Diritto 'del' lavoro e diritto 'al' lavoro

"Soft law" è un’espressione linguistica di successo: significa che le parti interessate non hanno maturato un livello di consenso sulle regole sufficiente ad escludere il rischio della loro disapplicazione; significa che l’obiettivo specifico non è ancora chiaramente definito... Tra globalizzazione e Unione Europea, non si vede ancora un modo chiaro di rispondere alle nuove esigenze
In vista del sessantesimo anniversario dell'elezione dell'Assemblea Costituente che si celebra quest'anno la Fondazione della Camera dei Deputati, presieduta da Giorgio Napolitano, aveva tempestivamente programmato la pubblicazione di una raccolta di saggi su "valori e principi del regime repubblicano".  Adesso, i quattro volumi - curati dal compianto Silvano Labriola - sono disponibili per i tipi Laterza.
Di seguito riproduciamo alcune pagine estratte dal saggio di Umberto Romagnoli "Dove va il diritto al lavoro?".


Diritto "al" e diritto "del" lavoro. Le parole sono le stesse, ma la preposizione che di volta in volta le unisce modifica il significato dei sintagmi. Il diritto del lavoro designa il diritto degli occupati stabili alle dipendenze di altri. Il diritto al lavoro solennizza l'aspirazione ad un posto di lavoro, possibilmente fisso. Come dire: il diritto del lavoro ha accorpato le regole attinenti alle vicende successive alla costituzione del rapporto di lavoro, mentre il diritto al lavoro si è ridotto a poco più di un'aspettativa impaziente di tradursi in pretesa giuridica.

Orbene, a dare retta ad una manualistica che la enfatizza, la distanza tra i due sintagmi è rimasta inalterata nel tempo. Questo saggio si propone per l'appunto di misurarla.
Il sintagma vincente nel Novecento è stato il diritto "del" lavoro. Tuttora vincente, non è più totalizzante. Un po' perché, al vaglio dell'esperienza, è crollata l'idea che l'espansione dell'area del lavoro dipendente, e dunque del campo di applicazione del diritto del lavoro, sia l'unica o principale condizione per realizzare la piena occupazione; e un po' perché il diritto "al" lavoro reclama l'annessione di territori più vasti di quelli che finora ha soltanto lambito o avvistato da lontano. Territori che si accinge a colonizzare coniugandosi con quello che, parecchi anni fa, incidentalmente Gino Giugni chiamò "diritto del mercato del lavoro e dell'occupazione" e, con formula abbreviata, propongo di denominare diritto "per il" lavoro.
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L'approccio più onesto e, al tempo stesso, più costruttivo alla tematica dei diritti sociali è l'anti-retorica. Infatti, per quanto virtuose siano le costituzioni che li proclamano, essi rischiano di essere soltanto virtuali. E ciò perché l'interesse per il cui soddisfacimento sono riconosciuti può essere realizzato solo o in larga prevalenza mediante comportamenti attivi dei pubblici poteri. Talvolta, anzi, sono costretti a vivacchiare in una deplorevole condizione di orfanezza: come succede allorché, sforniti di tutela giurisdizionale, non possono avvalersi nemmeno dell'apporto creativo della giurisprudenza.

Paradigmatico è il destino a cui è andata incontro la norma costituzionale che "riconosce il diritto al lavoro a tutti i cittadini"; un diritto che, come scrive con garbata ironia un giurista del lavoro spagnolo (Antonio Baylos), è rimasto "sospeso in un luogo simile al limbo dove i cattolici credono che dimorino le anime dei candidi". Ovunque, infatti, giusta la sintesi di un grande comparatista come lord Wedderburn, il diritto del lavoro "tende a parlare spesso di licenziamento, ben poco invece di assunzione".
 
