Dalle pensioni 15 miliardi in tre anni

L’ennesima modifica del governo Monti al sistema previdenziale è stata dettata principalmente dalla necessità di far cassa e rappresenta una parte importante della manovra di finanza pubblica: quasi un quarto nel 2013 e addirittura un terzo nel 2014

L’intervento del governo Monti sul sistema pensionistico è stato l’ennesimo degli ultimi 7 anni. Tra il 2004 e l’agosto del 2011, la legge 243/2004 di Maroni (modificata dalla l. 247/2007), il D.L. 78/2010, il D.L. 98/2011, il D.L. 138/2011, hanno successivamente innalzato i requisiti minimi di accesso al pensionamento anticipato, portato a 65 anni l’età di pensionamento delle donne nel pubblico impiego, gradualmente allineato ai 65 anni il requisito per la pensione di vecchiaia delle donne nel settore privato, introdotto una finestra di un anno tra il diritto al pensionamento e l’effettiva decorrenza della pensione (18 mesi per gli autonomi e gli iscritti alla gestione dei parasubordinati), introdotto e via via anticipato l’adeguamento dei requisiti anagrafici all’aumento della speranza di vita.. 

Complessivamente, afferma la Nota di aggiornamento al DEF (Documento di economia e finanza) 2011, gli “interventi adottati hanno comportato una significativa riduzione dell’incidenza della spesa pensionistica in rapporto al Pil, che raggiunge in media 1,4 punti percentuali nell’intero periodo 2015-2040”. L’insieme degli interventi hanno contribuito “al miglioramento della sostenibilità di medio-lungo periodo della finanza pubblica favorendo il percorso di rientro dei livelli di debito pubblico”.

 

In termini quantitativi la riduzione operata da questi interventi sulla spesa pensionistica vale nel 2012 circa 11 mld di euro, che salgono a 15 mld nel 2013 e superano i 20 mld nel 2015.

 

I principali punti critici del sistema pensionistico dopo questi interventi erano indicati principalmente nel permanere delle pensioni di anzianità e nella perdita di flessibilità nel sistema contributivo operata dalla legge 243/2004. Un ulteriore punto di critica era (ed è) l’incapacità del sistema contributivo di assicurare pensioni adeguate in caso di carriere contributive irregolari.

 

Le pensioni di anzianità sono sempre state il punto più complesso di tutte le riforme pensionistiche e il punto di maggior resistenza dei sindacati. Sull’età di vecchiaia, invece, la resistenza è stata molto minore fin dalla riforma Amato del 1993. La pensione di vecchiaia non riguardava i lavoratori “forti” del privato e i lavoratori del settore pubblico, ma solo quelli che possiamo definire “gli sfigati”, persone, donne soprattutto, che, per vari motivi, non raggiungevano i 35 anni di contribuzione e che dovevano aspettare l’età di vecchiaia. Su loro si scaricò allora buona parte del peso della riforma. E’ una costante questa della sottovalutazione degli effetti del peggioramento dei requisiti per la vecchiaia che ha caratterizzato tutte le riforme, compresa quella Fornero.

 

Le modifiche all’anzianità toccavano invece il cuore della rappresentanza sindacale e quindi erano molto più complesse. In ogni caso si è passati da un’anzianità indipendente dall’età anagrafica ad un requisito minimo, inclusa la finestra, nel 2011 di 61 anni con 35 anni di contribuzione sia nel settore pubblico che in quello privato, requisito che sarebbe salito a 62 anni a partire dal 2013. Questa situazione non ci differenziava molto dagli altri paesi europei in termini di possibilità di anticipazione delle pensioni, mentre gli interventi sulla vecchiaia ci avevano portato ad essere non solo in linea, ma spesso oltre i limiti medi europei. La stessa graduazione della parificazione dell’età di vecchiaia per le donne nel settore privato non era molto differente dalla gradualità in atto nel Regno Unito. Il nodo era semmai quello del requisito dei 40 anni di contribuzione, a prescindere dall’età anagrafica. Era questa forma di uscita che abbassava sensibilmente, 59 anni e qualche mese, l’età media dei pensionati di anzianità rispetto al requisito “normale” dei 61. La cosiddetta “anomalia” italiana stava in questo punto.

