Cure omeopatiche per la crisi

Come fanno gli omeopati, si sta tendando di tamponare un disastro scatenato dai debiti facendo altri debiti, ma non servirà se si lascia immutato tutto il resto. In Italia, poi, non si fa neanche questo. Pochissime risorse e disperse, invece di canalizzarle in tre direzioni precise

Più passa il tempo e più un aspetto diventa chiaro. La crisi economica non è stata prevista e le misure intraprese per contrastarla, se va bene, possono frenare la caduta, ma non costituiscono una convincente “exit strategy”. La ragione è presto detta. Non si va molto lontano reagendo come se si dovesse affrontare una normale crisi congiunturale legata cioè all’andamento del ciclo economico. Magari, solo un po’ più grave, più profonda e verosimilmente più prolungata delle altre.

Che è più o meno la reazione che ha inizialmente preso piede negli Stati Uniti, dove la crisi è fragorosamente esplosa un anno fa. In effetti l’amministrazione Bush ha pensato di poterla contrastare mettendo sul piatto un pacchetto di 160 miliardi di dollari di “stimoli all’economia”. Nel giro di pochi mesi si è però capito che la cura non funzionava. Ed, invece di valutare meglio le cause e quindi i più appropriati rimedi, si sono semplicemente aumentate le “dosi”. Nell’illusione che bastasse contrastare i sintomi anziché che curare la malattia. Lo stanziamento è stato così elevato prima a 700 miliardi, poi a circa 800, per arrivare infine (con la presidenza Obama) a più di 1000 miliardi. Che potranno lievitare fino a 2000, con la costituzione di un “fondo con i privati” per i titoli tossici. Ammesso che riesca ad avere un futuro la proposta formulata dal segretario al tesoro Geithner.

 

Malgrado questo massiccio aumento del dosaggio il malato non dà, almeno per ora, alcun visibile segno di miglioramento. Il fatto è che probabilmente non è possibile curare una crisi causata da un eccesso di indebitamento privato e pubblico (su cui si era scatenata una speculazione mai vista in precedenza), semplicemente aggiungendovi altro debito (pubblico). Lasciando più o meno immutato tutto il resto. A cominciare dalle diseguaglianze che sono state la causa prima della esplosione abnorme di gran parte del debito privato (mutui, carte di credito, acquisti rateali, ecc).

 

E’ quindi probabile che la cura non riesca a funzionare semplicemente perché formulata in base al principio “similia similibus curentur” (i mali si curano con rimedi simili). Che è il canone della scuola medica omeopatica. Convinzione che ha indotto un buon numero di politici e di cosiddetti esperti a ritenere che una “crisi da debiti” potesse essere curata semplicemente con altri debiti.  Evidentemente agli uni ed agli altri sfuggiva ciò che aveva già sottolineato Ippocrate. Vale a dire che si possono guarire con i “simili” solo le malattie che hanno cause simili. Mentre quando le malattie sono prodotte da cause diverse, possono essere guarite solo con i contrari (“contraria contrariis”). In tutti questi casi si dovrebbe perciò rifuggire dalla medicina omeopatica per affidarsi piuttosto a quella allopatica.

 

E’ esattamente ciò che si sarebbe dovuto fare nella attuale situazione economica. Dovendosi fronteggiare contemporaneamente: una dissennata polarizzazione dei redditi, un crack finanziario, un crollo della produzione e dell’occupazione, una recessione mondiale di cui nessuno sa pronosticare la fine. E, per fare buon peso, sarebbe bene tenere d’occhio anche rischi di cui per ora si parla solo sottovoce. In particolare cosa potrebbe succedere se la speculazione non si dovesse dare per vinta e decidesse di passare dai debiti dei privati come ha fatto fino a pochi mesi fa, a incominciare a giocare con quelli degli Stati.

 

Ebbene, proprio perché la crisi non  è solo congiunturale (nel senso che non è una semplice oscillazione del ciclo economico), ci si dovrebbe interrogare sull’insieme delle cause strutturali che l’hanno determinata e discutere anche quali potrebbero essere i più appropriati rimedi strutturali. Obama ci sta provando. Ma il suo cammino, per ora, risulta in salita.