Insoma, il diritto al lavoro viene difeso con particolare energia soprattutto a vantaggio di chi un posto ce l'ha. Anche per questo, vedendo in giro troppa inoccupazione giovanile, troppo precariato, troppa disoccupazione di lunga durata, oggi non sarebbe dissacrante né trasgressivo cedere alla tentazione di confezionare un'enciclopedia giuridica dove la voce Diritto al lavoro rimandi alla voce Catastrofe. Dopotutto, anche un giurista equilibrato come Massimo D'Antona esortava a "prendere sul serio" il prototipo storico dei diritti sociali. Per porre finalmente termine al disagio causato da un riconoscimento costituzionale che si presta a favorirne più la venerabilità che la concretizzazione, il diritto al lavoro dovrebbe - diceva -  essere tutelato attraverso attività vincolate quanto al fine, ma non quanto ai mezzi, che apparati politico-istituzionali ai più svariati livelli, anche sovranazionali, sono autorizzati a scegliere in contesti dove il principio di legalità impallidisce. Il che, se imbarazza i giuristi educati a pensare che la legislazione statuale di carattere universale e astratto sia il solo strumento all'altezza del valore costituzionalmente protetto, li persuade definitivamente a togliersi dalla testa l'idea che l'hard law degli imponibili di manodopera possa ancora figurare nel repertorio delle decisioni da prendere per promuovere l'occupazione.
 
Il loro primitivismo è tale che, nella stagione (se mai c'è stata) dell'autarchia delle nazioni, al di qua del Muro di Berlino poteva tutt'al più essere adottato - ma con riluttanza e parsimonia - soltanto dagli Stati che avevano la possibilità di controllare i processi economici che si esaurivano all'interno delle loro frontiere. Dopo la caduta del Muro di Berlino e nell'epoca della globalizzazione, è ormai improponibile anche come soluzione provvisoria.

Accettabile, peraltro, non è nemmeno l'idea che per avviare a soluzione la questione occupazionale si debba scommettere sullo spontaneismo delle dinamiche del mercato. Se è da rifiutare persino nelle regioni sottosviluppate a causa della sua stridente contrarietà col decalogo dei diritti umani che hanno nell'OIL di Ginevra la loro vestale, a fortiori essa va respinta da una civiltà giuridica che ha raggiunto i livelli dell'Occidente europeo. A ben vedere, infatti, promuovere l'occupazione è un po' come promuovere la democrazia. In entrambe le ipotesi, quel che conta è il modo con cui l'obiettivo è perseguito. Così, se la guerra contro paesi a regime anti-democratico è un modo sbagliato di espandere la democrazia, nemmeno l'intento di aumentare l'occupazione può giustificare la decisione di facilitare l'accesso al mercato del lavoro moltiplicando le differenziazioni di trattamento fondate su fattori vietati di discriminazione. A cominciare dall'appartenenza al sesso femminile che, come è noto, apre l'interminabile sequenza degli svantaggi socialmente rilevanti. E ciò per l'impossibilità di conciliare il massacro della legislazione antidiscriminatoria con la nozione di progresso civile condivisa dal senso comune delle popolazioni dell'angolo di mondo che si chiama Europa. Come dire che un'occupazione sprovvista di standard qualitativi non è un bene in sé, esattamente come non lo è la democrazia ritenuta tale soltanto perché la gente può eleggere i governanti.

"Gli europei farebbero bene a rallegrarsi per essere riusciti a creare la più umana forma di capitalismo finora conosciuta", si è detto di recente, e "a chiedersi quali nuove idee debbano essere messe in atto per migliorare il loro modello attuale". Vero è che gli europei farebbero bene anche ad invocare il loro Dio contro il rischio che Jeremy Rifkin si sia sbagliato un'altra volta - la sua notorietà essendo legata ad un'avventata profezia sulla imminente "fine del lavoro" - ma non si può non concordare.

Purtroppo, non è ingeneroso dubitare che gli europei siano riusciti a farsi venire l'idea risolutiva capace di schiodare il diritto al lavoro da una situazione che darebbe ragione a Oscar Wilde; il quale sull'ipocrisia aveva le idee chiare: secondo lui, l'ipocrisia è l'omaggio che il vizio rende alla virtù. Di sicuro, l'idea che sembra incontrare più consensi tra gli europei non è originale. L'idea è quella che identifica le condizioni che possono rendere effettivo il diritto al lavoro in un mercato del lavoro tale che la domanda sia in grado di assorbire tutta la possibile offerta; in una struttura amministrativa che agevoli in modo efficace l'incontro tra la domanda e l'offerta; in un sistema di formazione professionale permanente che funzioni.

