Da Rio a Johannesburg; disincanti e speranze (un po' disperate)

I vertici non sono inutili. Ma bisogna cambiare lo sviluppo basato sulla crescita quantitativa

Johannesburg è stata una grossa delusione solo per chi avesse grandi illusioni: quindi, solo per pochissimi. Alla Conferenza di Rio del 1992, cui partecipavo in rappresentanza del governo italiano, durante un colloquio informale con il simpatico Bill Reilly, Presidente della Environmental Protection Agency americana, formulai provocatoriamente la formula decisiva per risolvere il problema della sostenibilità ambientale del mondo: distribuzione massiccia e gratuita di profilattici nei paesi in via di sviluppo e quadruplicazione del prezzo del petrolio con tasse nei paesi ricchi. Bill sorrise: “Si, ma glielo dici tu al mio boss (era Bush-padre). Io voglio conservare il posto”. Non lo conservò lo stesso. E i due nodi scorsoi che minacciano di strozzare il destino della specie umana sul pianeta – l’affluenza degli uomini e l’effluenza delle cose – rimangono appesi alle disincantate speranze di un governo mondiale della sostenibilità.
Disincantate, non del tutto “disperate”.

Il Vertice della terra di Rio si aprì in un clima di intensa emotività: 18 mila partecipanti, 400 mila visitatori, 8 mila giornalisti. Doveva essere la risposta all’intenso bombardamento mediatico iniziato con il “colpo di cannone” del rapporto Meadows sui limiti dello sviluppo, del 1972, con la contemporanea Conferenza di Stoccolma e con il celebre rapporto, "Il futuro di noi tutti", pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, presieduta dal primo ministro svedese, signora Bruntland. Quel rapporto aveva colto il nodo cruciale del problema: che era di affrontare la questione formidabile di quei limiti – finalmente riconosciuta a livello della coscienza mondiale – non con un impossibile arresto dello sviluppo, ma con un radicale mutamento della sua natura. La formula diventò famosa: uno sviluppo sostenibile dall’ambiente.

Alla fine della Conferenza di Rio, ci fu l’inevitabile onda di risacca della delusione. Troppe speranze, pochi impegni concreti. Pure, Rio aveva segnato risultati importanti: la presa di coscienza della indivisibilità mondiale del problema, diventato di colpo politico; la firma di due Convenzioni, non totale e non immediatamente impegnativa, è vero, sul clima e sulla biodiversità; e soprattutto la rassegna dei temi in un promemoria per cambiare il mondo: l’Agenda 21, un documento di importanza storica, che passava in rassegna i problemi cruciali della sostenibilità: i suoi aspetti economici e sociali, la conservazione e gestione delle risorse, il coinvolgimento delle grandi categorie sociali marginalizzate (donne, bambini, comunità locali, sindacati), le politiche e gli strumenti possibili.

A Johannesburg, un nuovo incontro di dimensioni imponenti, il clima era certo diverso, molto più disincantato. Se ci chiediamo perché, sarebbe sbagliato rispondere: "perché di Rio non resta niente". Anzi, sbagliatissimo. Il criterio della sostenibilità ambientale è entrato nella formulazione delle norme legislative e nella progettazione e finanziamento delle opere, su larga scala. Il protocollo di Kyoto sulla “decarbonizzazione” è stato ferito gravemente dalla diserzione americana, ma rimane valido per un gran numero di paesi cui se ne sono aggiunti a Johannesburg due non proprio marginali, la Cina e la Russia. Le maggiori imprese chimiche mondiali hanno eliminato la produzione e l’impiego delle sostanze killer della fascia di ozono, le industrie petrolifere elettriche e automobilistiche hanno sviluppato tecniche “efficientistiche” in termini di risparmio energetico, e hanno impresso finalmente un ritmo non più insignificante alle ricerche sullo sviluppo delle energie rinnovabili, il Brasile (forse perché impegnato in un’ardua campagna elettorale) mostra di prendersi carico del tragico problema della gigantesca devastazione del suo polmone tropicale.

Quel che è disperatamente mancato è il “cuore” del rapporto Bruntland: che non era l’intervento sui guasti del processo di consumo e di produzione, ma la modificazione radicale di quel processo, dalla sua ispirazione centrale, che resta oggi la crescita quantitativa (di tutto, di più) al criterio fondamentale dello sviluppo qualitativo. Un solo esempio: a che serve migliorare l’efficienza energetica delle automobili in termini di emissioni, se il parco automobilistico raddoppia ogni dodici anni?

