Ecco la 'nuova' fabbrica: è vecchissima

Dall'inchiesta promossa dalla Fiom, che ha interpellato ben 100.000 metalmeccanici, emerge un quadro sconcertante. Non solo salari bassi e "settimana lunga", ma mansioni per due terzi ripetitive, rischi per la salute, cattiva organizzazione del lavoro

Stiamo per entrare nella fabbrica moderna. La immaginiamo tutta lustrini e luci colorate. Così come spesso è descritta da illustri commentatori e magari spicca nelle pagine di riviste patinate. Una fabbrica dove fordismo e taylorismo, cioè tempi di lavoro predeterminati, ritmi ossessivi, sfruttamento della forza lavoro spinto all'estremo, sarebbero cose vecchie, orpelli del passato. Ed ecco che invece, nel nostro caso, ci troviamo di fronte ad una realtà diversa. Dove quel passato emerge con prepotenza. La fabbrica che così esploriamo è quella raccontata da un’inchiesta promossa dalla Fiom-Cgil. Un’iniziativa non dappoco visto che ha impegnato centomila lavoratori che non si sono limitati ad afferrare il voluminoso questionario. Hanno dedicato almeno tre quarti d’ora del proprio tempo per riflettere sugli interrogativi e per elaborare le risposte.  Erano spesso non iscritti al sindacato, ma il sindacato così facendo ha costruito un rapporto, stabilito un primo dialogo.  

 

L’elemento che colpisce non è dato solo dal fatto che la fabbrica di questo nuovo secolo è abitata da una moltitudine di “working poor”, lavoratori poveri con una media mensile di 1.246 euro. Il disagio salariale è ormai da tempo sulla bocca di tutti, soprattutto degli adepti al “capitalismo compassionevole”. C’è un'altra povertà, ancora più profonda, che tocca le condizioni di lavoro e che fanno pensare se non a Henry Ford, a Frederick Taylor.  Ha osservato il principale autore dell’indagine, Francesco Garibaldo, come gran parte dei metalmeccanici interpellati “vivono una condizione lavorativa non dissimile da quella dei loro padri quando non dei loro nonni”.

 

Non è, certo, una realtà omogenea. Le differenze viaggiano tra grandi fabbriche e fabbriche minori, tra settore e settore, essendo la siderurgia diversa dall’elettromeccanica, tra maschi e femmine, tra immigrati e precari. Questi ultimi sono presenti anche se in percentuali ridotte, ovverosia il 9,4 di coloro che hanno aderito all’iniziativa. Possiamo però pensare che molti abbiano esitato: la fragilità dei contratti “atipici” suggerisce spesso, come si può ipotizzare, atteggiamenti guardinghi.

 

L’ombra di Ford e Taylor riappare, comunque, nel capitolo dedicato all’orario di lavoro. Intanto si apprende che la settimana di 40 ore, gloriosa conquista dell’autunno caldo, è in fase di superamento. Il 15% degli interpellati lavora  44 ore la settimana. C’è di più: l’8,1% lavora 48 ore la settimana e il 3% supera le 48 ore, spesso arriva alle 52 settimanali. Un viatico per il futuro, visto che nell’Unione Europea si discute di una settimana lavorativa anche di 60 ore.

 

C’è nelle allungate giornate del metalmeccanico un tempo contrassegnato da gesti e ritmi ossessivi. Non tutti, ma ben il 64,3% opera attraverso “atti e movimenti ripetitivi”. Sono poi il 67,6 nelle aziende sopra i 1000 addetti. Tale gesticolare è spesso minuzioso: dura da pochi secondi fino a un minuto per il 40,1%. Robe da “Tempi moderni”. Il ritmo è determinato da fattori diversi. C’è quella che gli autori chiamano una forma arcaica di organizzazione del lavoro, in cui predomina (il 42,9” dei casi), il controllo diretto del capo. Esistono poi forme più moderne (il 44,3%) dove il ritmo è principalmente determinato da obiettivi legati a un progetto.

