Dialoghi con i figli su nazismo e comunismo

Alla ricerca di risposte oneste alle domande e alle critiche dei ragazzi, stimolati da ciò che studiano a scuola
Comunismo uguale nazifascismo? Filo da torcere a scuola con Andrea e Denise
 
E’ accaduto nell’anno scolastico 2005-2006, discutendo del razzismo spiegato a mia figlia. Se il razzismo – come dice Tahar Ben Jelloun – deriva dalla paura e anche dall’ignoranza, una prova sta nella facilità con cui si dimenticano gli orrori dei lager e ci si presenta allo stadio con la svastica sugli striscioni. E – chiamando in causa Primo Levi – si dice che è accaduto, ma può accadere di nuovo se non si sa che questa non è la prima volta. In questo caso, si possono ripetere errori, indifferenze, silenzi complici e cinismi che “la volta prima” hanno permesso crimini e discriminazioni. Quindi, per difendere la libertà, bisogna far funzionare la memoria. Un popolo senza memoria si candida a perdere la libertà senza accorgersene, convinto di andare verso entusiasmanti novità.

 

Ma – dice Denise – tu non ce la racconti giusta. A volte ci conviene ingigantire la memoria di certi fatti, mentre si tacciono, si accantonano o addirittura se ne rimuovono altri. Per esempio, fa comodo parlare tutti i momenti della Resistenza. Ma come mai i libri di Storia non scrivono che anche i partigiani hanno bruciato case, fucilato senza processo e senza pietà, requisito con la forza per non dire rubato, consumato rappresaglie o vendette private camuffate da giustizia di guerra?

 
Accuso il colpo. Ingoio. Rispondo che l’obiezione sarà maliziosa, ma è più che fondata. Un memorabile libro di storia su cui si è formata gran parte della mia generazione – il manuale di Giorgio Spini – cita il massacro delle Fosse Ardeatine, ma non gli eccidi delle foibe. Denuncia le torture dei tedeschi e dei loro collaboratori fascisti, ma non una parola sulle violenze di cui si sono macchiati alcuni esponenti delle formazioni partigiane durante e subito dopo la Liberazione. Non una parola sulle foibe, cioè su omicidi collettivi concepiti – e non da singoli – per annientare intere popolazioni accusate di fascismo dai comunisti jugoslavi solo perché italiane. Oggi non si trova testo di storia che rimuova queste atrocità. Ma perché allora Spini taceva? Che cosa offuscava i suoi occhi e censurava la sua penna? Basta dire che nessuna guerra finisce subito, ma lascia dietro di sé inevitabilmente una scia di rancori che cercano sfogo e risarcimento nella vendetta di nuove violenze pubbliche e private? E’ giusto dirlo, ma sento che non basta.

 

Rappresentando la Resistenza, tante volte si è finito per dividere in due l’umanità di quei tempi: di qua il bene, di là il male. E in effetti di qua c’era la democrazia, di là la dittatura. Lo scontro non era fra due tifoserie. Ma poi si è capito che non si fa un buon servizio alla democrazia se non si hanno l’onestà intellettuale e il coraggio di scoprire le sue fragilità e di denunciarne le vergogne. Studiarne le malattie nascoste e non solo la salute apparente è l’unico metodo capace di trovare gli anticorpi efficaci. Ora siamo arrivati dove la generazione di Spini non ebbe la preoccupazione di arrivare.

 
E neppure noi siamo arrivati una volta per tutti. Dobbiamo sentirci sempre in cammino. Perché la storia non è un corpo dottrinario dato. Le verità sono sempre lì, ma nel tempo noi siamo portati a metterle ora di fianco, ora sopra, ora sotto, ora al centro, ora in periferia, ora in angoli acuti, ora in angoli ottusi. Prendiamo dei punti e li trasformiamo in linee o viceversa.

 
Invece no. Dobbiamo sempre essere pronti ed aperti a nuove interpretazioni, a porci nuovi interrogativi, a progredire nell’umiltà delle approssimazioni, a non scandalizzarci dei nuovi ritrovamenti. La verità non abita al solito indirizzo. Non ha proprietari esclusivi. Ha solo diritto ad onesti ed infaticabili cercatori, capaci di capire, con Ungaretti, che “la meta è nel partire”.

 
Liquidata la pratica? Neanche per sogno. Il giorno dopo, in un’altra classe, Andrea chiede perché i libri di storia parlano dei crimini nazisti e molto meno degli orrori del comunismo. Prima dico che so rispondere, ma Andrea deve diffidare e chiedere a qualcun altro. Poi aggiungo che un insegnante vicino alle tesi del presidente del Consiglio (allora Silvio Berlusconi) risponderebbe: non solo i due regimi sono uguali, ma il comunismo è stato peggio perché ha fatto più morti, ha oppresso più popoli per un tempo più lungo e in uno spazio ancora più ampio del pianeta. Direbbe che i libri di storia parlano di nazismo a senso unico perché in Italia la cultura, l’Università, l’editoria, la stampa sono stati in questi 50 anni egemonizzati dal marxismo. Esso aveva interesse a coprire i crimini dello stalinismo con lo spauracchio del nazismo e la retorica (o la “vulgata”) della Resistenza. Questa spiegazione contiene un nucleo di verità. Ma in Europa socialisti, comunisti, liberali, cattolici democratici si sono dovuti alleare per farla finita con il nazifascismo. Meno male che l’hanno spuntata, e a caro prezzo. Altrimenti l’Europa sarebbe ora ridotta ad un grande lager, mentre la strada della libertà è oggi sempre aperta, anche se sempre insidiata.

 
Si tratta di due ideologie ugualmente aberranti? Io dico di no. Il nazismo aveva come obiettivo l’affermazione planetaria del dominio di una razza pura su tutti gli altri popoli: un dominio da realizzare attraverso la guerra, il genocidio degli ebrei e la schiavizzazione di tutti gli altri. Il comunismo invece voleva realizzare su scala mondiale un disegno di riscatto dell’umanità dallo sfruttamento imponendo l’uguaglianza sociale con le buone o con le cattive. La sua grandezza tragica (e il suo rovinoso fallimento) sta in questa pretesa totalitaria di imporre l’uguaglianza sociale anche al costo di soffocare le libertà democratiche.

 
Sarebbe intellettualmente e politicamente criminale negare questa evidenza che ha reso il comunismo impresentabile per un’alternativa di governo in Europa. E in Italia, la paura dei ceti privilegiati che sentivano minacciate le loro proprietà dalle misure di uguaglianza, si saldò con la paura di perdere la libertà che minacciava tutti.

 
Dunque, riconoscere, studiare, capire e denunciare i crimini del comunismo non è solo rifiutare – doverosamente – di nascondersi e di nascondere l’evidenza. Vuol dire conquistare la consapevolezza che alle generazioni del terzo millennio compete una grande inedita fatica di ricerca politica e – insieme – di lotta sociale: quella di far convivere, in un intreccio sempre da sperimentare, la libertà e l’uguaglianza che nei totalitarismi del Novecento sono state brutalmente calpestate (nel caso del nazifascismo) o tragicamente separate (nel caso del comunismo).


Mario Dellacqua

Lunedì, 29. Ottobre 2007
 

SOCIAL

 

CONTATTI