Draghi, le emergenze e le lezioni della storia

La scelta di questo presidente del Consiglio è frutto della situazione straordinaria più che delle manovre per far cadere il precedente governo. Non potrà comunque rappresentare l'alibi o il pretesto per le forze politiche e quelle sociali per sottrarsi alle rispettive responsabilità

Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha costituito, con approvazione a larghissima maggioranza, il governo della Repubblica su incarico del presidente Mattarella per la costituzione di un esecutivo che «non si identifichi con questo o quel partito, con questo o quello schieramento», ma che sia, insieme, di «forte ancoraggio europeo ed occidentale».

La sua discesa in campo non è quindi il Draghi invocato strumentalmente da tempo e da molte parti per combattere il governo Conte, e stravolgerne l'attività.  

Non c'è dubbio che si tratta di una soluzione di emergenza pari alla situazione di emergenza in cui versa il Paese; soluzione avanzata in via prioritaria rispetto alle difficoltà di elezioni anticipate,  elencate dal presidentedella Repubblica, ma anche favorita dalla “riluttanza“ dei parlamentari allo scioglimento della Camere. Soluzione di forte indirizzo presidenziale, ma nella piena correttezza costituzionale, soggetta alla fiducia iniziale del Parlamento sovrano e con potestà di revoca in qualsiasi momento. Considerazioni ovvie, ma non inutili, poiché da più parti si sono elevati lamenti circa un preteso «commissariamento» della politica.  

Draghi, nel suo alto e documentato discorso al Parlamento, lo ha voluto esplicitamente confutare, anche nel ringraziamento al suo predecessore e in un passaggio di consegne con uno stile che ha dato prestigio alle istituzioni. 

Emergenza, dunque, per problemi oggettivi, sanitari, economici e sociali, su cui è inutile soffermarsi; emergenza  per la situazione politica, già difficile da tempo e poi precipitata per una crisi non «incomprensibile», come si sente ancora dire, ma per una scelta ben consapevole.

Il governo Conte è stato abbattuto non perché non fosse all'altezza delle molteplici, difficili, inedite emergenze, ma, al contrario, perché operava bene e rappresentava l'equilibrio politicamente e socialmente più avanzato, come ha detto di recente la costituzionalista Carlassarre.  

Con l'obiettivo di rompere quell'alleanza che vedeva in Conte il punto di sintesi e di equilibrio e che, per i risultati che si stavano concretando anche con l'approvazione e la gestione dei fondi europei, si sarebbe presentata alle prossime scadenze elettorali con meritata possibilità di vittoria. 

Di qui la scelta, nell'ultimo tempo utile, di ribaltare il tavolo, di riguadagnare il PD all'usato sicuro degli «accordi del Nazareno» e ricacciare il Movimento 5 Stelle nella facile opposizione dura e pura, e quindi inutile. Scontando anche un governo delle destre, che invece si sono divise con la strumentale partecipazione alla maggioranza della Lega in contraddizione con quanto sino ad ora sostenuto sul piano politico.  

Sta ai dirigenti della precedente maggioranza dare prova di saggezza e di consolidare  quell'alleanza  strutturale su cui loro stessi puntavano, con il medesimo leader e capace di aggregare, con adeguato programma, gli attuali alleati ed altri ancora che andrebbero altrimenti dispersi.

Ma questo richiede che il PD faccia i conti con il renzismo: il che significa fare finalmente i conti con se stesso. Richiede che il M5S completi la transizione nelle istituzioni assumendosi la fatica e la responsabilità di fare politica con le necessarie mediazioni pur nella salvaguardia dei loro valori fondamentali; di consolidare una leadership e un radicamento territoriale. Il recente risultato del loro referendum sul governo è stato un sofferto ma importante passaggio di quella difficile transizione. Si tratta forse di uno dei fenomeni più interessanti della politica recente italiana.

A tal proposito dovrebbe sovvenire una dura lezione della storia, quando, nel primo dopoguerra, la maggioranza massimalista del Partito Socialista impedì al suo gruppo parlamentare, allora il più numeroso in Parlamento, in grande prevalenza riformista - con dirigenti del calibro di Turati, Treves, Modigliani, Prampolini, Matteotti, e altri -, di svolgere piena attività, accusati di «collaborazionismo» parlamentare con le forze borghesi. E quando Turati salì al Quirinale convocato dal Re in occasione della crisi del primo governo Facta, il massimalista Serrati, segretario del partito, convocò un congresso che espulse, a maggioranza per qualche centinaio di voti (come pretendeva la Terza Internazionale comunista), i riformisti che fonderanno un nuovo partito;  a un anno della scissione comunista e venti giorni prima della marcia fascista su Roma che portò Mussolini a capo del governo.  Scissioni, espulsioni, radiazioni un DNA duro a morire.  

