Diritti del lavoro nella globalizzazione

Un cambiamento epocale rispetto al passato. Gli ostacoli, le difficoltà e i problemi nel cammino tortuoso per una globalizzazione dal volto umano, con un diritto globale. Il rischio di una forma camuffata di protezionismo economico
L’impatto della globalizzazione sul più eurocentrico dei diritti è uno dei temi sui quali i giuristi del lavoro o ammutoliscono o straparlano. Se preferiscono tacere, è per manifestare la consapevolezza di trovarsi in una condizione socratica: sanno di non sapere e non lo nascondono. Se invece preferiscono la loquacità, più che altro è per ostentare una sicurezza che non possiedono: si comportano cioè come quei viandanti che, dovendo attraversare un bosco nel cuore della notte, per farsi coraggio si mettono a fischiettare.
 
Benché antitetici, entrambi gli atteggiamenti sono giustificati dal cambiamento di scenario. Un cambiamento che non è retorico definire epocale, perché avere alle spalle il ‘900 non procura ai giuristi del lavoro più certezze di quante ne avessero i loro antenati, che il ‘900 lo avevano di fronte.
 
Infatti, le prime regole del lavoro salariato produssero su interpreti impreparati il medesimo effetto – tra l’inquietante e il divertente – che oggi producono sui turisti di Barcellona le costruzioni progettate con fantasia fanciullesca da Antoni Gaudí. Come dire: non ci capivano molto, sebbene la professione esercitata li collocasse nell’osservatorio più adatto per cogliere l’esigenza che nelle nazioni dell’Occidente europeo generò la politica del diritto di cui oggi si presagisce l’esaurimento. Era l’esigenza di governare la povertà non più con la pietà e la forca, come si faceva in età pre-industriale, bensì per trasformarla – da oziosa o pericolosa in laboriosa – coerentemente con un progetto di sviluppo basato sulla condivisione di politiche di ridistribuzione della ricchezza prodotta.
 
Il compito non era facile. Impossibile però potevano giudicarlo solamente quanti ritenevano che la storia abbia bisogno di chissà quali sortilegi per realizzare i suoi disegni. Viceversa, quel grandioso processo di emancipazione, da sudditi a cittadini, degli uomini col colletto blu e le mani callose che è culminato nella formazione dello Stato democratico pluri-classe ha decollato con strumenti forgiati da una prassi primitiva. Nato nel segno dell’informalità ai margini dei codici borghesi, il diritto operaio sarebbe infatti cresciuto nel segno della microdiscontinuità – senza peraltro trattenersi dal pensare in grande – e, contrariamente a ciò che pensano in molti, gli itinerari che avrebbe percorso per arrampicarsi sul crinale delle costituzioni dell’età post-liberale, furono tracciati con l’estemporaneità, la spericolatezza e l’approssimazione dei virtuosi del fuori-strada.
 
Però, anche i naïfs capiscono l’essenziale. Con un tocco di lirismo che impreziosisce la descrizione, un testimone di spicco come Francesco Carnelutti – del quale si diceva con ammirazione: ”non è processualista né privatista né commercialista, è tutto” – paragonava l’apparizione delle nuove regole ad “una vena d’acqua che stenta ad aprirsi la via attraverso la crosta terrestre e si manifesta qua e là in sottili spruzzi e zampilli, fino a che la forza accumulata della sorgente vince l’ostacolo e liberamente si sprigiona”.
Adesso, invece, possiamo dire che il diritto del lavoro nasce dalla, e si nutre della, critica di una relazione sociale suscettibile di generare grandi conflitti nel cuore del sistema capitalistico. La critica, però, è così poco radicale da proporsi, piuttosto, di impedire la radicalizzazione dei conflitti. E’ una critica, cioè, la cui pars construens non può non prevalere sulla destruens perché è diretta a ricercare accettabili, ancorché provvisori, equilibri tra le esigenze di efficienza, produttività competitività dell’impresa e quelle di salvaguardia dei valori umani di cui è portatore il fattore lavoro riconosciuti dalle carte costituzionali della seconda metà del 900.
 
