Declino? Ma no: è un disastro

Nella classifica sulla competitività internazionale del World Economic Forum, noto covo di comunisti anti-berlusconiani, l'Italia è crollata in tre anni dal 26° al 47° posto. Nessun altro ha avuto una performance così catastrofica. La classifica mostra chiaramente anche un altro fatto: non è vero che per essere più competitivi sia necessario avere una pressione fiscale bassa
La Finlandia ha una pressione fiscale pari al 46 per cento del prodotto interno lordo, l' Italia pari al 42 per cento. Eppure nella classifica dei paesi più competitivi elaborata dal World Economic Forum la Finlandia è al primo posto e l' Italia al quarantasettesimo.
 
Nelle prime posizioni della classifica ci sono Svezia e Danimarca che hanno una pressione fiscale vicina al 50 per cento, e ci sono anche Stati Uniti e Giappone che ce l' hanno sotto il 30 per cento del pil, nonché il Regno Unito, l' Olanda e la Germania che l'hanno tra il 37 e il 40. Un po' più avanti nella classifica della competitività troviamo al ventitreesimo posto la Spagna con una pressione fiscale del 35 per cento e, al ventisettesimo, la Francia, con una pressione fiscale del 45 per cento. 
 
Diversi sono anche i trasferimenti per la sicurezza sociale in percentuale del prodotto interno lordo: la Finlandia, prima per competitività, trasferisce il 16,8 del pil e l' Italia,
quarantasettesima, il 17 per cento, come Svezia (terza per competitività) e Danimarca (quinta), meno di Germania (tredicesima) e Francia (ventisettesima), assai di più del 12 per cento di Stati Uniti e Olanda e del 13,5 del Regno Unito. 
 
Se utilizziamo la pressione fiscale e i trasferimenti sociali sul pil come parametri semplificati del modello sociale, ne possiamo dedurre che la competitività di ciascun paese non dipende dal modello adottato. Si può essere competitivi all'americana così come all' europea o alla giapponese: quello che conta non è il modello né la pressione fiscale, ma la qualità del modello e come vengono spesi i soldi dei cittadini.
 
Messo da parte il problema del modello, che spesso viene portato avanti come uno scudo per difendere le proprie inadempienze, entriamo un po' più in profondità nell'analisi della competitività e delle sue componenti. Il World Economic Forum arriva alla classifica generale attraverso quattro indici: del livello tecnologico, della qualità delle istituzioni, della situazione macroeconomica e della competitività del business. La Finlandia è nelle prime tre posizioni in tutti e quattro gli indici, gli Stati Uniti sono primi nel livello tecnologico e nella competitività del business ma sono assai più indietro nella qualità delle istituzioni e nella situazione macroeconomica. Il miglior piazzamento dell' Italia è il trentaquattresimo posto nell' indice di competitiva del business.
 
Dietro ciascuno di questi indici ci sono una serie di parametri che vengono analizzati e confrontati paese per paese. Si va dal rating del paese al numero di cellulari per abitante, dal peso dei monopoli alla fuga di cervelli, dall' indipendenza dei giudici all'accesso a internet dalle scuole, dal trattamento salariale delle donne alla tutela degli azionisti di minoranza. In parte sono dati pubblicati dalle fonti ufficiali, in parte le
valutazioni sono il risultato di un sondaggio effettuato tra i business leaders di ciascun paese (96 gli italiani). 
 
In quasi tutte le voci la posizione dell' Italia è scoraggiante. Siamo nei primissimi posti solo per l' utilizzo dei telefoni cellulari, per tutto il resto siamo dal ventesimo in giù, con posizioni imbarazzanti (oltre l'ottantesimo posto) nella qualità delle leggi e dei regolamenti, nelle pari opportunità, nella qualità e quantità del prelievo fiscale e della spesa pubblica, nelle pratiche contabili e di auditing, nella trasparenza dell'azione di governo, nella criminalità organizzata, nell' accesso al mercato del lavoro e nel rapporto tra salario e produttività.
 
Non ne esce bene nessuno: né il governo né il Parlamento, non le imprese e non i sindacati, non la pubblica amministrazione e neanche la magistratura. Nessuno dei problemi e delle difficoltà che questa indagine sulla competitività mette in evidenza è nato ieri, ma c' è un fatto che deve far riflettere: in quella stessa classifica nel 2001 l'Italia era al ventiseiesimo posto e in tre anni è scivolata velocemente al quarantasettesimo, con un peggioramento che non ha paragoni non solo tra i paesi del G7 ma anche tra quelli Ocse.
 
Il crollo è stato simultaneo in tutti gli indici, quello tecnologico (dal 31° al 50° posto), quello della qualità delle istituzioni (dal 27° al 48°), quello della situazione macroeconomica (dal 23° al 38°). 
 
L' analisi di questi dati ha due facce. La prima riguarda la tecnologia: è evidente che
il livello tecnologico dell' Italia è oggi migliore rispetto a quello di tre anni fa, ma mentre noi camminavamo piano molti altri paesi correvano e ci hanno superato. Poiché la competitività si misura in rapporto agli altri, muoversi non basta se gli altri vanno assai più veloce. La seconda faccia dell' analisi riguarda le istituzioni e la situazione macroeconomica: in questi settori non è una questione di velocità relativa ma di peggioramento netto. 
 
 L'indice della competitività dovrebbe bastare a costringerci a riflettere seriamente sui rischi che il benessere degli italiani sta correndo, ma vale la pena di dedicare un po' di
attenzione anche a un altro indice altrettanto istruttivo, elaborato anch' esso dal World Economic Forum, che misura l'adeguamento agli obiettivi di Lisbona (fissati dal Consiglio dell'Unione Europea nel marzo del 2000). I paesi sono 15 (non ci sono
ancora i nuovi entrati) e, per citare alcune posizioni, la Finlandia è prima anche qui, seguita da Danimarca, Svezia e Regno Unito. La Germania è sesta, la Francia ottava, la Spagna dodicesima. Poi c' è l' Italia e, dopo l' Italia, Portogallo e Grecia.
 
I parametri utilizzati sono la società dell' informazione, l' innovazione e la ricerca e sviluppo, la liberalizzazione del mercato, le industrie a rete, i servizi finanziari, le aziende, l'inclusione sociale e lo sviluppo sostenibile. In nessuno di questi parametri siamo vicini a Francia o Germania, stiamo appena meglio della Spagna nella società dell' informazione e nello sviluppo sostenibile, meglio dell' Irlanda (ma peggio del Portogallo) nelle industrie a rete.
 
Essendo difficile sostenere che il World Economic Forum sia un covo di faziosi e i 96 capo azienda italiani che hanno risposto alle domande sulla competitività un drappello
di sovversivi, forse sarebbe il caso di prendere questi campanelli di allarme sul serio, perché in gioco non c' è l'orgoglio nazionale ma il tenore di vita dei cittadini e la qualità non solo della nostra economia ma anche della nostra democrazia.  Ci sono tempi nei quali pochi anni di malgoverno lasciano delle tracce, e ce ne sono altri nei quali i danni risultano assai più profondi ele chine da risalire terribilmente più ripide.  I tempi nostri
sono questi ultimi. 
 
Questo articolo è stato pubblicato su "Affari & Finanza" di Repubblica.
Venerdì, 3. Dicembre 2004
 

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