I deputati socialisti (e comunisti) dovevano svolgere solo opera di propaganda distruttiva nei confronti dello Stato borghese, di cui ovviamente si irridevano le istituzioni, a cominciare dal Parlamento, in cui pure sedevano numerosi.

Oggi, si tratta di difendere e valorizzare, a cominciare nel Parlamento, seppure in condizioni più difficili, il tanto fatto e quanto era in programma della precedente maggioranza.

Sorprendono, peraltro, alcune anime candide (?) che lamentano uno spostamento a destra nella composizione del governo quando lo stesso incarico implicava la presenza quantitativamente  proporzionale delle forze componenti la nuova maggioranza, se costituita. Mentre un'analisi più attenta andrebbe fatta sul piano qualitativo nel campo della precedente opposizione, compresa Italia Iva, perché la scelta si è indirizzata prioritariamente a coloro di vocazione europeista e non oltranzista, anche in dissenso con il partito di provenienza; una scelta capace di suscitare interessanti dinamiche evolutive, entro e fra i partiti.             

L'incarico a Draghi, non va nascosto, rappresenta un momento di debolezza della politica, anche se con differenziate responsabilità, ma può concedere una pausa di decantazione e dare il tempo per quei necessari chiarimenti di partito di cui si accennava.

Uno sforzo di unità e responsabilità repubblicana nella emergenza a  cui hanno richiamato Mattarella e Draghi può riguadagnare quel prestigio e onore alla politica, purtroppo affievoliti da tempo.   

Oggi Draghi rappresenta sicuramente una garanzia sia per la delicata situazione finanziaria, sia per l'affidabilità e l'ancoraggio europeo: due condizioni essenziali e in continuità con il governo Conte, messe irresponabilmente in discussione da chi ha causato la crisi.

Mario Draghi, membro della Pontificia Accademia delle Scienze, conosce bene «l'economia di Francesco», d'altronde citata nel suo discorso, che è una economia socialmente ed ecologicamente avanzata e del tutto alternativa ai  vari populismi, suprematismi ed egoismi nazionali. Contro queste derive aiuterà anche l'attuale presidenza americana. Probabilmente consapevole del  suo grande predecessore Roosevelt il quale, nel pieno della Grande crisi, rendeva omaggio ai suoi concittadini per aver dimostrato pazienza e non aver inclinato al «radicalismo» pur tra grandi sofferenze, «ma tradire le loro speranze, vorrebbe dire fraintendere la loro pazienza... L'unica risposta è offrire un programma attuabile di ricostruzione. Questa e solo questa, è la giusta protezione contro una cieca reazione da un lato, e un imprevedibile irresponsabile opportunismo dall'altro»[1].  

Draghi è stato allievo di Federico Caffè il cui impegno civile e sociale è a tutti ben noto.

Caffè si sarebbe dispiaciuto del suo impegno apicale nella Goldman Sachs e avrebbe contestato la lettera della BCE inviata al governo italiano, firmata con Trichet nel passaggio delle consegne, che chiedeva riforme neoliberiste, comprese quelle sul lavoro, su cui mi pare non sia più tornato; avrebbe criticato la politica di dismissione delle Partecipazioni statali a cui si trovò a collaborare come direttore del ministero del Tesoro e protestato per il trattamento inflitto al popolo greco per gli errori della sua classe dirigente. Ma Caffè, europeista convinto, avrebbe apprezzato il suo ruolo di rottura in BCE rispetto alle politiche precedenti e che ha rappresentato il preludio alle modifiche europee in corso, come lo stesso Recovery Plan. 

«L'integrazione europea come quella internazionale è il nostro destino e il nostro futuro», scriveva Caffè. Ma non era convinto che la «via monetaria» fosse quella giusta. Questa - diceva - è come la «nottola della Minerva che si alza a sera». Fuor di metafora,  la moneta unica doveva arrivare alla «fine di un duro lavoro» per armonizzare  le diverse e sperequate aree economiche e sociali, con l'intelligente uso di tutti gli strumenti di politica economica disponibili, in un contesto di solidale cooperazione europea. Diversamente quelle sperequazioni si sarebbero accentuate sul piano esterno ed interno, come puntualmente avvenuto.