La rievocazione del “come eravamo” può terminare qui. Per quanto succintamente esposta, la memoria delle radici del diritto del lavoro costituisce il mio punto di riferimento per non affondare in un banco di nebbia, come capita se si perde di vista che il diritto del lavoro non è un modello di astratta razionalità. Al contrario, poiché è inseparabile dal suo ambiente, sia nel senso che lo condiziona, sia nel senso che ne è condizionato, il diritto del lavoro si propone finalità pratiche di bilanciamento degli interessi in conflitto che escludono la sua assolutezza ed ogni sua autonoma trascendenza.
Ciononostante, il successo che lo ha premiato, con l’ascesa al rango dei pilastri degli ordinamenti costituzionali contemporanei, rappresenta il viatico più lusinghiero per il secolo a cui tocca riorientare i processi economici e politici in atto verso una globalizzazione “dal volto umano” – come un premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, ritiene possibile. E’ un viatico che dobbiamo prendere sul serio anzitutto noi del Nord del mondo – e chi sennò? – che, la mattina, compriamo, per i nostri figli, merendine dolcificate con zucchero coltivato da gente che non può nutrirsi come si deve o, la sera, posiamo la testa su cuscini di lattice stillato da campesinos latino-americani che passano la notte dormendo sulle pietre o, la domenica, vediamo negli stadi prendere a calci un pallone di cuoio rifinito da bambini pakistani che non andranno mai a scuola. Noi del Nord del mondo, dicevo, non possiamo non prendere sul serio la lezione del passato, se vogliamo sentirci un po’ meno consumatori-utenti passivi e un po’ più partecipi di una civile comunità transnazionale; ed insieme per far sentire gli altri un po’ meno colonizzati.
 
Insomma, il richiamo alla storicità dei diritti nazionali del lavoro nei sistemi capitalistici è il modo di attraversamento della foresta che ho scelto per vincere la paura del buio.
E’ infatti un sintomo di coraggio, se non di spavalderia, sviluppare discorsi giuridici sulla globalizzazione dell’economia e del mercato col proposito di demistificare gli approcci correnti che ne enfatizzano la portata dirompente. Così, è demistificante affermare che il più eurocentrico dei diritti non può non sentirsi a suo agio con la globalizzazione perché a lui è toccato percorrere, quando era ancora in tenera età, i sentieri sconosciuti della regolazione transnazionale. Casomai, la globalizzazione è per lui un’apocalisse in senso etimologicamente proprio: in greco antico, apocalisse significa rivelazione di cose nascoste.
 
Infatti, la propensione a proiettarsi in spazi più grandi delle nazioni ha sempre fatto parte del suo corredo genetico. Vi stava iscritta fin dagli inizi, ma non ha tardato a rivelarsi, un po’ perché non c’è diritto positivo che non abbia bisogno del “dove” – un “dove” individuabile con precisione – e un po’ perché la grande industria non si era ancora aperta al “mercato mondiale”, come peraltro segnalavano già nel lontano 1848 Karl Marx e Friedrich Engels, per soddisfare il “bisogno di sfoghi sempre maggiori ai suoi prodotti”. Per questo, e sia pure non solo per questo, la vocazione universalistica del nucleo essenziale dei principi di protezione sociale ricavabili da normative che incivilivano l’uso della forza-lavoro, è esplosa quando la modernizzazione industriale ha sospinto il capitalismo a manifestare una crescente intolleranza ai confini territoriali dello Stato-nazione che, “nel concreto divenire storico del diritto del lavoro, è stato determinante” – come scrisse Massimo D’Antona – perché aspirava “a regolare il conflitto sociale entro i propri confini nella misura necessaria a preservare i meccanismi dell’accumulazione capitalistica e nello stesso tempo a mantenere l’ordine sociale”.
Come dire che i diritti protetti dal corpus di regole che dal lavoro prendevano nome e, in larga misura, ragione non hanno potuto varcare le frontiere – e fare il giro del mondo con un passaporto che ne certifica l’appartenenza al patrimonio etico dell’intera umanità, fino a contendere al principio della libera concorrenza l’imprinting regolativo del mercato mondiale – finché la produzione della ricchezza non si è spostata ovunque si offrissero mercato e profitto. E’ questa l’epoca in cui si forma l’opinione che il territorio statale non è più la misura dell’agire economico e, al tempo stesso, può considerarsi raggiunta la prova più persuasiva che la regolazione del lavoro è indispensabile allo sviluppo dell’economia capitalistica.
 
