Dal licenziamento dei 61 alla grande spoliazione

La riedizione di un libro in cui il grande giuslavorista Giorgio Ghezzi ricostruì la vicenda della reazione Fiat al “biennio rosso” stimola una riflessione su come sia iniziata allora la parabola che è giunta, ai giorni nostri, a mettere in questione tutto l’insieme dei diritti dei lavoratori

Nell’aprile di quest’anno l’Ediesse ha riportato nelle librerie Processo al sindacato di Giorgio Ghezzi, la cui prima edizione (per i tipi De Donato) risale al 1981. Il libro contiene la ricostruzione del caso giuridico-sindacale originato dal licenziamento di 61 operai-Fiat nell’ottobre del 1979 che Ghezzi visse in qualità di membro del collegio degli avvocati indicati dal sindacato.

 

Sarebbe riduttivo supporre che i curatori della ristampa, arricchita da un prologo ed una post-fazione, siano animati dall’intenzione di tributare un omaggio postumo all’autore. La cosa sarebbe certamente giustificata, visto che sono allievi di Ghezzi e il modo migliore per manifestare affetto e gratitudine al maestro scomparso è riaffermare l’appartenenza alla sua scuola di pensiero. Ma il fatto è che il proposito di Andrea Lassandari e Federico Martelloni è quello di riattivare la memoria su di una vicenda ad alto valore simbolico che, come presagiva Ghezzi, è stata rimossa dal sindacato. Il prologo, che deve la sua efficacia comunicativa all’asciuttezza stilistica propria della prosa di Lassandari, e la post-fazione d’ampio respiro scritta da Martelloni, prendono per mano il lettore per accompagnarlo in un viaggio nel passato che ha il significato di un ritorno al presente nella misura in cui quel passato recava in sé anticipi di futuro. 

 

La conflittualità che faceva salire la temperatura dell’autunno del 1969 è accompagnata dall’affermarsi di un principio d’ordine: il sindacato riprende gradualmente il controllo dell’indistinto protagonismo di massa del periodo precedente. Lo può riprendere perché in concomitanza si svolgono le trattative per il rinnovo di importanti contratti nazionali di categoria. Lo riprende come può e sa: rilegittimando nella spontaneità la propria egemonia, secondo Federico Mancini – un giurista che apprezzava l’eleganza delle forme ossimoriche di esprimere il pensiero. Non a torto, però, nel medesimo arco di tempo Nicola Matteucci proponeva alla rivista il Mulino di tematizzare l’insorgenza populistica con i suoi danni devastanti. Forse, invece, non si tratta né dell’una né dell’altra cosa ed ha ragione Emilio Reyneri: “le contraddizioni tra movimento e logica organizzativa non erano scomparse. Più semplicemente, si erano trasferite all’interno del sindacato. Il licenziamento dei 61 è per l’appunto il modo con cui la Fiat denuncerà che il sindacato non aveva saputo superarle.

 

D’altronde, se è vero che la progressione conflittuale di un intero biennio – il “secondo biennio rosso”, secondo gli storici del movimento operaio – aveva  accumulato l’energia cinetica di una molla compressa incapace di scaricare tutt’in una volta la sua forza inerziale, resta da spiegare perché in Fiat i suoi effetti si esauriscano soltanto con la marcia dei 40.000 (o 15.000 o 20.000, nessuno lo saprà mai con precisione) che sfilano nel 1980 lungo le strade di Torino. Un evento, questo, inimmaginabile senza i cambiamenti di scenario che si erano prodotti al termine della vicenda processuale aperta dal licenziamento dei 61. L’esito della quale funzionò, a sua volta, da prova generale del licenziamento dei 14.469 nell’autunno del 1980. Sta di fatto che è l’insieme delle decisioni e dei comportamenti che si adottano nel giro di pochi mesi, tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, a permettere alla Fiat di farsi un’idea sperimentalmente verificata delle possibilità di successo dell’affondo che avrebbe dato inizio ad una strategia di riequilibrio dei rapporti di forza a livello sistemico. In effetti, il licenziamento di massa del 1980 dà inizio al regolamento dei conti tra imprese e sindacato che lo Statuto dei lavoratori aveva reso impraticabile.