Anticipò lucidamente le conseguenze economiche e sociali di quel percorso e del paradigma neoliberista (meglio: pseudoliberista), causa della regressione civile e sociale che accompagna da decenni le crisi e le recessioni economiche[2].

L'autorevole economista britannico Lionel Robbins in un suo saggio del 1944, Le cause economiche della guerra, contestava le tesi marxiste e leniniste fondate essenzialmente sulle cause economiche dei conflitti, per attribuirle invece ai nazionalismi e alle correlate politiche «restrizioniste», tanto che non si potevano escludere conflitti anche all'interno dei paesi comunisti, come di fatto è poi avvenuto. La soluzione risiedeva, quindi, in forme di collaborazione federaliste, se non a livello internazionale certo più ardue, almeno da perseguire a livello europeo.

Caffè, che in quel torno di tempo seguiva con «simpatia non avulsa di adesione ideologica» l'esperimento laburista inglese del «social service State» (come allora si chiamava il «welfare state»)[3], collaborava con il movimento cattolico dossettiano e cercava di far «acclimatare» il pensiero keynesiano in Italia dove era egemone il «mito della deflazione risanatrice», nel recensire il summenzionato volume del Robbins,  così concludeva:

«Su questa conclusione [la soluzione federalista] il saggio del Robbins si chiude, mentre il lettore rimane alle prese con una serie di imbarazzanti interrogativi che traggono origine non dal dubbio della convenienza o meno di dar vita a questa nuova forma di organizzazione europea, ma dalla incertezza sulle vie concrete più opportune per realizzarla. I veri e più ardui problemi sorgono evidentemente là dove la indagine del Robbins si arresta ... Sembra invece pertinente il chiedersi se la finalità di evitare il periodico riaffiorare di conflitti fra le bellicose nazionalità europee sia sufficiente a costituire un fondamento vitale per la istituenda federazione. In altri termini, par lecito dire che una cooperazione tra più paesi e fra l'intera comunità internazionale non può basarsi sul fatto di essere anti-qualcosa (avere cioè una funzione di salvaguardia e di conservazione), ma deve essere pervasa dall'ambizione di intraprendere "qualche sforzo comune", come ad esempio parrebbe dovere essere oggi, il miglioramento delle condizioni di vita delle masse e la liberazione economica dell'uomo comune. Diretta a questo obiettivo la cooperazione europea avrebbe forse una base più durevole; ma è dubbio se in tal caso il sistema di economia di mercato, quale è concepito dal neoliberalismo del Robbins, possa continuare a sussistere o se non si riproponga per altra via il processo alla struttura attuale del capitalismo»[4].     

Molti anni prima, nel duro esilio di Francia, l'anziano Filippo Turati avvertiva i paesi europei che il fascismo non era solo una malattia italiana e che, se non avversata in tempo e con decisione, avrebbe infettato l'Europa, come poi avvenne con l'insorgenza del nazismo.

In tal caso «noi saremo serrati entro questo dilemma: o formare degli Stati Uniti che escludano i paesi senza democrazia, o (ipotesi peggiore) avere dei falsi Stati Uniti, ai quali l'adesione dei dittatori non sarà che nominale, insincera, sempre insidiosa ...»[5]. Una contraddizione ancora attuale, in un mondo, anche all'interno dell'Unione, che soffre ancora di troppe e risorgenti repressioni autoritarie e dittatoriali; che avrebbe invece bisogno di un punto chiaro di riferimento civile e democratico. Una consapevolezza presente nell'intervento del presidente del Consiglio.

Nella sua funzione di «civil servant» in Italia e in Europa, Draghi ha svolto quegli incarichi con «disciplina e con onore» richiesti dall'art. 54 della Costituzione. Una qualità particolarmente a cuore a Federico Caffè e il cui imprinting, soprattuto in questa fase di emergenza nazionale, non si potrà non far sentire da chi lo ebbe, come lui, maestro ed amico affettuoso.  E alcuni accenti si sono avvertiti a cominciare dal richiamo a quel nobile e saggio compromesso costituzionale tra le principali  ideologie del Novecento – liberale, socialista e cristiano sociale – in cui Caffè pienamente si riconosceva ed aveva anzi operato.

Non solo per la sua maturata competenza, ma oggi anche per essere a capo di un Paese decisivo per l'Europa, può farsi autorevole sostenitore di quel ripensamento di paradigma di cui, come presidente della BCE, si è fatto anticipatore. 

Se fu erronea e gravemente sofferta la via monetaria all'Europa, oggi - ancorché non deflazionistica -, se è indispensabile non è certo sufficiente per la soluzione dei suoi problemi, ma occorre ancor di più, perché in drammatico ritardo, quel «duro lavoro» in collettiva solidarietà, richiesto a suo tempo da Caffè.