Né questo è tutto. C’è dell’altro. Proprio perché segue un tragitto predeterminato dall’interesse dei paesi più sviluppati a proibire ai paesi emergenti pratiche di dumping sociale, l’universalizzazione dei diritti fondamentali dell’uomo e della donna che lavora ha acquistato valenze che ne completano la definitiva secolarizzazione. Essa infatti, se gode del privilegio di sottrarsi alla censura di tradursi in un mix di arroganza e ipocrisia, è solamente perché si colora di un umanitarismo da enciclica papale.
 
Viceversa, nella misura in cui è slegata da politiche di riequilibrio strutturale sostenute dal FMI o dalla Banca mondiale o si affianca a scelte dei paesi più industrializzati che, con buona pace di David Ricardo e delle sue teorie, negano ai paesi del resto del mondo la stessa possibilità di specializzarsi nella produzione di beni a bassa intensità di capitale, anch’essa è una forma camuffata di protezionismo economico. Per questo, nei paesi poveri si rafforza l’idea che l’unico vantaggio competitivo di cui possono disporre (ossia, un esiguo costo del lavoro) è proprio quello che i paesi ricchi vorrebbero annullare.
Come dire: il diritto del lavoro che conosciamo deve aver maledetto il giorno in cui la lex mercatoria lo ha sdoganato, sia pure compatibilmente con l’esigenza di stabilizzare un determinato assetto dell’economia mondializzata. Di sicuro, scrollarsi di dosso l’innaturale immagine che lo presenta come un’arma dei forti contro i deboli è diventato il suo incubo peggiore; un incubo che non può esorcizzare col cinico argomento che un lavoro indecente è preferibile alla disoccupazione. Per quanto inquinante, il condizionamento non ha però soffocato l’esigenza della protezione sociale nell’età della globalizzazione. Anzi, poiché la diffusione degli standard internazionalmente riconosciuti che prescrivono le condizioni minime di lavoro non si è mai arrestata – non senza, peraltro, brusche accelerazioni, come quella impressa dalla 86a sessione della Conferenza internazionale del lavoro (18 giugno 1998) contenente una manciata di principi che gli Stati membri dell’Oil sono tenuti ad osservare e fare osservare indipendentemente dalla ratifica delle convenzioni che li enunciano– bisogna concludere che quella esigenza moraleggiante non è caduta nel vuoto. Malgrado tutto. Secondo le stime più aggiornate, infatti, i tre quinti dei paesi membri dell’Oil ratificano meno di un quarto delle convenzioni predisposte dall’ente e più di un quinto ne ratifica meno di 20.
Come mai, ciononostante, il diritto globale del lavoro non ha subito uno scacco paralizzante? Come mai la lex mercatoria non lo ha espulso? La verità è che quel diritto perennemente in fieri pratica con successo l’autostop, senza attardarsi ad accertare se i vettori della societas mercatoria che lo trasportano nelle più remote contrade sono così poco affidabili che l’Oil diventa un mirabile modello di promozione e tutela del diritto del lavoro.
 
Alludo alle clausole sociali più o meno flessibili disseminate nei trattati del commercio internazionale. Alludo alle linee-guida deliberate da istituzioni come l’Ocse ed ai principi elaborati da istituzioni come la Camera di commercio internazionale per la risoluzione di controversie devolute a giurisdizioni transnazionali private di matrice arbitrale. Alludo ai codici etici di condotta delle multinazionali che rivelano come la cultura degli operatori di mercato possa essere positivamente contaminata dall’etica della responsabilità sociale e, perché no?, alludo al metodo del coordinamento aperto inaugurato di recente dall’Unione Europea per implementare la sua dimensione sociale.
Alludo insomma all’inafferrabile e, a modo suo, ineffabile genus del diritto persuasivo o auspicabile o raccomandabile di cui celebra l’apologia l’european employment strategy adottata nel marzo del 2000 dal vertice di Lisbona, che privilegia tecniche regolative flessibili rientranti nella compendiosa nozione del soft law, diventato in fretta un’espressione linguistica di successo; e quando una parola ha fortuna in genere se la merita. Di sicuro, come tutte le formule verbali abbreviate, permette di risparmiare tempo perché è polisensa. Significa che le parti interessate non hanno maturato un livello di consenso sulle nuove regole sufficiente ad escludere il rischio della loro disapplicazione. Significa che l’obiettivo specifico non è ancora chiaramente definito. Significa che il fine desiderabile non è l’omologazione, bensì la convergenza su soluzioni condivise.
 
