La domanda che intendiamo porci è la seguente: in che misura la green economy può contribuire al conseguimento di due obiettivi prioritari, l'incremento occupazionale ed un percorso su un sentiero economicamente e socialmente più equilibrato? Dobbiamo in primo luogo chiarire ancora una volta una categoria definizionale la cui importanza è fondamentale per indirizzare quelle scelte di politica economica che non si intendono affidare all'arbitrio dei mercati. Ciò a maggior ragione quando la lunga e profonda crisi che molti Paesi stanno soffrendo dovrebbe aver posto fine alle mitizzazioni del turbo-capitalismo.
La crescita è la misura dell'incremento della produzione o del prodotto interno lordo. Si effettua moltiplicando i flussi di beni e servizi prodotti in un certo intervallo di tempo per i rispettivi prezzi. Per tener conto dell'inflazione si applica un "deflatore" ottenendo così serie a valore monetario costante.
Lo sviluppo è un concetto molto più sofisticato. Consente di ottenere anche indicatori di benessere nell'alveo di un pensiero teorico che va dalle impostazioni di Amarthya Sen alla concezione cinese (poco realizzata, per la verità) di "società armoniosa". Fra gli elementi da considerare figurano le "quote di ammortamento" che non appaiono nel Pil (autodefinito lordo), come il degrado dell'ambiente e il consumo di risorse non rinnovabili o rinnovabili ad un tasso inferiore a quello del loro utilizzo. Occorrerà considerare inoltre il benessere spirituale e fisiologico della popolazione, il livello di istruzione, la qualità e quantità dei cosiddetti beni comuni e, naturalmente, la distribuzione del reddito che si riflette nella struttura merceologica della produzione. Basterà un esempio elementare. Supponiamo che un bambino richieda un litro di latte al giorno al costo approssimato di 2 euro. Per un milione di bambini occorrerà una produzione annua di latte del valore di 730 milioni di euro. Se una Ferrari costa circa 250.000 euro, producendone 3.000 ottengo una cifra leggermente superiore (750 milioni). I due totali sono eguali in termini di crescita, ma certamente non lo sono in termini di sviluppo.
Occorre sottolineare però preliminarmente che una politica economica realistica rifugge da integralismi concettuali. Nessuno può ragionevolmente ritenere che l'economia verde divenga fattore esclusivo di crescita e di sviluppo. La presenza di strutture produttive ad alta intensità di capitale di tipo tradizionale (siderurgia, chimica, meccanica pesante), sia pure circondata da precauzioni ambientali, dovrà essere mantenuta ancora per molto tempo. Questi settori rappresentano pur sempre lo scheletro che sorregge un'economia di medio-grandi dimensioni, come quella italiana.
Ritornando alle tematiche originarie, esaminiamo il rapporto tra green economy e occupazione. I coefficienti occupazionali (occupazione per unità di capitale investito) sono diversi lungo le varie tappe della filiera produttiva. Le fasi di ricerca di base e applicata e di produzione di apparecchiature sono quasi certamente ad alta intensità di capitale. Lo stesso capitale umano (i ricercatori) racchiude un notevole investimento in formazione e selezione. Occorre calcolare anche i costi delle ricerche fallite ed il tasso di abbandono dei ricercatori. Coefficienti occupazionali molto più alti si trovano nelle fasi di installazione e manutenzione nonché nelle applicazioni all'edilizia e nella costruzione delle cosiddette smart grids.
Gli indici di efficienza energetica calcolati nel Rapporto Enea (Executive summary) del dicembre 2012 possono costituire un utile indirizzo per un'appropriata politica dell'economia verde e bianca, specificamente diretta all'impiego della forza lavoro. Appare chiaro dal grafico qui riprodotto che il maggior declino di efficienza energetica si è avuto nel settore residenziale che è quello in cui il coefficiente occupazionale è più alto.
Ma altrettanto importanti sono gli effetti di sviluppo, nel senso di accrescimento del benessere. In primo luogo il miglioramento dell'ambiente che si riflette sulla salute fisica delle popolazioni. Altri effetti collaterali, non immediatamente percepibili, si rintraccerebbero, secondo alcuni autori, fra cui Jeremy Rifkin, addirittura in un aumento della democrazia territoriale, collegata con la solidarietà e la partecipazione attiva connessi con l'autoproduzione di energia. Anche senza sposare queste tesi un po' fantasiose, non vi è dubbio che la produzione di energia localmente diffusa tende a favorire iniziative altrettanto puntiformi sotto il profilo manifatturiero, come ad esempio l'artigianato di qualità (anch'esso con alti livelli di occupazione). Non mancano alcune controindicazioni già accennate in un mio precedente articolo. L'eccesso di incentivi al quale sta gradualmente ponendo fine l'intervento del governo, genera distorsioni di mercato anche gravi sia nelle comparazioni internazionali che all'interno del Paese. Bisogna anche guardarsi dalla pubblicità ingannevole: quando si parla di grattacieli semiautonomi sotto il profilo energetico non si calcola l'enorme consumo di energie tradizionali speso nella costruzione del manufatto.
Vi è inoltre un rischio da non sottovalutare. Nei settori a rapido avanzamento tecnologico come questo l'obsolescenza è molto alta. Non vorremmo che ampie aree dovessero trasformarsi nel giro di pochi anni in cimiteri industriali. Ben calibrata, dunque, l'azione del governo che accanto ad una rimodulazione degli incentivi ha approvato, in articulo mortis, lo stanziamento di 240 milioni per la ricerca.
E' prevedibile che in futuro lo sviluppo si concentrerà sul fotovoltaico di ultima generazione (legato alla riqualificazione urbanistica), sul risparmio energetico, sul solare termico e sulle biomasse. Occorrerà però dare continuità alla normativa e semplicità alle procedure, se si vogliono favorire gli investimenti a medio-lungo termine.
Vorrei richiamare l'attenzione su un'osservazione di carattere più generale. E' impossibile ipotizzare che 7 miliardi di abitanti raggiungano i livelli di consumi energetici europei e nordamericani. Inquinamento e depauperamento di risorse non rinnovabili raggiungerebbero un punto di implosione del sistema. Occorrerà dunque rivedere gli stili di vita della popolazione, spostando l'accento dalla crescita allo sviluppo. Quest'ultimo comprende in larga misura, al di sopra della soglia dei bisogni primari, il godimento di piaceri immateriali. Solo quando una chiacchierata con gli amici o l'ascolto di una buona musica sarà più importante dell'acquisto di un' auto ultimo modello o di un viaggio alle Maldive il pericolo di una crisi energetica mondiale potrà considerarsi definitivamente allontanato.