Dal lavoro come status al cittadino lavoratore

Nel secolo passato era il fatto di essere un lavoratore a definire lo status sociale. Oggi l'accento si sposta sui diritti come cittadino, ma il lavoro resta una componente fondamentale per potersi definire tale

Ci sono delle certezze che noi non abbiamo più e di cui, anzi, è bene liberarsi. Anche se pietrificate in sillogismi di discreto successo. Come quello che si snoda in proposizioni del seguente tenore.

 

Premessa maggiore: il lavoro fordista è lavoro subordinato. Premessa minore: il lavoro fordista è in espansione. Ergo: il lavoro subordinato ha spazi illimitati da occupare.

 

Dispensatore di una certezza di segno curiosamente opposto è il sillogismo che ha preso il posto di quello che ho appena sunteggiato. Premessa maggiore: iniziato tardivamente e finito precocemente, il Novecento è stato un secolo breve. Premessa minore: il diritto del lavoro è il diritto del Novecento. Ergo: il diritto del lavoro finirà col suo secolo.

 

Se il primo sillogismo è (come dirò) ingannevole, il secondo è falso. Ammesso che il diritto del lavoro possa morire, rinascerà, sia pure su basi diverse. E ciò per un motivo assai semplice e al tempo stesso irresistibile: quello del lavoro è un diritto a misura d’uomo; un uomo che per guadagnarsi da vivere non può non lavorare e, per lo più, non può lavorare se non alle dipendenze di altri.

 

In effetti, i lavoratori autonomi sono tuttora una minoranza della popolazione attiva. Come dire: il lavoro autonomo non ha scavalcato il lavoro subordinato; e ciò malgrado l’anomalo rigonfiamento che sta subendo a causa di un incalcolabile il numero dei lavoratori autonomi finti e mimetizzati, per cui ai lavoratori autonomi ad un passo dalla subordinazione – come tipicizza il legislatore – si sommano moltitudini di produttori che quel passo lo hanno compiuto, ma di nascosto e in maniera fraudolenta. Di clamoroso, le statistiche registrano soltanto il sorpasso del lavoro manifatturiero ad opera del lavoro nei servizi e nel commercio, senza peraltro dissuadere dal ritenere che ci sia ancora tanto fordismo nel post-fordismo perché qualcosa di assimilabile alla disciplina di fabbrica si ripresenta ovunque il lavoratore sia oggetto di pratiche oppressive o costrittive, le mansioni esigibili ex contractu siano caratterizzate da ripetitività e l’organizzazione del lavoro abbia forma piramidale: in cima, i pochi che pensano e, alla base, i tanti che eseguono senza (dover né poter) pensare. 

 

Ad ogni modo, non ho difficoltà ad ammettere che il primo sillogismo – col quale ho flirtato a lungo nel corso dei miei studi – ha favorito una politica del diritto meno granitica di quanto non supponessi; anzi, la prospettiva che apriva era ingannevole ed effimera. Il secondo sillogismo è ancora più rovinoso. Anzi, dà luogo ad un esercizio intellettualistico che appare mistificante e manipolatorio. Perlomeno quanto lo è colpevolizzare il diritto del lavoro per la scarsa accessibilità del mercato del lavoro. I disoccupati, è ormai diventato un luogo comune, sono destinati ad aumentare a causa della costosa protezione degli occupati, facendo così balenare l’idea di una stretta correlazione tra bassi standard protettivi e impennate del volume occupazionale.

 

Gira e rigira, ancora una volta lo schema di ragionamento ha le movenze di un sillogismo. Può darsi che qualche economista sia disposto a certificarne la veridicità. Per certo, ha già incassato l’approvazione dell’attuale ministro del Lavoro che non perde occasione per affermare che la rigidità dei trattamenti di cui si giovano i gruppi più tutelati costituisce un ostacolo oggettivo al dinamismo del mercato del lavoro. Io invece non so neanche se sia il caso di farsi impressionare dall’esistenza, se provata, dell’invocata correlazione.