Come dire che lo spazio giuridico globale è solcato da un incessante flusso normativo a densità e geometria variabili originato da fonti che, ubbidendo ai segreti criteri ordinanti di un universo inesplorato, si dispongono secondo moduli reticolari piuttosto che secondo le gerarchie del tradizionale sistema stato-centrico della legalità. Pertanto, sarebbe ridicolo che i giuristi del lavoro contemporanei descrivessero il processo di formazione del diritto globale del lavoro coi brividi da neofita che, come ricordavo in apertura, eccitavano i loro antenati. Qui ed ora, non si tratta di divinare l’esistenza di falde acquifere. Qui ed ora, quindi, non c’è bisogno di rabdomanti e dei loro riti. Qui ed ora, ci sarebbe bisogno – piuttosto – di ingegneri e geologi specializzati in idraulica fluviale per imbrigliare e convogliare una quantità imprecisata di corsi d’acqua che provengono disordinatamente da ogni parte e vanno in ogni direzione.
 
Esattamente questo, infatti, è il compito primario dei giuristi del lavoro del terzo millennio. Dopotutto, i mezzi per riuscirci li hanno perché il loro sapere ha per oggetto il nascere e trasformarsi senza sosta di un costrutto storico così poco ingessato da poter essere smontato e rimontato in forme che non smettono di stupire, ma sono difficili da classificare per il loro empirismo, la loro asistematicità, la loro apparente arbitrarietà. Nondimeno, l’artificialità di un diritto del lavoro staccato dalla società ripropone, in termini tanto esasperati da scoraggiare anche i benintenzionati che la caldeggiano, l’eretico insegnamento di Hugo Sinzheimer: “chi cercasse il diritto del lavoro soltanto nelle leggi non troverebbe nulla”. E non solamente perché disapplicato o perché riformulato da prassi anche giurisprudenziali ad elevato tasso di creatività. Il fatto è che è cambiato il volto della legalità, perché sono cambiati i modi e le sedi della costruzione della legalità: modi e sedi sempre più identificabili con i modi e le sedi del mercato.
E’ proprio a causa di questa indeterminatezza che il diritto globale del lavoro ha imparato a fare a meno di una univoca, precisa, riconoscibile autorità normativa garante della sua effettività. Il che è contraddittorio ed insieme paradossale.
Contraddittorio perché la globalizzazione dell’economia e del mercato è accompagnata da una crescente proliferazione statale: dal 1900 alla metà del secolo sono sorti più di uno Stato per anno; da allora al 1990, più di due; negli anni ’90, più di tre per anno. Paradossale perché ancora più serrato è stato il ritmo di crescita delle organizzazioni generali e settoriali che costituiscono la cerniera istituzionale dell’ordinamento giuridico globale. Nell’arco di appena novant’anni sono passate dalle 37 che erano all’inizio del Novecento alle attuali 1850. Il potere regolativo che esercitano, però, raccomanda, esorta, indirizza: non ha la proprietà di prescrivere. Come dire che l’ordinamento giuridico globale, pur legittimandosi a mezzo del diritto, non può assicurarne l’esecuzione se non per il tramite di organi indiretti che non gli appartengono, perché negli esecutivi degli Stati nazionali si cumulano le prerogative che non c’è sovrano disposto a cedere.
 
Infatti, un diritto del lavoro globale è non è stato ancora costruito compiutamente e nessuno di noi può pretendere di vedere il coronamento dell’impresa. Però, come ammonisce lord Wedderburn con la passionalità che il passare degli anni non ha raffreddato, ciascuno di noi potrebbe dare un contributo migliore allo scopo pensando come dovrebbe.
 
A mio avviso, il contributo del giurista sarà tanto più apprezzabile quanto più pazientemente e lucidamente saprà analizzare la tesi che, se le cose si sono complicate fino all’inverosimile, ciò dipende da molti fattori il minore dei quali non è la dispersione geo-politica delle fonti di produzione di regole che, sommandosi alla loro diversificazione tipologica, rende problematico il controllo dei circuiti decisionali ed ostacola la stessa conoscibilità dei loro esiti.
 
