisizione di un incarico marginale nella commissione europea, al quale tra l'altro destinare, con una strategia manifestamente ad personam, prima  un suo ministro e poi un altro? Sembra di no.
 
Quarto: è possibile che nel quadro di una competizione cieca tra imprese pubbliche si mandi avanti sul mercato europeo del gas l'Enel, che ad oggi ha solo arraffato un 12% nel mercato nazionale, a preferenza dell'ENI, che ad oggi è il gestore della rete di distribuzione italiana e dei suoi importanti agganci ai rifornimenti extraeuropei ed è nel contempo una major nel mercato petrolifero, legato a filo doppio con quello del metano? Certo che no.
 
Quinto: è possibile che ci si affidi, più in generale, a un sistema di divieti piuttosto che stimolare ambiziose e necessarie iniziative strategiche delle imprese italiane volte a preservare il loro ruolo in Italia ed a promuovere una maggiore inserimento nei mercati internazionali e prima di tutto nell'area dell'Unione Europea?  Certo che no. Le vicende nel settore bancario hanno dimostrato i limiti della strategia dei divieti perseguita da Fazio e la necessità di una strategia di iniziativa delle imprese indicata da Draghi.
    
Sesto: si è valutato che in assenza di una significativa iniziativa e credibilità della commissione europea, l'iniziativa dei governi nazionali più consapevoli ed attivi costituisce il minor male rispetto alla vacanza di una significativa politica dell'Unione e che nella latitanza di decisione collegiali della pletorica commissione europea i singoli commissari sono costretti a personalizzare la gestione delle loro aree di competenza, avendo come riferimento certo solo quello dei rispettivi governi nazionali? Sembra proprio di no.
 
Mi fermo a queste sei questioni, ma altre possono emergere dall'analisi della "non scalata" dell'Enel a Suez, un fatterello che suggerisce considerazioni che sovrastano la portata del fatterello in sé.
Giovedì, 16. Marzo 2006
 

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