 

I governanti avevano adottato lo Statuto un po’ per necessità e un po’ per convinzione. Pensavano che fosse necessario per riassorbire un’ondata ininterrotta di rivendicazioni scopertamente classiste ed erano convinti che lo Statuto avrebbe trasformato, insieme al mondo della produzione, la società italiana incentivando l’uno e l’altra a vedere nel sindacato un legittimo interlocutore, nel conflitto degli interessi un dato fisiologico della contemporaneità e nel diritto del lavoro la promessa che il processo costituente non si era chiuso con l’entrata in vigore della Costituzione.

 

La normativa statutaria è la risultante dell’incrocio di due linee di politica del diritto. La prima, e più marcata, è quella del sostegno del sindacato nei luoghi di lavoro. La seconda è quella del garantismo di matrice costituzionale di cui non può essere privato il cittadino anche quando è tenuto per contratto ad adempiere l’obbligazione di lavorare subordinatamente. Sarebbe stato preferibile abituarsi a definire lo Statuto come la legge delle due cittadinanze nei luoghi di lavoro: quella del gruppo organizzato e quella dei singoli. Per quanto distinte, esse si appoggiano a vicenda. Per realizzarle, lo Statuto protegge i rappresentanti aziendali del sindacato contro il potere dell’impresa e ordina all’impresa di adeguare il suo ordinamento interno al principio per cui i lavoratori, per quanto legati da un rapporto di dipendenza, sono anzitutto dei cittadini di una Repubblica democratica. Insomma, lo Statuto segnò un nuovo inizio non solo perché promuoveva la presenza del sindacato nei luoghi di lavoro, ma anche perché imponeva che s’inventasse un modo nuovo di stare in fabbrica, andando oltre la concezione della disciplina del rapporto di lavoro come regolazione d’impianto contrattuale di un rapporto di mercato. Per ciò stesso, e sia pure per implicito, metteva a nudo l’errore commesso da intere generazioni di operatori giuridici: il lavoro non bussò alla porta della storia giuridica esclusivamente per farsi avvolgere nel cellophane delle categorie tecnico-concettuali del diritto dei contratti tra privati; casomai, questo non era che lo stadio iniziale di un’evoluzione lontana dal suo sbocco conclusivo, ossia una provvisoria sistemazione. Come dire che il lavoro è entrato nella storia giuridica soprattutto per invocare una speciale protezione contro la voracità del profitto e, poiché la contrattazione collettiva può molto, ma non è tutto, non può fare a meno del presidio organizzato dallo Stato, con le sue leggi e i suoi apparati.

 

Intervenendo nel corso del primo dibattito pubblico tra giuristi sullo Statuto che si svolse a Milano nell’ottobre del 1971, Gino Giugni osservava: “ci sono due modi d’intendere questa legge: come dato collegato a una precisa scelta effettuata nel 1969-70 o come base di partenza per costruire su di essa soluzioni ancora più nuove. Sono due modi, però, che non sono in contrasto l’uno con l’altro. Si tratta di farli interagire”. Nessuno, invece, ci ha provato. Non ci ha provato il sindacato, che ha proseguito la sua rotta come una nave col timone inchiodato, senza percepire che la figura del cittadino-lavoratore con l’accento non tanto sul cittadino quanto sul lavoratore stava tramontando ed ha continuato a  pensare che la condizione di cittadino derivasse da quella di lavoratore, assumendone come immodificabile l’identità acquisita nel Novecento che, come diceva Antonio Gramsci, è stato il secolo durante il quale si è compiuto il maggior sforzo collettivo per creare, “con una coscienza del fine mai vista nella storia e con ostinazione feroce, (…) un tipo nuovo di lavoratore e di uomo” adatto ad una società caratterizzata da un certo modo di produrre diventata in fretta anche un certo modo di organizzare i rapporti sociali.

 
Come dire che il sindacato ha continuato a privilegiare, nell’esercizio del suo potere di rappresentanza, il ruolo di produttori subalterni svolto dai rappresentati per difenderli nel loro rapporto col lavoro e nei loro interessi materiali, trascurando che il lavoro è un pezzo di vita che condiziona tutto il resto e ne è condizionato. Per giunta, non ha smesso di attribuire al lavoro egemone della società industriale la proprietà di modellare su di sé la nozione di status ricavabile da un ordinamento costituzionale che, spostando il centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore, rovescia la tendenza a vedere nello stato occupazionale e professionale il prius e nello status di cittadinanza il posterius.