Tuttavia, la prospettiva di un’autorità superiore, sovranazionale e ultrastatale, pienamente legittimata a produrre e garantire un ordine normativo globale non è un rimedio praticabile nell’immediato e forse, malgrado le apparenze, neanche risolutivo. Ad ogni modo, la prospettiva non è un auto-inganno. Casomai, è una ragionevole utopia. Infatti, può esserne considerata una realizzazione in itinere l’Unione Europea. Ciò non toglie che risentimenti di anti-europeismo demagogico del tipo: “ci hanno dato una nuova bandiera e una nuova moneta; ci daranno presto un’altra lingua e un’altra religione”, scuotano anche i paesi fondatori con culture omogenee nel loro pluralismo liberal-democratico.
 
E’ onesto riconoscere che tali atteggiamenti sono alimentati anche dalla paura dei popoli che un progetto di società solidale lo hanno avuto di sottomettersi a regole d’insostenibile leggerezza, direbbe Milan Kundera, perché sciolte dalla fisicità dei luoghi nei quali vivono con le loro consuetudini, le loro aspettative e le loro costituzioni: costituzioni che, attribuendo alla persona la centralità che le spetta, danno per scontato che l’identità umana è condizionata dalla dimensione locale e, reclamandone la valorizzazione, negano che possano esistere norme buone per tutti i paesi in tutte le circostanze. Un’intrusività di questa portata equivarrebbe probabilmente alla violazione dello stesso patto costituzionale. Per certo, esporrebbe i governi al pericolo di una secca perdita di consensi.
 
Non a caso, gli Stati membri che detengono la leadership in Europa subordinano l’armonizzazione dei diritti nazionali del lavoro alla pretesa di vedere esteso il proprio all’intera Unione. Del pari, non a caso i Trattati istitutivi sanciscono il principio di sussidiarietà che erige argini di contenimento della supremazia della regolazione comunitaria centralizzata e, da ultimo, non è casuale neppure l’opzione a favore del metodo del soft law. Alla base della scelta opera la persuasione che l’armonizzazione attuata mediante atti vincolanti – ossia, mediante regolamenti o direttive che, di frequente, sembrano regolamenti – minaccia di funzionare come un frullatore avente la proprietà di centrifugare i diritti nazionali del lavoro, destrutturarli e allentarne l’effetto-morsa che esercitano sull’economia di mercato la cui protezione è invece in cima all’agenda politica dell’Unione.
 
Può darsi che in questa maniera i diritti nazionali del lavoro cesseranno di demonizzare la giuridificazione delle regole del lavoro nel mercato europeo, ma non è sicuro che guariranno dalla sindrome nazionalista a causa della quale, secondo la giudiziosa conclusione a cui è arrivato un autorevole comparatista, “nonostante quasi cinquant’anni di direttive e decisioni adottate a livello europeo, qualunque discorso sulla convergenza giuridica europea è prematuro”. E’ sicuro invece che il più eurocentrico dei diritti finirebbe sul lettino dello psicanalista se il diritto globale del lavoro incorporato dalla lex mercatoria che regola il mercato mondiale ne imitasse la voglia di egemonia e si proponesse di diventare l’ossificato referente normativo per una ridefinizione dei contenuti della protezione sociale fruibile nell’angolo di mondo chiamato Europa.
 
Inselvatichito da una vita randagia e temprato da quotidiane mischie per un pugno di dollari, o per qualche dollaro in più, il diritto globale del lavoro potrebbe stufarsi di vedere il più eurocentrico dei diritti coccolato da funzionari che il Wwf non ha reclutato e decidersi ad abbatterne le recinzioni protettive. Cosa che farebbe con una determinazione al cui confronto anche il più ruvido regolamento comunitario sembrerà un’espressione di bon ton, distruggendo così il “sogno di un mondo senza povertà” a cui anche i vertici della Banca mondiale proclamano l’intenzione di aderire per conferire al potere che detengono una facciata di rispettabilità. Però, il giorno in cui il sogno svanisse, regnerebbe il disordine. Un disordine che comprometterebbe il funzionamento dell’economia e del mercato globali. Come, cent’anni fa, avrebbe compromesso quello delle economie e dei mercati nazionali.
Lunedì, 3. Novembre 2003
 

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