Quantunque con abnorme ritardo, la linea-guida che lo Stato italiano sembra disposto a privilegiare è finalmente quella secondo la quale la cultura dell'organizzazione giuridica del mercato del lavoro e la sua intrinseca razionalità sono la più autentica garanzia dei diritti degli utenti. Difatti, poiché in materia di diritto al lavoro efficienza e funzionalità sono parametri che operano da misura delle idee, è qui che trova la sua fonte d'ispirazione la scelta di somministrare al diritto al lavoro, che da decenni aveva fatto il pieno di diritto costituzionale senza guadagnarci in termini di vitalità, dosi crescenti di vitamine e proteine sub specie di un diritto amministrativo che, a dispetto dell'anagrafe che ne comprova l'anzianità,  conserva un sapore di novità perché imprime all'anemico diritto al lavoro una torsione suscettibile di riorientarne la concezione in chiave più promozionale che di garantismo statico, trasferendone le sorti nelle mani dello Stato erogatore di prestazioni valutabili in base a criteri più di merito che di legittimità formale, ossia nelle mani dello Stato-organizzatore di servizi non solo e non tanto di collocamento della manodopera, ma anche e soprattutto di formazione e riqualificazione professionale.

L'opzione legislativa che ha accompagnato le vicissitudini della disciplina del mercato del lavoro negli ultimi trent'anni, se non può dirsi che abbia spiazzato del tutto i giuristi del lavoro, non li ha però invogliati ad un impegno di ricerca sulla tortuosità dei suoi percorsi, pur sapendo (o forse proprio perché sapevano) che nei cantieri legislativi i lavori non finivano mai.

"Diciamoci la verità", è la confessione di un giurista di proverbiale franchezza come Giuseppe Pera; "non è che la prospettiva sia entusiasmante: siamo tutti consapevoli che la pubblica amministrazione è quello che è e sappiamo tutti le disfunzioni che ha". Considerando che lo slancio di sincerità si manifestò in occasione di un convegno di studio tempestivamente organizzato a ridosso di una delle prime iniziative legislative di carattere nazionale che sponsorizzavano la formula delle politiche attive del lavoro sulla scia di commendevoli iniziative-pilota di carattere localistico, l'episodio acquista un significato predittivo ed insieme auto-assolutorio. I fatti avrebbero confermato la validità della previsione e misurato l'indice di gradimento del viatico: pochissimi cirenei si sarebbero dedicati al monitoraggio dell'esperienza. Anche se ciò non ha comportato necessariamente il permanere di uno stato di generale insensibilità o indifferenza alla problematica del riassetto istituzionale del mercato del lavoro e dell'efficacia dell'azione amministrativa. Ne costituisce un'eccellente testimonianza un contributo di Mario Rusciano che, sulla scorta della riforma legislativa del mercato del lavoro entrata in vigore nel 1997, ha estratto l'art. 4 della Cosituzione dal tempio che lo sacralizzava, lo ha sottoposto ad una interpretazione laicizzante ed ha insistito sull'esigenza di organizzare la gestione del mercato del lavoro non tanto nell'ottica di una funzione pubblica, ma anche e soprattutto secondo la logica di un servizio in senso proprio.

Nondimeno, è incontrovertibile la povertà dell'apporto della cultura giuridica alla fase di implementazione dei modelli normativi disegnati per tabulas, la quale non passa unicamente attraverso massicci investimenti in termini di risorse materiali. Infatti, la cultura giuridica non ha smesso di eludere la siepe di interrogativi che soffocava il diritto al lavoro se non dopo l'acquisita consapevolezza che la disoccupazione aveva assunto il carattere di un fenomeno strutturale e dunque soltanto durante gli anni '80. Fino ad un minuto prima, invece, l'abitudine a vedere protetto il lavoratore contro il mercato piuttosto che dentro il mercato l'ha allontanata dall'approfondimento dell'analisi persino delle variabili più elementari che condizionano l'applicazione dell'art. 4: "quale" e "quanto" sia il lavoro a cui hanno diritto i cittadini per essere o (il che è lo stesso) sentirsi tali e "dove" esso deve trovarsi perché il diritto non possa ritenersi leso. Non si accorse nemmeno che il diritto del lavoro stava invecchiando precocemente anzitutto perché il suo modello di struttura era legato - in conseguenza della separatezza tra il mondo della produzione e il mondo dei processi formativi - ad una rigida segmentazione del ciclo di vita tra apprendimento ed esercizio d'un'attività economicamente valutabile.

