Dalla società industriale alla società industriosa

In occasione dell'avvio delle celebrazioni per il centenario della CGIL, Umberto Romagnoli ha presentato una relazione sul rapporto fra sindacato e Costituzione. La relazione è in corso di pubblicazione integralmente sulla rivista quadrimestrale Diritti Lavori Mercati: pubblichiamo la seconda parte dedicata ai nuovi rapporti fra lavoro, diritti di cittadinanza e welfare.
Quando la intravedono per la prima volta nella luce incerta del crepuscolo, la costa di un continente sconosciuto spaventa i naviganti. E' frastagliata, scoscesa, spazzata dai venti. Sembra inaccessibile. Tuttavia, sarebbe insensato che decidessero di tornare indietro dopo aver sfidato le incognite di un Oceano per raggiungerla. Non diversamente, gli europei che hanno alle spalle una traversata non meno difficile - quella al termine della quale hanno realizzato un modello sociale alternativo a quello statunitense ed un livello di benessere senza precedenti - sono tenuti a ristabilire un giusto rapporto tra lavoro e cittadinanza.
 
Il caso europeo è quello più chiacchierato perché è soprattutto nell'Europa occidentale che la disoccupazione di massa e di lungo periodo, destabilizzando il compromesso raggiunto tra lavoro e capitale, distrugge la stessa idea di cittadinanza di cui erano in parte artefici e in parte garanti le grandi istituzioni solidaristiche del mondo del lavoro e le macro-strutture della produzione. Soprattutto qui è urgente restituire ai regimi democratici la legittimazione sociale, perché è soprattutto qui che rischiano di perderla nella misura in cui la cittadinanza edificata coi mattoni dei sistemi nazionali di welfare state si sta sgretolando.
  
Come è noto, il welfare state europeo protegge quasi soltanto i dipendenti a tempo pieno e indeterminato. Esso infatti è basato su assicurazioni sociali pubbliche e obbligatorie che non possono funzionare con buoni risultati là dove la prospettiva di continuità del rapporto assicurativo legato al rapporto di lavoro non è realistica o tarda a profilarsi, perché in questo caso si verifica un deficit di versamenti contributivi da parte dei soggetti interessati. L'istituzione quindi non riguarda i lavoratori atipici né gli addetti ad un insieme eterogeneo di attività che la società domanda, ma il mercato non sa valutare. 
  
Per adeguare il welfare state all'esigenza di estenderne gli standard  protettivi oltre i confini del tradizionale diritto del lavoro occorre puntare non più sulla sola stabilità del posto di lavoro, bensì sulla continuità occupazionale e, facendo leva su di essa, sdoganare  - come sono in molti a chiedere - "un nuovo tipo di diritti sociali riferiti al lavoro in generale". Al lavoro in quanto tale. Al lavoro "senza aggettivi".
Come ha conclusivamente rilevato Massimo Paci in una monografia da poche settimane in libreria, "è venuta  via via diminuendo, fino quasi a scomparire, la convergenza della comunità scientifica attorno al termine con cui definire la società contemporanea. Per lungo tempo infatti è prevalso tra gli studiosi il ricorso al termine società industriale".

Orbene, "quando gli uomini si trovano di fronte ad una novità che li coglie impreparati, si affannano a cercare le parole per dare un nome all'ignoto". In casi del genere, ha osservato con un filo di ironia un famoso storico inglese, spesso va a finire che "la parola-chiave è la breve preposizione 'dopo', generalmente usata nella forma latina 'post', come prefisso del termine" usato in precedenza. A me invece pare di avere trovato la parola adatta a descrivere il passaggio d'epoca che l'Europa sta vivendo: anziché parlare di cittadinanza post-industriale, ritengo che sia più appropriato parlare di cittadinanza industriosa.
 
A chi obiettasse che inappropriata non è nemmeno la terminologia invalsa nella letteratura sociologica che preferisce parlare di cittadinanza attiva replicherei riconfermando la mia simpatia per il diverso distinguo lessicale non solo perché venne suggerito una ventina di anni fa da un grande giurista scomparso di recente - "on restera nécessairement industrieux, sinon industriel", scrisse Gérard Lyon-Caen - ma anche perché proprio un riverito sociologo del tardo Ottocento fu il primo a percepire la profonda disomogeneità degli scenari che l'industrialismo si preparava a sostituire a quelli dell'industriosità.
 
Per Herbert Spencer infatti l'industrialismo non designa situazioni caratterizzate soltanto dalla erogazione di ingenti quantità di lavoro; piuttosto, designa un certo modo di produrre destinato a diventare in fretta anche un certo modo di pensare. In effetti, la fabbrica fordista - intesa non tanto come luogo fisico quanto come schema mentale - sarebbe stata uno dei grandi laboratori della socializzazione moderna, perché il sistema dominante della produzione di massa non produceva soltanto vetture ed elettrodomestici: predeterminava un modello di organizzazione sociale e un codice di riferimento culturale che i comuni mortali, non avendo la possibilità né di sceglierlo né di rifiutarlo, potevano soltanto interiorizzare.
 
