Deficit sanitari e federalismo 'guidato'

Lo Stato ha assegnato 3 miliardi di euro ad alcune Regioni per ripianare i disavanzi della sanità. In contropartita, però sono state stabilite regole molto stringenti per i piani di rientro e controlli dal centro. In pratica, una riduzione di autonomia per chi ha dimostrato gravi carenze gestionali

Il 17 maggio scorso è stato convertito in legge il DL n. 23 del 2007, che assegna 3 miliardi di euro al ripiano dei disavanzi sanitari pregressi. Questo provvedimento ha fatto molto discutere, soprattutto per l’attribuzione di risorse aggiuntive alle Regioni che non hanno saputo controllare i conti della sanità. Il dibattito parlamentare è stato acceso, alla Camera è stato necessario il voto di fiducia, le giunte regionali di Lombardia e Veneto hanno deliberato di presentare ricorso in Corte Costituzionale. Vale la pena di approfondire i contenuti del decreto, e di ripercorrere brevemente i passaggi salienti del processo di riforma federalista realizzati in questi ultimi anni nel settore sanitario, senza alcuna pretesa di completezza, ma cercando di verificare l’esistenza – o meno – di un percorso coerente.

Il DL 23/07 prevede che lo Stato concorra al ripiano dei disavanzi del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) per il periodo 2001-2005 con 3 miliardi di euro. Le risorse sono attribuite solo alle Regioni che, da un lato, sottoscrivono l’accordo per i piani di rientro dal disavanzo (e dunque accedono anche al fondo transitorio istituito dalla legge finanziaria per il 2007, che stanzia 1 miliardo di euro per il 2007, 0,85 miliardi per il 2008 e 0,7 per il 2009) e dall’altro, per quanto riguarda l’ammortamento del debito accumulato (fino al 2005 compreso), destinano al settore sanitario quote di manovre fiscali già adottate o di tributi erariali ad esse attribuiti o ancora di misure fiscali da attivarsi sul proprio territorio, oltre alle risorse ottenute con l’aumento nella misura massima dell’addizionale Irpef e dell’aliquota IRAP. Tale aumento, necessario per accedere al fondo transitorio, dovrà restare in vigore fino al 2010, a meno che lo stesso accordo della Regione con il governo sulla copertura dei disavanzi di gestione ne preveda il decadimento. Il decreto richiede inoltre che gli esiti della verifica annuale dei piani di rientro siano trasmessi alla Corte dei Conti “anche ai fini dell’avvio di un eventuale giudizio di responsabilità amministrativa e contabile”.

Quanto ai piani di rientro, sono già stati approvati quelli di Abruzzo, Campania, Lazio, Liguria  e Molise. Essi individuano tanto le risorse per l’ammortamento del debito accumulato alla fine del 2005, quanto le misure per conseguire entro il 2010 l’equilibrio corrente (1). I piani di rientro non sono che l’ultimo atto di un processo di attuazione del federalismo sanitario che si è svolto attraverso l’introduzione di regole sempre più stringenti, sia dal punto di vista finanziario, sia da quello della garanzia delle prestazioni., sia infine per quanto concerne la produzione e trasmissione di dati e informazioni dalle Regioni al livello centrale.

Possiamo seguire questo processo a partire dall’accordo dell’8 agosto 2001, col quale, in primo luogo, è stato ribadito il principio della responsabilità di copertura degli sforamenti di spesa al livello di governo (centrale o regionale) che li ha determinati; in secondo luogo, sono state previste, in caso di mancato controllo della spesa da parte di alcune Regioni (in particolare in presenza di disavanzi non coperti), sanzioni consistenti nel mancato accesso alle risorse aggiuntive - rispetto ai precedenti stanziamenti - concordate col patto stesso; infine, sono stati istituiti tavoli di monitoraggio sui livelli essenziali di assistenza (LEA) erogati e sul loro costo. I LEA da garantire su tutto il territorio nazionale sono stati in seguito individuati (DPCM 29/11/2001), anche se la corrispondenza tra costi complessivi per la loro fornitura e risorse assegnate è rimasta incerta, in mancanza di una stima dell’onere complessivo.