 

Un’organizzazione frenetica dove si scopre che però non sono rare le interruzioni del lavoro. Il 55,2% degli interpellati le esperimenta più volte il giorno o in una settimana. Sono dovute per il 67,8% da cattiva organizzazione e per il 49,6 % da cattivo funzionamento di macchine o strumenti.  

 

L’accurata descrizione investe anche le novità del processo lavorativo come la rotazione nelle mansioni e il lavoro di gruppo che interessa il 54,6% degli interpellati. Eppure anche qui il 53% denuncia una monotonia nei compiti assegnati. Mentre è posta in risalto la possibilità di scegliere o modificare ordine e priorità dei compiti (58,3%) nonché il metodo di lavoro e la velocità del lavoro.  Altri elementi di autoregolazione sono dati dall’aiuto dei compagni di lavoro (88%), dalla libertà di decidere vacanze e giorni di permesso (58,6).

Sono, ripetiamo, realtà diverse, spesso contrapposte. Dove però predomina la ricerca della competitività non collegata agli impulsi dati all’innovazione, bensì al risparmio sul costo del lavoro. Lo testimonia un fattore fondamentale: le aziende non investono in formazione. Solo il 17,4% degli interpellati dichiara di usufruire di corsi di formazione pagati dall’azienda. La maggioranza assoluta non ha mai avuto più di 16 ore di formazione, il 39,3% mai più di otto ore. Una situazione desolante.

 

Non si conta sul capitale umano, anzi lo si mette a repentaglio. Cifre impressionanti emergono dall’iniziativa e riguardano la condizione psicofisica di questi rinnovati Cipputi. Il 38,4 % è esposto alle vibrazioni, il 43,4% è esposto a rumori molto forti, il 28,5% è esposto a temperature che fanno sudare anche se non lavori, il 43,4% respira vapori, fumi, polveri, sostanze chimiche o infette, il 22.6% manipola sostanze e material dannosi, il 10,2% è esposto a radiazioni.

 

E così ecco la classifica dei “danni”: problemi di udito 39,9%, occhi 39,6%, pelle 36,7%, schiena 43,3%, dolori spalle e collo 41,2%, dolori gambe 37,50%, dolori allo stomaco 37%, difficoltà respiratorie 37,1%, difficoltà a concentrarsi 36,1%, insonnia 37,2%, ansia 37,9%.  Ha commentato il curatore di questo capitolo sulla salute Gino Rubini: “Emerge - conferma di un dato conosciuto - la diffusione quasi epidemica dei disturbi muscoli-scheletrici nelle lavoratrici e nei Iavoratori che svolgono un lavoro con movimenti ripetitivi…”. Insieme affiorano “aspetti della fatica nervosa che accompagna come un'ombra la più conosciuta e tradizionale fatica fisica”.

 

Così “tensione, stanchezza, difficoltà a concentrarsi, irritabilità, rappresentano in qualche modo lo specchio di un'organizzazione del lavoro molto tirata, con pochi margini di ridondanza e spazi per un'ulteriore intensificazione quantitativa del lavoro”. Insomma, aggiungiamo noi, c’è poco da sperare in una contrattazione tutta destinata a ipotizzare aumenti di produttività basati sull’impiego della forza lavoro. Dice ancora Rubini: “Dai dati emerge la preoccupazione di un sistema produttivo che rischia di bruciare troppo rapidamente il patrimonio di salute individuale delle persone che lavorano, producendo situazioni d’inidoneità precoci alla mansione e la relativa emarginazione dal mercato del lavoro di lavoratrici e lavoratori ancora giovani”.

 

Sono donne e uomini operai che alla domanda finale posta nel questionario “Pensi che potrai fare lo stesso lavoro quando avrai 60 anni?” rispondono per il 50 per cento negativamente (30% gli impiegati). E’ un interrogativo che dovrebbe affrontare, oggi e non fra 60 anni, in primo luogo il sindacato nel suo complesso.

Martedì, 21. Ottobre 2008
 

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