 

La riforma Dini introdusse nel contributivo una flessibilità in uscita tra i 57 e i 65 anni, sulla base dell’indifferenza dal punto di vista dei costi dell’età di pensionamento dato il collegamento tra l’importo della prima rata di pensione e la speranza residua di vita. Questa flessibilità fu quasi del tutto annullata dalla riforma Maroni nel 2004 che fissò a 65 anni l’età di uscita nel contributivo limitando al raggiungimento dei requisiti previsti per l’anzianità un’uscita anticipata. La limitazione, ingiustificata sotto l’aspetto del sistema contributivo, era dovuta alla convinzione della Ragioneria generale dello Stato (Rgs) che solo una indicazione tassativa dei limiti di età poteva garantire i risparmi ricercati. Da allora questa convinzione della Rgs ha caratterizzato, e limitato, tutti gli interventi effettuati sulle pensioni compreso quello della Fornero, come vedremo in seguito.

 

Per anni molti studiosi del sistema del welfare hanno evidenziato come il sistema contributivo non avrebbe garantito una pensione adeguata ai lavoratori “precari”. In particolare anche il ministro Fornero riconosceva, come studiosa, che il problema dell’adeguatezza delle pensioni per i lavoratori con carriere precarie esisteva ma attribuiva la causa dell’inadeguatezza al mercato del lavoro ed era lì, secondo la sua opinione che bisognava intervenire.

 

A partire dal 2010, con l’adeguamento progressivo dei requisiti anagrafici all’aumento della speranza di vita, nuovi studi hanno messo, almeno parzialmente, in discussione questa inadeguatezza, basandosi principalmente sul fatto che spostando in alto l’età di pensionamento di vecchiaia il lavoratore godrebbe di una maggiore contribuzione complessiva e di coefficienti di trasformazione più elevati. Va notato, peraltro, che questi studi si rivolgono unicamente al tasso di sostituzione, ignorando totalmente l’importo effettivo della pensione: avere un tasso di sostituzione elevato rispetto ad una retribuzione inferiore ai 1.000 euro non assicura una pensione adeguata.

 

E’ in questo contesto che va giudicata in primo luogo la necessità di un ulteriore intervento sul sistema pensionistico e poi il contenuto dell’intervento. Dal punto di vista della sostenibilità di medio-lungo periodo non vi era in realtà alcuna necessità di intervento (vedi Nota di aggiornamento del Def) e nello stesso provvedimento si afferma che le disposizioni sono volte “a rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico”. Nel caso questo poteva essere limitato al requisito dei 40 anni e ad una reintroduzione della flessibilità nel contributivo.

 

La ragione di un intervento più massiccio sta tutta nella necessità da un lato di mandare messaggi all’Europa e ai mercati finanziari, dall’altro dalla necessità di far cassa. Sono dirette a ” garantire il rispetto degli impegni internazionali con l’Unione europea, dei vincoli di bilancio”.

 

Le indicazioni delle autorità europee, spesso sollecitate dall’interno, non riguardano solo le quantità di correzione dei conti pubblici, ma anche i settori nei quali intervenire. Una patrimoniale ordinaria o un intervento sulle pensioni, o sul mercato del lavoro, non sono giudicate alla stessa stregua anche se producono gli stessi effetti sul bilancio. A prescindere da ciò che pensano Monti e Fornero, l’intervento sulle pensioni, in primis sull’anzianità, sarebbe stato ineluttabile per qualsiasi governo. Su questo scontiamo il nostro debito pubblico e scontiamo i tre anni di governo Berlusconi che hanno ridotto a zero la nostra credibilità in Europa.

 

Nella tabella seguente sono riportati gli importi dell’intervento sul sistema pensionistico nei tre anni di manovra e negli anni fino al 2020 sulla base di quanto indicato nella Relazione Tecnica.

 

 

L’intervento sulle pensioni nella manovra Monti (milioni di euro)

 

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

2019

2020

Minori spese

-2.202

-5.003

-7.170

-9.964

-12.580

-15.354

-17.579

-19.300

-19.889

maggiori entrate contributive

1.184

1.593

2.009

2.416

2.839

3.294

3.808

3.896

3.982

Saldo

3.386

6.596

9.179

12.380

15.419

18.648

21.387

23.196

23.871

Minori entrate fiscali

- 668

-1.547

-1.593

-1.793

-1.931

- 2.096

-2.263

Lunedì, 13. Febbraio 2012
 

SOCIAL

 

CONTATTI