 

Posto che il diritto del lavoro è in buona sostanza una tecnica regolativa, la principale conseguenza della sua demolizione che deve interessare ad un giurista – che condivida i valori storicamente in esso incorporati nell’arco di un secolo – possiede l’inesorabilità degli automatismi: è la de-regolazione delle condizioni d’uso del lavoro che c’è, magari aumentato. Non succederebbe granché di diverso se all’improvviso fosse abolito il semaforo col pretesto che il numero degli incidenti continua a salire. Anche il semaforo è uno strumento regolativo e anzi la sua diffusione non è troppo superiore a quella del diritto del lavoro. Ma, ditemi voi, è ascrivibile al semaforo l’indisciplina degli utenti della strada?

 

Dopotutto, la nostra Costituzione garantisce la proprietà privata e la libertà di iniziativa economica; dunque, pur non celebrando l’apologia dell’economia di mercato, ne riconosce i pilastri. Alla condizione, però, che una lettura sistematica appena scolastica della Costituzione mette in chiara evidenza: la condizione è che il sistema capitalistico sia capace di offrire ai comuni mortali opportunità di lavoro decente. Se questa è la ratio del patto costituzionale, sostenere che il diritto del lavoro antagonizza il suo rapporto col diritto al lavoro riconosciuto dalla stessa Costituzione significa stravolgerla. Una lettura del genere – che è già di per sé un modo insolente di cambiare il documento cui si riferisce – non può essere giustificata da nient’altro che da un’ideologia tendente a riaffermare la proprietà e l’iniziativa economica come valori assoluti. Ma questo non è scritto nella Costituzione. Anzi, è scritto esattamente il contrario. Pertanto, attribuire ai padri costituenti il retro-pensiero per cui tra le condizioni che rendono effettivo l’esercizio del diritto al lavoro possa tranquillamente starci lo smantellamento degli standard di protezione del lavoro corrisponde solamente al desiderio di interpreti intenzionati a dimostrare che il diritto del lavoro dissipa risorse nella più irrazionale disseminazione di nicchie del privilegio che fanno di quello al lavoro un diritto bello, ma impossibile. Per contro, il diritto del lavoro ha già troppo da farsi perdonare per non fare apparire intollerabile il cinismo col quale si vorrebbe scaricargli addosso responsabilità che non gli spettano, a cominciare dalla scarsità di lavoro disponibile.

 

Se è doveroso combattere ogni contraria corrente di pensiero, lo è altrettanto aiutare il diritto del lavoro, se non a sbagliare un po’ di meno, ad auto-rappresentarsi in una luce meno deformante e più autentica. Il che è possibile se, come sostengo inter alia in un libro che l’editore Donzelli pubblicherà nelle prossime settimane, smetterà di appiattirsi sull’orizzonte di senso fissato da una massiccia letteratura giuridica che classifica il diritto del lavoro a stregua di una provincia minore del diritto dei contratti tra privati.

 

In effetti, una cultura giuridica che confonde le origini del diritto del lavoro con le ascendenze mono-disciplinari dei paradigmi di cui si serve rischia di ritardare e in definitiva ostacolare la percezione del lavoro come fonte di legittimazione della cittadinanza sociale e del suo diritto come terminale di un’evoluzione coronata dal più largo successo proprio perché la tensione emancipatoria che ha fatto di quello del lavoro il diritto del suo secolo ha propagato i suoi effetti ben oltre la sfera del lavoro, pur partendo da lì. C’è riuscito malgrado tutto.

 

C’è riuscito benché la valenza di progresso attribuita da un pensatore del calibro di Henry Maine al passaggio dallo status sociale al contratto consumatosi in epoche risalenti sia rimasta allo stadio di una potenzialità incompiutamente espressa nell’ambito dei rapporti di lavoro. C’è riuscito benché Ulrich Beck non esageri a sostenere quella che sarebbe diventata un’eresia giuridica dopo l’entrata in vigore delle Costituzioni dell’Occidente europeo del secondo dopoguerra: egli sostiene, cioè, che nel ‘900 “dominava la figura del cittadino-lavoratore con l’accento non tanto sul cittadino quanto piuttosto sul lavoratore. Tutto era legato al posto di lavoro retribuito. La condizione di cittadino derivava da quella di lavoratore”. Una volta, infatti, non si era operai solamente dentro la fabbrica e quello operaio non era solamente uno status occupazionale. Insomma, nella società industriale la collocazione dei comuni mortali nel mondo del lavoro condizionava il modello sociale prevalente. Come dire che il diritto del lavoro c’è riuscito a portare il lavoro nelle zone alpine del diritto costituzionale malgrado il persistere del primato dello status professionale non solo sul contratto, ma anche sullo status definito dai diritti di cittadinanza.