 

Neanche il sistema delle imprese ha interpretato lo Statuto come base da cui partire per rilegittimarsi attraverso l’adeguamento dei suoi principi d’azione a tutti i valori di cui è portatore il lavoro, anche a quelli non negoziabili né monetizzabili. Avendo vissuto come un trauma il biennio rosso, vivrà lo Statuto come un ostacolo a riaversi dallo shock coi mezzi che in passato aveva dimostrato di prediligere. Difatti, quanti erano del parere che la risposta al primo biennio rosso della nostra storia fosse stata all’altezza della sfida non potevano essere soddisfatti della risposta data al secondo. Non solo il paese non finisce in braccio alla reazione, malgrado la strategia stragista che s’intreccia col terrorismo delle Br: arriva persino una legge come lo Statuto che si consegna alla storia come il documento pro labour più avanzato che l’Occidente abbia mai avuto. Per questo, i conti col sindacato rimangono sospesi e il nuovo inizio del diritto del lavoro ha avuto una fine precoce.

 

Nel loro insieme, gli operai licenziati tra l’autunno del 1979 e l’autunno del 1980 facevano venire l’orticaria a tutti. Alle gerarchie aziendali, ai vertici (specialmente confederali) del sindacato e del Pci che stava collaudando la tenuta del compromesso storico, ai 100.000 (e passa) abitanti del pianeta-Fiat e chissà a quanti cittadini di Torino. Avevano il torto di interpretare con disturbante radicalità lo spirito dell’autunno caldo che s’incarnava nel sindacato dei consigli il cui atto costitutivo contemplava che il potere d’intervento su tutti gli aspetti dell’organizzazione del lavoro fosse esercitato dagli stessi lavoratori con le tecniche e gli stilemi della democrazia diretta. Certo, non tutti i licenziati erano delegati di reparto, di linea, di gruppo omogeneo. Però, appartenevano alla razza di quelli che nel quotidiano controllavano le condizioni di lavoro come protagonisti di un’ossessiva micro-contrattazione sostenuta da una conflittualità permanente che faceva saltare l’ordine produttivo. Erano quelli che interpretavano lo Statuto in maniera percussiva, come se fosse un corpo contundente di cui servirsi per infliggere un colpo decisivo al dominio del capitale. Così facendo, sottostimavano il fatto che il rodaggio della normativa statutaria si svolgesse durante gli anni di piombo culminati con l’assassinio di Aldo Moro e che, nel clima di paura creato dal terrorismo, crescesse la predisposizione mentale ed emotiva a stabilire un rapporto di contiguità, se non proprio di causalità, tra lotta sindacale - violenza - eversione armata.

 

Al tempo stesso, sopravvalutavano la possibilità che la repressione giudiziaria della condotta degli imprenditori che ostacolavano la partecipazione a (o la promozione di) astensioni collettive dal lavoro fosse un deterrente idoneo a dissuaderli dal perseguire animosi propositi di rivincita. Per ciò solo, però, finivano per portare quintali d’acqua al mulino di media risoluti nell’intimorire un’opinione pubblica incline a farsi persuadere che la società fosse ormai priva di mezzi di difesa contro ogni tipo di aggressione. Del resto, la Corte costituzionale stava ultimando la revisione in chiave libertaria della normativa degli anni ’30 che criminalizzava lo sciopero in tutte le sue forme e aveva successo il reclutamento di giudici di merito che, col sensazionalismo delle loro pronunce, sollecitavano i media a rivestirli coi poco rassicuranti panni di “pretori d’assalto”.

 

Diciamo la verità: ripensandoci a distanza di tanti anni, ciò che stupisce non è il licenziamento dei 61. Piuttosto, colpisce il ritardo nell’intimarlo. Ma soprattutto c’è da sgranare gli occhi di fronte all’insanabilità del macroscopico vizio formale della decisione aziendale: le lettere di licenziamento spedite ai 61 sono eguali come gocce d’acqua, gli addebiti sono generici e non sono stati contestati ritualmente agli incolpati. Direbbero i giuristi che si è di fronte ad una sequenza di negozi giuridici unilaterali  predestinati all’invalidazione in sede giudiziaria. Mai tardività e negligenza furono più intenzionali.