Gli innegabili progressi parziali non hanno allontanato se non marginalmente le due minacce supreme dell’affluenza degli uomini e dell’effluenza delle cose.

Quanto alla prima, a dire la verità, anche il rapporto Bruntland era più che pudico. Per parlare di contraccettivi, per esempio, diceva: “i mezzi tecnologici indispensabili al controllo delle dimensioni del nucleo familiare”. Qui la responsabilità delle autorità religiose e dei loro comandamenti teologici, è enorme. Quei comandamenti erano perfettamente compatibili con la dignità e la sostenibilità dell’uomo e dell’ambiente in un mondo caratterizzato da una cronica scarsità demografica. Diventano invece un attentato ad ambedue nel mondo povero e congestionato, ove la irresponsabilità procreativa condanna milioni di bambini alla morte prematura e miliardi di uomini e di donne alla miseria.

Quanto alla seconda: essa deriva dalla persistenza del dogma laico della crescita. Dogma che non è solo capitalistico. I paesi comunisti lo hanno idolatrato, con le conseguenze ecologiche che tutti hanno potuto constatare. Anche qui: la crescita delle merci disponibili è perfettamente compatibile con l’ideale del benessere in una società di scarsità di beni materiali e di consumi: ma è insostenibile in una società nella quale la tecnosfera è diventata tanto potente da intaccare la biosfera: quella pellicola esigua che ricopre la terra (pochi chilometri di spessore) e che ci appare col suo manto verdazzurro, splendido e vulnerabile, nelle immagini che i nostri satelliti ci trasmettono dallo spazio esterno.

Per affrontare il primo pregiudizio servono politiche di controllo demografico e di pianificazione familiare. Il liberismo demografico è un peccato contro l’umanità. Rassegnarsi alla stabilizzazione “naturale” attorno ai 10 (o 12?) miliardi di abitanti, significa, in una condizione di crescente disuguaglianza, infliggere sofferenze mostruose e indecorose a milioni di nuovi esseri umani, di persone nel senso cristiano della parola, e non fantasmi deambulanti, affidando alla provvidenza divina un compito che è tutto proprio della coscienza umana.

Per affrontare il secondo, bisogna ristabilire anzitutto un minimo di solidarietà tra i ricchi e i poveri del mondo.

Ora: come si fa a raggiungere un’intesa comune in un mondo che ha visto crescere negli ultimi cinquant’anni le distanze tra i paesi più ricchi e i più poveri da 30 a 1 a 90 a 1 in termini di reddito pro capite? Come si fa a impartire lezioni di liberalizzazione da parte dei paesi ricchi ai paesi poveri quando i primi sbarrano spietatamente i loro mercati agricoli ai secondi? Nel suo ultimo rapporto la Banca Mondiale, che l’Economist comincia a sospettare di simpatie “marxiste”, ha calcolato che 180 miliardi di dollari all’anno per dieci anni consentirebbero di aver accesso all’acqua potabile, a un’istruzione di base e a un alloggio decente a tutti coloro che ne sono privi, in tutto il mondo. Intanto, gli Stati Uniti e l’Europa concedono ogni anno ai loro agricoltori 347 miliardi di dollari di sussidi: poco meno del doppio di quella cifra.

L’insostenibilità della ineguaglianza e della povertà costituiscono il primo ostacolo a una politica mondiale di sostenibilità ambientale. Il secondo ostacolo è costituito dalla assenza di un governo mondiale “minimo”: un’autorità capace di gestire un grande programma di redistribuzione delle risorse, capace di costituire per tutti i “cittadini del mondo” una rete di protezione e di dignità sociale. Entro questo secolo, le proiezioni economiche annunciano una quadruplicazione del reddito mondiale. Non sono quindi le risorse che mancano. E’ la globalizzazione dei diritti.

Il terzo ostacolo è costituito , in stridente contrasto con questa ultima esigenza, dalla cementificazione degli egoismi: politici, economici, personali. Questo è un problema culturale e morale: il più grave di tutti. Può una società che brucia ogni valore sull’altare della competizione attingere alle risorse profonde della cooperazione?

Johannesburg non ha dato risposte convincenti su questi problemi cruciali. I problemi restano. Sempre più drammatici. Potranno avere risposte adeguate in tempi utili? Non ci si può contare. Ma, come diceva quel tale che non aveva giocato al Totocalcio e però guardava con grande interesse i risultati: non si sa mai.

Lunedì, 23. Settembre 2002
 

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