 

Adesso, infatti, è lo status di cittadinanza il prius generatore delle rivendicazioni sociali. Per questo l’incipit della Costituzione italiana e l’insieme degli enunciati della medesima che enfatizzano l’avvenuto distacco del lavoro dalla mercificazione anche giuridica hanno sempre avuto bisogno di essere re-interpretate, anche se ce ne accorgiamo solamente adesso perché l’egemonia culturale della gius-privatistica ha depistato intere generazioni di operatori giuridici.

 

A questo fine, è necessario (anche se non sufficiente) che la cultura giuridica la smetta di rifiutarsi di valutare il mutamento di senso subito da una norma  costituzionale come l’art. 35 – “il lavoro è tutelato in tutte le sue forme ed applicazioni” – e continui a precluderne l’attitudine a formare lo zoccolo duro del documento: ormai, è del tutto irrilevante che l’emancipazione sia partita proprio dal lavoro salariato del popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose. Mantenersi legati all’originaria prospettiva di politica del diritto la cui faziosità induceva a declinare al singolare il lavoro, ed a concentrare le tutele nell’ambito del lavoro dipendente, significa seguitare a sponsorizzare la centralità del contratto di lavoro fino a farne il perno su cui si regge il complesso degli apparati che danno corpo all’idea di cittadinanza sociale.

 

Per questo sono convinto che soltanto un’interpretazione evolutiva degli enunciati costituzionali capace di accentuare il significato unificante del lavoro cui si richiamano consente di guardare “au-delà de l’emploi”, come dicono i francesi. La sua realizzazione infatti esige che la relazione tra lavoro e cittadinanza sia presidiata da regole che seguono la persona nelle sue attività, in ogni posizione e in ogni momento, a prescindere dalle modalità, dalla durata e dalla natura del suo rapporto col lavoro, e proprio per questo correlate più allo status che al contratto. Insomma, se il lavoro industriale ha raggiunto il culmine della sua emancipazione allorché le democrazie costituzionali ne hanno fatto un titolo privilegiato di legittimazione dei diritti sociali di cittadinanza, adesso che la fabbrica non è più uno dei grandi laboratori della socializzazione moderna è la stessa cittadinanza che pretende di emanciparsi dal lavoro industriale, reclamando le garanzie necessarie alla conservazione della sua identità malgrado la pluralità e l’eterogeneità dei tragitti lavorativi.

 

Dopotutto, come scrisse una volta Gérard Lyon-Caen,“on restera nécessairement industrieux, sinon industriel” . Sarebbe perciò un errore sottostimare la portata dei diritti costituzionali cui occorre rifarsi per individuare composizione e consistenza del pacco-standard dei beni e servizi in cui la nozione di cittadinanza è destinata ad assumere visibilità e concretezza in una società industriosa. Una società per la quale il diritto del lavoro del ‘900 non potrà essere quel che è stato: il train de vie dei comuni mortali più esposti al pericolo di restare appiedati e perciò indotti a reclamare l’aggancio di vagoni e vagoncini in numero sufficiente per far salire tutti sul convoglio. Una società che, ripartendo dalla Costituzione inattuata, potrebbe avvalersi di un diritto del lavoro “modernizzato” nella misura in cui la sua funzione protettiva si articola in ragione dell’inclusione degli elementi costitutivi della cittadinanza sociale.

 