 

La Fiat era interessata non tanto a disfarsi legittimamente di debitori di lavoro inadempienti quanto piuttosto a dare in pasto all’opinione pubblica la notizia che il sindacato usava lo Statuto in modo sbagliato ed a convincerla che tra il disordine nella fabbrica e il disordine fuori si era stabilita una connessione, almeno indiretta. Essendo questa la vera finalità, occorreva che il clima interno si deteriorasse fino a marcire, anzitutto perché ciò avrebbe aumentato l’imbarazzo del sindacato che volesse difendere in giudizio quanti, a torto o a ragione, erano accusati di aver contribuito al formarsi di una situazione ambientale che si trascinava dall’autunno caldo ed era diventata sempre più  insostenibile. Per la Fiat quindi era importante ritagliarsi la parte di chi, dopo aver sopportato un’infinità di soprusi, a un certo punto non ce la fa più e urla “basta”; far scoppiare un petardo col maggiore fragore possibile e vedere l’effetto che fa sulle maestranze, sul sindacato e sulla città di Torino; eccitare l’attenzione dei media e richiamare quella della sinistra politica.      

 

Come dire: poiché il licenziamento disciplinare era viziato dalla palese violazione della puntigliosa normativa che procedimentalizza l’esercizio del potere disciplinare, la Fiat ne scontava in anticipo la censura giudiziaria. Insomma, il vizio formale della decisione di licenziare i 61 è funzionale all’obiettivo di politica aziendale: accertare come reagisce un sindacato quando dei lavoratori sono accusati di un eccesso di militanza sindacale.

 

Il calcolo si rivelerà esatto. Il sindacato decide di subordinare la sua disponibilità a presentare il ricorso ex art. 700 c.p.c. a nome e per conto dei 61 alla dichiarazione sottoscritta da ciascuno di essi che condanna l’uso della violenza nella lotta sindacale. E’ un espediente, escogitato allo scopo di tutelare il buon nome del sindacato che ci tiene ad essere considerato un competitore ligio alle regole anche nel vivo di un aspro scontro ed insieme selezionare, tra i rappresentati, quelli che lottano lealmente  distinguendoli dai devianti – cui finiscono per essere omologati i dieci che rifiutano di sottoscrivere la dichiarazione predisposta dal sindacato e promuoveranno un distinto processo. Per quanto comprensibile, è la spia di un disagio destinato a durare e di una sfiducia dura a morire. In sostanza, equivale ad ammettere che la materia scotta e il sindacato, che ne è pienamente consapevole, si asterrebbe volentieri. Se potesse. Ma non può. Sa che non sarebbe giusto, perché il processo che sta per celebrarsi ha natura più politica che giudiziaria.

 

A ben vedere, questo è il solo esito collaterale che la Fiat poteva ripromettersi, perché la lite giudiziaria era perduta in partenza. Vi sono però soccombenze che valgono una vittoria. Infatti, la Fiat prenderà serenamente atto del decreto pretorile d’urgenza emanato a norma dell’art. 700 c.p.c. che, dichiarati nulli i licenziamenti, ricostituisce de iure rapporti di lavoro cessati de facto. Ma non si rimangia la decisione. Anzi, non impiega più di un minuto a reiterarla licenziando nuovamente i 61. Insomma, riparte immediatamente, sgommando come fanno i bulli del volante. Stavolta, però, li licenzia correttamente, perché ha raggiunto la certezza che il sindacato non si tirerà indietro. E non solo accetterà di condurre il confronto sul terreno da lei scelto: quello di tracciare in astratto il confine tra lecito e illecito nei conflitti di lavoro, a prescindere dalle reali dinamiche conflittuali e dalle sue cause. Ha anche scoperto che su questo terreno il sindacato si muove con un impaccio superiore a quello da lei stessa preventivato. Come dire: ha la certezza che la sorte dei 61 interessa al sindacato non fino al punto di legarvi la sua. Il che apparirà più chiaro a tutti in seguito, quando il sindacato azionerà l’art. 28 non tanto per tutelare i 61 quanto piuttosto per tutelare se medesimo. Diversamente, non si asterrebbe dal chiedere al giudice di completare la rimozione degli effetti della condotta della Fiat pronunciandosi, ove ne accertasse l’antisindacalità, sulla reintegra dei licenziati che, nel caso di specie, costituisce la più adeguata misura di riparazione. E l’ambiguità del petitum non può non aumentare la visibilità della circospezione con cui il sindacato si muove. 