 

In ogni caso è abbastanza evidente che, nella situazione drammatica con cui siamo alle prese, il filo a cui aggrapparsi siano soprattutto gli stimoli pubblici all’economia. A questo proposito non possono essere elusi due problemi. Il primo riguarda la consistenza delle somme che vengono stanziate. Il secondo riguarda invece i beneficiari. Nel caso italiano le due questioni sono state finora puramente e semplicemente accantonate. Infatti, le cifre vere stanziate (escludendo quindi dal conteggio quelle riciclate dalla propaganda berlusconiana, che riguardano vecchi capitoli di spesa non realizzata) sono solo lo 0,5 del Pil. Si tratta perciò di un ammontare estremamente lontano da quello deciso da tutti gli altri principali paesi europei. Per di più, in base a considerazioni di carattere prevalentemente politico-elettorali, le somme stanziate sono state disperse in mille rivoli. Con la presumibile conseguenza che non saranno assolutamente in grado risolvere nessun problema. Indipendentemente dalla loro rispettiva importanza in una razionale scala di priorità.

 

In effetti, anche tenuto conto delle conseguenze più gravi prodotte dalla crisi, gli interventi avrebbero dovuto essere concentrati in tre direzioni, che muovono però tutte dal tema cruciale del lavoro. Considerato che nella crisi molti perdono il lavoro e moltissimi non riescono a trovarlo, la prima cosa da fare avrebbe dovuto essere quella di realizzare (anche con la gradualità necessaria) un sistema universalistico di ammortizzatori sociali. Mentre purtroppo quello italiano continua ad essere di tipo settoriale, categoriale e persino aziendale (come nel caso Alitalia, ma non solo). Anche i correttivi adottati negli ultimi giorni continuano ad eludere il problema di una vera riforma in materia, limitandosi infatti ad aggiungere all’esistente alcuni pannicelli caldi. 

 
La seconda, che ha sempre a che fare con il lavoro, riguarda il credito alle imprese. In particolare piccole e medie. Le banche, malgrado le rassicurazioni di segno contrario, hanno in pratica chiuso i rubinetti. Per farglieli riaprire potrebbe essere utile una garanzia pubblica sui rischi connessi a nuovi investimenti. D’altra parte se il credito non riprende a circolare immediatamente non poche imprese si troveranno assai presto a pericolo di infarto. Ed altri lavoratori si troveranno così a spasso. Con tutte le conseguenze sociali ed economiche del caso. Purtroppo, in proposito, salvo qualche inchino retorico per ora non è stato fatto nulla. 
 
Infine, sempre avendo d’occhio il lavoro, che è il punto più vulnerabile della crisi, bisognerebbe investire tutte le risorse pubbliche che si riescono a mobilitare nell’economia della manutenzione. Perché si tratta di attività che possono essere messe in moto immediatamente. Dopo la crisi del ’29, con l’intento di dare una risposta immediata alla perdita di posti di lavoro, Keynes suggeriva di risolvere il problema anche semplicemente facendo scavare delle buche per poi farle riempire. Per certi versi, noi siamo avvantaggiati. Le buche le abbiamo già. Basta girare per le strade di Roma, soprattutto in periferia, per rendersene conto. Potremmo quindi incominciare subito a riempirle. Inoltre, sempre nell’ambito dell’economia di manutenzione, possiamo anche decidere di mettere finalmente a norma tutti gli edifici scolastici. Senza aspettare qualche altro disastro per decidere di intervenire.
 
Purtroppo queste ed altre azioni consimili, che potrebbero dare risultati immediati, sono del tutto fuori dalla  testa del governo. Quando infatti il presidente del Consiglio parla di interventi infrastrutturali, anche come leva di una possibile ripresa economica, ha in mente soprattutto le grandi “opere del regime”. Con le quali vorrebbe essere ricordato dalle generazioni future. Anche indipendentemente dalla loro utilità (che in certi casi è più che dubbia, si pensi solo al ponte sullo Stretto) i loro effetti sarebbero comunque rinviati nel tempo e quindi di scarsa o nessuna utilità per fronteggiare ora la crisi. Caso mai potrebbero essere utili per immaginare di rimediare alla prossima. Ammesso che siamo ancora vivi. Perché, come ammoniva sempre Keynes: “Nel lungo periodo siamo tutti morti”.

 
Stando così le cose, tutto induce ad una sconsolata conclusione. Si usa dire spesso: al futuro bisogna sempre guardare con ottimismo. Ma se si considera il modo con cui la crisi è stata finora affrontata, si è purtroppo più inclini a ritenere che l’Italia tenda a sottrarsi a questa regola..
Domenica, 15. Febbraio 2009
 

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