Se le scelte concrete saranno coerenti con i valori enunciati (e su quelle sarà necessaria una vigile attenzione),le conseguenze economiche e sociali di Draghi non saranno quelle di Winston Churchill, allora ministro del Tesoro,criticate dal Keynes in suo noto opuscolo (Le conseguenze economiche di Winston Churchill, 1925), per aver rivalutato la sterlina all'antica parità dell'anteguerra, per motivi di prestigio, ma causando danni al suo Paese.

Mario Draghi, non potrà comunque rappresentare l'alibi o il pretesto per le forze politiche e quelle sociali - a cominciare dal sindacato confederale, uno dei veri obiettivi della crisi nell'inevitabile  prossimo duro confronto per l'equa distribuzione del reddito e delle  risorse, come degli inevitabili sacrifici anche nel pagamento del debito -, per sottrarsi alle rispettive responsabilità in ordine alle immediate ardue scelte e ai prossimi impegnativi appuntamenti elettorali.

(Giuseppe Amari è membro della Fondazione Giacomo Matteotti)

giusamari45@gmail.com

NOTE

[1]Dall'Introduzione di Franklin D. Roosevelt a Id., Guardando al futuro. La politica contro l'inerzia della crisi, a cura di G. Amari, Maria P. Del Rossi, Prefazione di James Galbraith, Castelvecchi editore, Roma 2018. Il volume traduce di Franklin D. Roosevelt, Looking Forward, John Day, New York, 1933. Dove si leggono i discorsi e gli interventi di Roosevelt per la sua prima campagna elettorale. 

[2]Un‘anticipazione che, per la sua lucidità seppure non concretata in una organica pubblicazione, può ricordare il noto volume di Keynes, Le conseguenze economiche della pace (1919), dove si denunciava la stupida iniquità del Trattato di pace imposto alla Germania non in grado di pagare le richieste «riparazioni» e che contribuì al sorgere del nazismo. Il volume ebbe larga risonanaza proprio perché scritto da chi, come Keynes, rappresentava il Governo inglese alla conferenza di pace e da cui si dimise per protesta. Da più parti venivano contestazioni come in Italia da Francesco Saverio Nitti e la stessa Anna Kuliscioff era angosciata tanto da chiedere a Turati di andarre in Francia per sollecitare l'Internazioanke socialista ad opporsi. Sulla regressione si veda di  AA.VV.,La grande regressione. Quindici intellettuali di tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo,  Feltrinelli, Milano 2017. Nella introduzione di Geiselberger si legge: «[...] Siamo testimoni di un declino rispetto a un determinato livello di “civilizzazione”, che credevamo irreversibile... La grande regressione che oggi si dispiega davanti ai nostri occhi sembra dunque essere il risultato di un'interazione tra i rischi della globalizzazione e quelli del neoliberismo. I problemi generati dalla incapacità della politica di far fronte alle interdipendenze globali trovano infatti delle società impreparate ad affrontarli sul piano delle istituzioni come su quello culturale [corsivo mio]».

[3]Federico Caffè, Introduzione a  Id.,  Annotazioni sulla politica economica britannica in "Un anno di ansia", Tecnica Grafica, Roma 1948. Comprende anche alcune corrispondenze da Londra uscite su Cronache sociali, la rivista dossettiana diretta da Giuseppe Glisenti. Intera corrispondenza ripubblicata in G. Amari (a cura), Federico Caffè, La dignità del lavoro, Castelvecchi editore, Roma 2016 (2014). Dove critica quello che chiama il «mito della deflazione risanatrice».  Con un ampio commento a tal proposito di Claudio Gnesutta.    

[4]Federico Caffè, "L'avvenire dell'Europa nel pensiero di un economista. L. Robbins: Le cause economiche della guerra", Einaudi, Torino 1944. In Mondo Europeo n. 1 - 1945. Recensione poi raccolta in Id., Orientamenti nella letteratura economica contemporanea. Contributi bibliografici, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1953, pp. 18-21.

[5]Filippo Turati, "Per gli Stati Uniti d'Europa", Le quotidien, 15 dicembre 1929. Riprodotto in A. Aghemo, G. Amari, B. Palmieri (a cura), Preludio alla Costituente, Prefazione di Valdo Spini, Postfazione di Giuliano Amato, Castelvecchi editore, Roma 2018, p. 404.

Lunedì, 22. Febbraio 2021
 

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