La giuridificazione della cittadinanza industriosa trova nella costituzione italiana più sostegni che ostacoli. Prendiamo in mano il documento e non fermiamoci, come di solito succede, al primo comma del suo art. 4: "la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che lo rendano effettivo". Leggiamo per favore anche il secondo comma: "ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società" e, senza soluzione di continuità, il primo comma dell'art. 35 che prescrive alla Repubblica di tutelare "il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni".

Però, proviamo a rileggerli inforcando lenti adatte alla società complessa in cui viviamo. E qualcosa di imprevisto succederà.
 
A me è successo di reinterpretare il patto di cittadinanza sul quale si regge il nostro Stato, rovesciando le conclusioni che accoglievo fino a qualche tempo fa: fino a quando non ho cominciato a valorizzare il coefficiente di laicità che, nelle intenzioni dei padri costituenti, contraddistingue un uso sapiente del diritto premiale dello Stato per sollecitare l'occupabilità dei cittadini, o ( il che è lo stesso) disincentivarne il parassitismo; e fino a quando non mi è venuto il dubbio che il primo comma dell'art. 35 faccia parte del nocciolo duro della costituzione.
 
In relazione al primo profilo, non c'è da vergognarsi a confessare che il collasso della finanza pubblica è diventato un fattore di dissuasione a spezzare la correlazione tra godimento dei diritti sociali e dovere di lavorare enormemente più efficace dell'indignazione morale che portò Costantino Mortati a interpretare il secondo comma dell'art. 4 nel senso che "la scelta consentita al singolo riguarda la specie di attività lavorativa da svolgere, non già l'alternativa se prestare o non un lavoro". Insomma, non è tanto "l'indegnità civile che colpisce la categoria degli oziosi volontariamente e abitualmente tali" a privarli del soccorso dello Stato, quanto piuttosto un calcolo di convenienza economica e dunque l'insostenibilità dei costi derivanti dalla rottura della logica della corrispettività che presiede alla condivisione dei diritti sociali.
 
In ordine al secondo lato della questione, l'autocritica non può essere meno severa. E' noto come si misero subito le cose sul versante dell'interpretazione del dato costituzionale. Ravvisando nel disposto costituzionale più un residuo dell'esecrato interclassismo corporativo che un promettente anticipo di futuro - a ciò indotti anche dalla circostanza che era ricalcato sull'incipit del Libro V del codice civile del 1942 letteralmente intriso di ideologia corporativa - molti giuristi del lavoro, incluso chi scrive, nicchiavano a riconoscergli natura e portata d'una norma dalla quale poter desumere un orientamento di favore nei confronti dei ceti medi produttivi. E' per questo che, a dispetto della sua rilevanza sul piano dell'ermeneutica, fu oscurato come una TV-pirata.
 
La circospezione con cui ci accostavamo alla norma non era del tutto priva di giustificazioni. Lo stesso diritto positivo ce ne offriva di non trascurabili.
Sennonché, la costituzione non fu scritta da pandettisti tardo-ottocenteschi. Tutt'al più ci sono buoni motivi per congetturare che i suoi autori fossero propensi a declinare il lavoro al singolare. Ma ciò non autorizza a ritenere che si disinteressassero del vasto agglomerato di moltitudini di operatori economici di cui parecchie centinaia di migliaia (oggi, due o tre milioni) svolgono un'attività personale sulla base di assetti contrattuali diversi dal - e anzi, ancorché limitrofi, alternativi al - contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.
 
Infatti, come è desumibile dal secondo comma dell'art. 3, la costituzione si preoccupa soltanto di rimuovere le situazioni soggettive di inferiorità e svantaggio, di sottoprotezione sociale e diseguaglianza sostanziale comunque e dovunque si manifestino. Il che implicitamente obbliga ad allargare lo spettro degli ostacoli da rimuovere per realizzare il modello di società prefigurato dai padri costituenti in modo da ricomprendervi anche quelli generati dai fenomeni riguardanti il lavoro comunque e dovunque svolto, purché costituisca un "fattore normale dell'impresa altrui, indipendentemente dal regime contrattuale in base al quale viene realizzata la sua integrazione nel ciclo produttivo e dal carattere gerarchico o funzionale dell'integrazione, sicché le sorti dell'impresa incidono, oltre che sulle vicende di un contratto, sul destino e sul progetto di vita di una persona". E' con queste parole d'insuperata precisione che Massimo D'Antona riportò al centro di un programma di politica del diritto il genus "lavoro senza aggettivi", del quale il lavoro più intensamente protetto nel Novecento non è che una species.
 