 

Giorgio Ghezzi evita di formularlo espressamente, ma nemmeno dissimula il sospetto che nei dieci anni precedenti la Fiat non avesse fatto altro che studiare come screditare lo Statuto e far cadere nella trappola un sindacato che lo usava come scudo protettivo di comportamenti antagonistici. Più che aspettare l’occasione opportuna, la Fiat la preparò optando per una condotta fatta di azioni ed omissioni che nell’immediato le procurava danni non lievi né passeggeri. Come il blocco dei circuiti di comando. Probabilmente, si fece del male da sola col semplice pati. Confidava che il tempo lavorasse a suo favore e, alla fine, si sarebbe squadernata sotto i riflettori dei media la verità cui teneva di più: lo Statuto non corrisponde alle fiduciose aspettative dei governanti e il sindacato può restarvi impiccato.

 

L’instaurazione e l’esito della controversia segnano una svolta dopo la quale niente sarebbe stato come prima. Anche per questo, il sindacato non propone opposizione al decreto che respinge il suo ricorso. E’ come se avesse una gran fretta di voltare pagina e una gran voglia di non parlarne più. Da allora, però, nell’immaginario collettivo è entrato il dubbio che il conflitto nei luoghi di lavoro non sia estraneo al terrorismo, che il suo ethos originario sia stato irreversibilmente inquinato e che la militanza sindacale produca più problemi di quanti non possa risolverne.

 

Fu, insomma, una vera svolta perché, in seguito, si sarebbero ammucchiati con una coerenza che il loro disordine non ha spezzato i materiali occorrenti per comporre il racconto della grande spoliazione subita dal lavoro nella Repubblica la cui Costituzione attribuisce esplicitamente proprio al lavoro una valenza fondativa. Cominciata con la demonizzazione del conflitto collettivo, essa sarebbe proseguita con la spoliazione dei diritti che restano il solo strumento di difesa degli interessi del lavoro e che, proprio per questo, conoscono il declino della loro stessa giustiziabilità in sede giurisdizionale.

 

Vero è che la fine della narrazione non è stata ancora scritta. Nondimeno, è stata preparata da un Parlamento che – senza se e senza ma, come oggi è di moda dire – ha concesso l’autorizzazione a smantellare l’intero diritto del lavoro. La conversione in legge di uno dei decreti anti-crisi del 2011, quello di ferragosto, ha infatti incistato nel sistema delle fonti di produzione delle regole del lavoro il germe che può causarne il sovvertimento. Nel lessico di un legislatore che ama le leziosaggini, ha preso il nome di contrattazione collettiva “di prossimità”; ma, neologismo per neologismo, anche il sostantivo “periferia” potrebbe andare. E’ una contrattazione con le caratteristiche di uno schiaccia-sassi, perché può mandare in frantumi l’intero sistema delle fonti normative. Di fronte a lei si ritira e si eclissa non solo la contrattazione nazionale di categoria, ma anche la legge, perché ha la licenza di derogare a (quasi) tutti gli standard  protettivi esistenti e la sua efficacia vincola l’intera collettività cui è diretta, previa approvazione referendaria, indipendentemente dalla sua dimensione. 

 

Per quanto l’eccentrica innovazione faccia una certa impressione, c’è chi dice che si tratterebbe non già di un micidiale sbrego dell’ordinamento, bensì di una superficiale scalfittura di cui si perderanno in fretta le tracce. Tra i più lesti ad informare che è “sterilizzabile” figurano i firmatari dell’accordo interconfederale concluso il 28 giugno 2011 allo scopo di rimettere insieme i cocci dell’unità d’azione tra le maggiori confederazioni sindacali. Infatti, con una dichiarazione congiunta apposta in calce al documento formalmente sottoscritto in settembre le parti promettono a se stesse che mai e poi mai si serviranno della licenza di derogare alla normativa esistente. Però, non hanno mica detto che la norma va cancellata. Anzi, non hanno nemmeno preso in considerazione la richiesta di promuovere un referendum abrogativo.

 

Ciascuna aveva le sue buone ragioni. La Confindustria non voleva alienarsi le simpatie dell’imprenditore medio cui la privazione della possibilità di fabbricarsi regole del lavoro a misura delle proprie esigenze sarebbe apparsa un sacrificio irragionevole. Cisl e Uil non volevano essere sbugiardate dal governo che con ogni probabilità le aveva riservatamente consultate prima di prendere la decisione-monstre. Dal canto suo, la Cgil riteneva che la fragile unità appena ristabilita con le altre confederazioni fosse una risorsa preziosa da conservare ad ogni costo. Anche a costo di far correre al diritto del lavoro, e alla stessa costituzione, il rischio di “sterilizzarsi”. 
Martedì, 10. Luglio 2012
 

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