E’ con la legge finanziaria per il 2005 del governo Berlusconi e l’intesa del 23 marzo dello stesso anno che è stato introdotto l’obbligo, per le Regioni inadempienti rispetto al vincolo del pareggio di bilancio (o rispetto ad altri obiettivi concordati), di proporre un piano e raggiungere un accordo con i ministeri dell’Economia e della Salute per il perseguimento dell’equilibrio economico. Per queste Regioni si sarebbero previste eventuali forme di “affiancamento” all’attività di gestione e programmazione da parte dei due ministeri e di rappresentanti regionali designati dalla Conferenza Stato-Regioni (nonché di partenariato con altre Regioni). Intanto, è stata ripristinata la possibilità di utilizzare aumenti dell’addizionale Irpef e dell’aliquota IRAP per coprire i disavanzi, dopo che, per il 2003 e il 2004,  era stato imposto un blocco.

Ulteriori giri di vite possono essere individuati nell’aver reso automatico l’aumento dell’addizionale Irpef e dell’IRAP - fino al livello massimo consentito dalla legislazione vigente - in caso di disavanzi non coperti con misure già adottate entro il mese di maggio dell’anno successivo (legge finanziaria per il 2006) e poi nella previsione di un eventuale superamento dello stesso livello massimo, da parte delle Regioni che, nell’attuazione del piano di rientro, non riescano a rispettare gli obiettivi di riduzione del disavanzo (Patto per la salute del 5 ottobre 2006 e legge finanziaria per il 2007). In alternativa, si è consentito di finanziare lo scarto da tali obiettivi attraverso altre misure di impatto equivalente, se approvate dai ministeri della Salute e dell’Economia.

Gli accordi via via siglati hanno anche ribadito impegni già previsti da precedenti norme, riguardanti un’infinità di aspetti: i criteri cui attenersi nel gestire specifici capitoli di spesa (tetti per la farmaceutica, vincoli ai posti letto ospedalieri e promozione del day hospital, accantonamento di fondi per la copertura dei rinnovi contrattuali del personale, limiti alla crescita dei costi di produzione), gli obblighi informativi sul monitoraggio delle prescrizioni e della spesa, l’introduzione della contabilità analitica per centri di costo, il rispetto dei criteri di appropriatezza ed economicità delle prestazioni erogate, le sanzioni ai direttori generali di aziende sanitarie e ospedaliere in caso di mancato raggiungimento dell’equilibrio economico, e ancora i provvedimenti per il contenimento delle liste di attesa, l’attuazione del piano per la prevenzione e di quello per l’aggiornamento del personale sanitario, nonché l’accordo per la gestione in formato elettronico delle ricette.

Questo elenco, seppure noioso, è utile a comprendere a quale livello di dettaglio si pongano, rispetto alla gestione dei servizi sanitari regionali, le prescrizioni del governo centrale, o se vogliamo gli obiettivi concordati tra Stato e Regioni, che comunque queste ultime sono formalmente obbligate a rispettare. Il processo di attuazione del federalismo si è sviluppato insomma attraverso una serie di regole sempre più stringenti, che hanno via via accresciuto il controllo sull’operato delle Regioni.

Perché questa scelta? Si possono indicare due principali risposte a questa domanda. 

In primo luogo, la sanità sembra rappresentare un tema cruciale nell’opinione complessiva che i cittadini si fanno del governo della cosa pubblica, un fattore il cui peso è rilevante anche rispetto alle scelte elettorali. Si ritiene che gli italiani non intendano rinunciare al servizio sanitario (secondo una recente indagine del Censis più della metà dei nostri concittadini ritiene insufficiente la spesa pubblica per la sanità) e che ne siano anche abbastanza soddisfatti (l’ultima indagine dell’ISTAT su “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari” mostra che il 34% degli adulti giudica il SSN con un voto compreso tra 7 e 10, contro il 17% di “insufficienze” tra 1 e 4, nonostante il 28% ritenga che stia peggiorando(2)). Pertanto, nessun governo può permettersi di abbandonare a se stessi i sistemi sanitari regionali. E’ la democrazia, che piaccia o no! Ne deriva la continua introduzione di meccanismi di controllo sull’erogazione dei LEA (i livelli essenziali di assistenza) e sulla qualità delle prestazioni, che ha favorito tra l’altro il lentissimo, ma progressivo miglioramento dei sistemi informativi regionali e l’aumento della trasparenza. 

In secondo luogo, si deve considerare che, “nella mente dell’artista”, il federalismo doveva rappresentare anche un mezzo per responsabilizzare finanziariamente le Regioni. In realtà, le spese hanno continuato a crescere in questi anni più degli stanziamenti, provocando disavanzi della cui responsabilità, e sulla cui copertura, si sono aperte polemiche infinite tra i livelli di governo.