Come dire che non è corretto né ragionevole aspettarsi la morte del diritto del lavoro novecentesco; se ne aspetti invece la trasformazione in un ordine normativo che, immutato restando il suo ancoraggio a quel poco di grammatica dell’eguaglianza sostanziale che si è consolidato là dove ce n’era (e ce n’è) più bisogno, consenta l’esigibilità dei diritti sociali da parte del lavoratore in quanto cittadino piuttosto che del cittadino in quanto lavoratore. Le parole sono le stesse, ma gli accenti sono diversamente distribuiti in modo da far capire che nella biunivoca correlazione tra lavoro e cittadinanza è successo qualcosa: la metamorfosi del lavoro, che ne ha cambiato la percezione sociale, non è ininfluente sullo status di cittadino e su come fruirne. Perlomeno, il lavoro declinato al plurale sfida le  politiche di mediazione del vecchio Stato sociale. Venuta meno la tendenziale sovrapposizione fra lavoratore e cittadino, il perno dello Stato sociale rinnovato non potrà più essere il lavoro tradizionalmente inteso se non assumendolo come species di un'attività comprensiva delle più diverse forme di azione socialmente utile. Pertanto, l’irreversibilità della diversificazione e della segmentazione attuali del lavoro impedisce di continuare a privilegiare la forma di cittadinanza di cui sono state in parte artefici e in parte garanti le grandi organizzazioni dei lavoratori che fronteggiavano le grandi strutture del capitale.

 

Insomma, la direzione di senso imboccando la quale la democrazia moderna sembra avvicinarsi ad un plausibile traguardo è segnata da un movimento inverso a quello che ne segnò l’inizio. Se questo coincise col passaggio al contratto che avviò il processo di emancipazione dei nostri antenati, lo sbocco conclusivo è segnato dal ritorno allo status; un po’ perché la contrattualità non ha saputo rispondere a tutte le aspettative che suscitò dapprincipio e un po’ (ma soprattutto) perché, sotto il profilo dell’esigibilità, lo status si è reso indipendente sia dall’attualità del rapporto di lavoro subordinato che dalla stessa natura giuridica della sua fonte istitutiva.

 

Come dire: uscendo dalla società industriale, il lavoro – inteso nella forma che le era coessenziale – non può più fungere da presupposto unificante agli effetti dell’imputazione delle tutele previste dal suo diritto come dallo status di cittadinanza. Entrando nel post-industriale, è destinato a dismettere la connotazione totalizzante d’antan.

 

Però, adesso che si declina al plurale, reclama d’essere valorizzato senza chiusure od esclusioni come l’unico tramite della relazione di appartenenza la cui attitudine all’inclusione sociale, proprio perché è costituzionalmente protetta, è sganciata dalle variabili modalità che ne consentono lo sviluppo ed insieme costituiscono l’indicatore in base al quale è dato verificare come il cittadino si fa carico delle sue responsabilità nei confronti della comunità e sappia superarne il test relativo. La titolarità dei diritti sociali infatti spetta ad individui dei quali sia accertata la condivisione del “dovere” – indissociabile dallo status di cittadino, per volontà espressa dei padri costituenti – “di svolgere una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società, secondo le proprie posibilità e la propria scelta” (art. 4, comma 2°).

 

Non si creda che la giuridificazione della cittadinanza nella società industriosa sia predeterminata dalle Costituzioni. Essa infatti si modellerà su quel che sta raggomitolato nel sottosuolo dei rispettivi ordinamenti e gli scavi porteranno alla luce.

 

Non ha torto il Libro Verde messo in circolazione nel luglio scorso dal ministero del Welfare a denunciare la mediocrità dei materiali finora estratti per l’assenza di una visione strategica d’insieme mirata sulla “presa in carico” delle persone per restituirle ad “una società della vita buona”. Così, l’istituto dei lavori socialmente utili di cui in Italia si è fatto un uso inflattivo per eccesso di pressapochismo è rimasto prigioniero della logica meramente assistenzialistica di uno Stato che si comporta da Grande Elemosiniere e la promozione legislativa del workfare, finora troppo esitante e parsimoniosa, non può prefigurarne uno stabile intreccio col costoso assetto welfaristico statale.

Nondimeno, anche se la farfalla non è ancora uscita dalla crisalide, i colori e le forme delle sue ali s’intravedono già. Il lavoro resterà al centro del sistema, ma – come afferma Pietro Costa – sarà valorizzato come banco di prova della responsabile libertà dell'individuo. Può darsi che le assonanze col Libro Verde siano soltanto letterarie e si arrestino alla sottolineatura della biunivoca corrispondenza con precise responsabilità dei destinatari; ma intanto, coi tempi che corrono, accontentiamoci che il governo esprima l’avviso che “il sistema di Welfare non deve essere smantellato e la spesa sociale non va tagliata”.

Lunedì, 5. Gennaio 2009
 

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