L'unica deviazione dall'idea che prima si studia e dopo si lavora era rappresentata dal decrepito istituto dell'apprendistato, fruibile per lo più da giovanissimi con bassa scolarità, e l'assioma "ti istruisco in vista dell'assunzione" non comincia ad incrinarsi anteriormente all'introduzione del contratto di formazione e lavoro risalente agli anni '70 inoltrati. Figlio dell'idea "ti assumo per formarti", è tuttavia un figlio ancora più insincero di quanto non fosse l'apprendistato. Non solo la formazione è poca, mentre il lavoro è tanto; sporadici i tentativi di verificare ex ante l'adeguatezza dei programmi di formazione e scarsamente incisivi i controlli. Il fatto è che il contratto di formazione e lavoro non poteva ricevere un'utilizzazione diversa da quella attesa. Il legislatore non lo introdusse nell'ordinamento col proposito di valorizzare l'intreccio tra sapere e saper fare per aumentare la produttività di quello che un disadorno lessico definisce capitale umano. Dunque, non è questo il motivo per cui il legislatore arricchì il contratto di formazione e lavoro con un corredo di agevolazioni di varia natura che ingolosiva gli imprenditori. Il contratto aveva, se non proprio esclusivamente, principalmente l'obiettivo congiunturale di allentare la morsa dell'emergenza di una disoccupazione pudicamente definita giovanile sebbene riguardasse anche i trentenni.
(...)
Tutto ciò ovviamente non significa che sia sbagliato ipotizzare che il contratto di formazione e lavoro avrebbe potuto aprire uno spiraglio attraverso il quale l'esigenza della formazione potesse insinuarsi e attecchire nell'ordinario contratto di lavoro sub specie di un effetto naturale del medesimo. Anzi, ripensare i termini dello scambio è meritorio: aiuta a percorrere un lungo tratto di strada; è dato persino favoleggiare dell'esistenza di un diritto alla formazione continua e sostenere che la sua violazione compromette il fisiologico dispiegarsi dello stesso sinallagma funzionale. Tuttavia, per quanto intellettualmente onesta, coeteris paribus la ricostruzione concettuale non è feconda se non di delusioni a danno dei più diretti interessati, come per esempio il lavoratore che corre il pericolo di essere licenziato per accertata obsolescenza del suo patrimonio professionale.

Adesso, comunque, smantellato dai più recenti interventi legislativi il monopolio pubblico del collocamento nel presupposto che la concorrenza tra collocatori privati aumenterà il soddisfacimento dei bisogni dell'utenza; privatizzati, nel medesimo presupposto, anche i criteri gestionali degli apparati pubblici che operano tuttora sul mercato del lavoro; intensificata la partecipazione delle parti sociali alla gestione a livello periferico del mercato del lavoro; entrati gli enti locali, in primis le Regioni, nella cabina di regia delle politiche attive del lavoro, a cominciare dalla formazione professionale, può dirsi che l'Italia abbia compiutamente costruito l'ordito di un proprio diritto "per il" lavoro adeguato al modello europeo.

Esso risulta articolato su una pluralità di schemi organizzativi e procedurali corrispondenti alle aspettative di cui si alimenta la governance by objectives adottata per l'european employment strategy, la c.d. strategia di Lisbona, che privilegia un "metodo di coordinamento aperto" a verifiche reciproche e, mediante tecniche d'intervento leggere, progressivi aggiustamenti in vista dell'occupabilità dei cittadini europei nella maggiore quantità resa possibile dall'istruzione che molti di essi stanno già ricevendo: quella secondo cui il lavoro include il lavoro per imparare a lavorare nonché il sapere per adattarsi ai cambiamenti del lavoro.