La spesa sanitaria pubblica, infatti, è cresciuta mediamente intorno al 6% annuo nel periodo 2001 – 2006 (passando dal 6,1% al 6,7% del PIL) principalmente per via di alcune funzioni come i beni e i servizi, il personale, l’altra assistenza convenzionata e accreditata e, limitatamente ad alcune Regioni, la farmaceutica convenzionata; i disavanzi si sono attestati, mediamente, intorno al 5% del finanziamento e allo 0.31% del PIL, concentrati nelle solite Regioni, con situazioni particolarmente gravi nel Lazio, in Campania e in Sicilia. Nel valutare questa situazione si deve considerare, tuttavia, l’incisiva riduzione della spesa sanitaria nei primi anni ’90 e il successivo tentativo, negli anni seguenti, di  contenere le risorse dedicate a questa funzione, ancora oggi inferiori rispetto alla media europea (il 6,4% del PIL nel 2004, contro il 7,4% in media dei 25 paesi).

Ma in ultima analisi, il federalismo sta funzionando?

A nostro avviso, sta funzionando nella misura in cui si sta verificando un progressivo miglioramento delle banche dati e del controllo sulla spesa, e i meccanismi sanzionatori previsti dalla letteratura sul federalismo stanno lentamente entrando in funzione: si pensi al caso del Lazio, dove le elezioni hanno punito la giunta regionale che aveva provocato il disavanzo più elevato d’Italia (e questa pure è democrazia!), è stato concordato un piano di rientro che prevede una correzione di oltre 3 miliardi in un triennio, IRAP e addizionale Irpef sono aumentate, la Regione deve sopportare l’affiancamento, rinunciando in parte alla propria autonomia, per non parlare delle indagini della magistratura e  degli arresti. Difficile immaginare “sanzioni” più dure.

D’altro canto, il federalismo non ha funzionato nella misura in cui non poteva funzionare, perché in molte Regioni mancavano le capacità di gestione necessarie. Probabilmente non è una buona politica quella di mettere il carro davanti ai buoi. A meno che non si voglia abbandonare il Sud in un pantano.

E allora,  hanno ragione le Regioni del Nord e alcuni economisti che si oppongono alla scelta di intervenire ancora una volta dal centro per ripianare i deficit delle Regioni meno responsabili dal punto di vista finanziario? Qui la questione si fa delicata. Il federalismo è stato fortemente voluto, e in tempi rapidi, proprio dalle Regioni che criticano il decreto 23/07. Eppure i limiti nei livelli di governance locale di alcune parti del territorio italiano erano ampiamente noti. D’altronde, il decreto 23/07 offre alcune garanzie, in quanto vincola il sostegno finanziario a tutte le condizioni – molto rigide - di cui si è detto, e l’affiancamento dovrebbe garantire il controllo sulla realizzazione dei piani di rientro. Attendiamo l’esito di questi piani, ma nel frattempo non è facile immaginare alternative praticabili, volendo restare nell’ambito di un servizio sanitario nazionale (finanziato essenzialmente con risorse pubbliche) a carattere solidale. Alcuni propongono di procedere verso un federalismo a più velocità. Ma in fondo affiancamento e tutoraggio non sono proprio il frutto di un’opzione per livelli di autonomia diversi?
 
In alternativa, si poteva abbandonare a se stesse le Regioni in deficit? Cosa significa esattamente questa espressione? Se con la doppia velocità si mira a eliminare la solidarietà, ovvero a ridurre/sopprimere il trasferimento di risorse dalle Regioni più ricche e meglio gestite verso le altre, si tratta di un’operazione a nostro avviso non proponibile. Infatti, quello alla tutela della salute è un diritto fondamentale costituzionalmente garantito, un diritto soggettivo che deve essere assicurato a tutti i cittadini sull’intero territorio, e pertanto i servizi devono essere assicurati. Tuttavia, è evidente che le difficoltà devono essere superate in tempi ragionevoli, e che c’è molto da fare per modernizzare il servizio sanitario e per aumentare le capacità amministrative e gestionali delle Regioni. Altrimenti, si corre un rischio di implosione della riforma federalista.

(Stefania Gabriele è Direttore dell'Unità Operativa "Microeconomia e Finanza Pubblica" dell'ISAE - Fabrizio Tediosi è docente all’Università di Basilea)
 
Note

(1) Per una descrizione più dettagliata, anche dei singoli piani, si veda il Rapporto ISAE “Finanza Pubblica e Istituzioni” del maggio scorso.
(2) Censis, Monitor biomedico 2006 (si veda http://www.censis.it/277/372/5732/5733/5743/5746/content.asp); “Condizioni di salute, fattori di rischio e ricorso ai servizi sanitari” (si veda http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20070302_00/)


 

Venerdì, 22. Giugno 2007
 

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