Sì, alla fine ce ne siamo accorti tutti che l'amore per la specie ha fatto perdere di vista il genere. Meglio tardi che mai, potremmo dirci e dire con tono consolatorio, se non proprio auto-assolutorio, perché grande è stato il rischio di uscire dal Novecento allo stesso modo in cui i nostri antenati vi erano entrati: a casaccio. Però, se avessimo il garbo di Massimo Troisi, dovremmo soggiungere: scusate il ritardo. Il ritardo accumulato durante la prima modernità: quando - come esemplifica Ulrich Beck - "dominava la figura del cittadino-lavoratore con l'accento non tanto sul cittadino quanto sul lavoratore"; quando "il lavoro salariato costituiva la cruna dell'ago attraverso la quale tutti dovevano passare per poter essere presenti nella società come cittadini a pieno titolo"; quando, insomma, lavoro e cittadinanza formavano un binomio che aveva la caratteristica instabilità di una barca con un elefante.
 
Ciò che bisogna fare, dunque, è imprimere una torsione al welfare atta a riorientarlo in conformità con una concezione inclusiva del lavoro per consentire, coerentemente con la medesima, la protezione dello status di cittadinanza a prescindere dal persistere di un'occupazione intesa nell'accezione che costituisce il più resistente retaggio culturale della civiltà industriale. Dopotutto, la figura-simbolo del produttore subalterno che si prestava ad essere lo stampo dello status di cittadinanza non c'è più. Soddisfatti i bisogni primari, ed anche qualcosa in più, si sta facendo strada l'idea che il pacco dei beni in cui si materializzano i diritti sociali sia una variabile indipendente dalla tipologia normativa dello scambio tra lavoro e retribuzione. E' una consapevolezza che può ritenersi ormai acquisita. Dimostrano di non possederla quei giuristi che si dedicano alla demolizione della barriera che idealmente separa il mercato del lavoro dal mercato delle merci e, ciononostante, si definiscono (chissà perché) giuristi costruttivi. Dimostrava invece di averne lucida percezione un giurista del lavoro italiano tragicamente scomparso.
 
Ucciso dalle Br il 20 maggio 1999 nel pieno della sua maturità scientifica e culturale, Massimo D'Antona sarà ricordato come il più pronto e preparato - non solo della sua generazione - a ripensare il diritto del lavoro col metodo più adeguato: quello che permette al passato di gettare sul presente la luce che aiuta a capire i problemi nella loro essenzialità. I suoi scritti sul diritto del lavoro che cambia esortano i giuristi a non indugiare né in atteggiamenti nostalgici - un po' perché il passato non può tornare e un po' perché non era, poi, così attraente - né in sfiduciati oroscopi - un po' perché il futuro potrebbe non essere così cupo e un po' perché le risorse per affrontarlo ci sono: basta saperle utilizzare.  Senza fideismi né catastrofismi è per l'appunto l'espressione che mi pare capace di riprodurre più fedelmente la cifra stilistica del suo pensiero.
 
Persuaso che il diritto del lavoro sia un costrutto storico e non abbia nulla di ontologico, Massimo D'Antona riteneva che fosse ormai arrivato il momento di occuparsi del lavoro che - "indipendentemente dallo schema contrattuale utilizzato" - "è integrato come elemento normale e costante nel ciclo produttivo dell'impresa altrui", a tal segno che "le sorti di quest'ultima incidono, oltre che sulle vicende di un contratto, sul destino e sul progetto di vita della persona". In effetti, "ci sono dei diritti fondamentali che non riguardano il lavoratore in quanto tale, bensì il cittadino che dal lavoro (un lavoro che può anche cambiare nel tempo, un lavoro che può essere autonomo o subordinato) si aspetta identità-reddito-sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua personalità", e anche per questo non si riconosce più nel totalizzante modello antropologico sotteso al diritto del lavoro novecentesco né nell'immagine sacrificale del "lavoratore massificato del quale ci parlano leggi e contratti collettivi". Come dire che Massimo riteneva che il diritto del lavoro dovesse evolvere a misura d'uomo nel senso di soggetto, persona, cittadino con "le sue istanze di autodeterminazione di fronte ad ogni potere, anche se protettivo e benefico".
 
Secondo lui, pertanto, anche la funzione del sindacato deve cambiare. Deve diventare quella di rappresentare il lavoratore in quanto cittadino piuttosto che il cittadino in quanto lavoratore: le parole sono identiche, ma gli accenti sono diversamente distribuiti per far capire che l'unità del sistema normativo da ricostruire intorno al lavoro "in tutte le sue forme e applicazioni" si realizza in correlazione coi bisogni del "cittadino che guarda al lavoro come ambito di chance di vita" senza però identificarsi esclusivamente col medesimo nell'ampia misura in cui si apre ad altri valori e si nutre di altri desideri.  
Ciò non significa che nel nuovo millennio sparirà, con la cultura dell'enfasi del lavoro salariato intorno al quale si è costruita la civiltà industriale, anche l'esigenza di ridurre i dislivelli di potere sociale immanenti nella relazione contrattuale mediante la quale si effettua lo scambio tra lavoro e retribuzione. Appena iniziata, invece, è la lotta per l'uguaglianza "intesa come pari opportunità di scegliere e mantenere, anche nel rapporto di lavoro, la propria differente identità e come pari diritto di adattare il lavoro al proprio progetto di vita".
 
Lunedì, 14. Novembre 2005
 

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