E' questo il gigantesco frullatore in cui è finito il diritto al lavoro riconosciuto dalla nostra Costituzione. Non vale la pena preoccuparsi se uscirà dalla centrifuga più secolarizzato e meno blasonato di com'era quando vi è entrato. Forse, era proprio ciò di cui aveva bisogno. Intanto, non è più costretto a piangersi addosso, immalinconendo nella più deprimente solitudine. Come dire: se in precedenza era agli arresti domiciliari, adesso condivide la condizione di un sorvegliato speciale. Infatti, l'istituzionalizzazione di periodici confronti con l'esperienza applicativa del diritto al lavoro di tutti i paesi membri dell'Unione europea gli permetterà di impadronirsi del know-how che è alla base delle performance dei primi della classe e correggersi, imitando o emulando le migliori pratiche nazionali.

Faute de mieux, sarei incline a definirli contatti ravvicinati del terzo tipo, perché la complessa procedimentalizzazione che ne prefigura lo snodarsi raggiunge vertici di barocchismo curiosamente contrastanti col mix di neo-volontarismo e informalità che tipicizza il soft law.

Soft law è un'espressione linguistica di successo; e quando una parola ha fortuna in genere se la merita. Essa significa che le parti interessate non hanno maturato un livello di consenso sulle regole sufficiente ad escludere il rischio della loro disapplicazione; significa che l'obiettivo specifico non è ancora chiaramente definito; significa che il fine desiderabile non è l'omologazione, bensì la tendenziale convergenza su soluzioni condivise e tuttavia raggiungibili con tecniche differenti. Come dire che il soft law è destinato a riempire pagine leggibili soltanto da chi conosce i reagenti chimici che rendono visibile l'inchiostro simpatico. Agli altri le pagine sembreranno sempre vuote, perché il segreto del soft law non è svelato nemmeno dalla Costituzione europea siglata a Roma il 29 ottobre 2004 in occasione del più affollato e reclamizzato summit della storia dell'Europa contemporanea. Anche se il soft law è una tecnica adatta più ad evocare che ad esorcizzare lo spettro del social dumping all'interno della stessa Unione europea che è dato ridisegnare in seguito all'ingresso di una decina di paesi con uno sviluppo economico e un reddito pro capite nettamente inferiori a quello della media dell'Europa dei Quindici.

Costituzione alla mano, l'Unione si impegna in definitiva a prodigarsi per promuovere la cooperazione tra le politiche nazionali in materia di occupazione, sostenerle e, se necessario, completarle; ma considera l'innalzamento del livello occupazionale più che altro come un fastidioso vincolo di cui bisogna tenere conto nelle decisioni in materia economica che si dovranno prendere. Infatti, la Costituzione evita accuratamente di stabilire che gli orientamenti delle politiche economiche devono essere compatibili con l'obiettivo della massima occupazione; stabilisce invece che le politiche occupazionali devono essere "coerenti" con gli indirizzi delle politiche economiche. Insomma, c'è un prius e un posterius, ma non si sa se non in termini approssimativi come si condizioneranno a vicenda. Ad ogni modo, se ciò non bastasse per raffreddare l'euro-ottimismo, è espressamente sancito che la strategia comunitaria a favore dell'occupazione presuppone uno scrupoloso rispetto da parte dell'Unione delle competenze degli Stati membri.

Quindi, l'ecumenismo affabulatorio esibito in ordine alle politiche sociali dal testo costituzionale non esclude nemmeno la rinazionalizzazione del diritto al lavoro vivente nei paesi membri. Proprio per questo, ora più che mai appare necessario riaffermare che il diritto di lavorare nell'Unione europea dovrà evolvere - in sintonia coi risultati dell'analisi compiuta alcuni anni fa da un'équipe di giuristi comunitari guidata da Alain Supiot - a misura del cittadino che guarda al lavoro come all'unica o principale risorsa con la quale costruirsi un progetto di vita, pur dovendosi evitare il mammismo estremizzato del giudice italiano secondo il quale "non c'è colpa nella condotta di un giovane, specialmente se di agiata famiglia, che rifiuta un posto di lavoro inadeguato alle sue aspirazioni". Qualora gli Stati dell'Europa dei Venticinque si defilassero nel ruolo del convitato di pietra - nello stesso momento in cui le rispettive politiche economiche minacciano i diritti di cittadinanza di cui essi medesimi sono artefici e garanti - il diritto comunitario del lavoro non sarebbe più europeo.
Mercoledì, 21. Giugno 2006
 

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