Cuneo fiscale, il minimo risultato col massimo sforzo

E' inspiegabile la generale approvazione di questa misura. Per le imprese un risparmio sul costo del lavoro di circa il 2%, per giunta distribuito in modo indifferenziato; per i conti pubblici un impegno gravoso. Quanto poi all'ipotizzato scambio "meno fondi alle imprese - meno tasse", seguirebbe la stessa logica perversa

Si può esprimere una contrarietà rispetto a una famiglia di provvedimenti che – caso raro –  sembra apprezzata da tutti? Mi riferisco in modo particolare alla riduzione del cuneo fiscale e al cosiddetto scambio tra minori aiuti e riduzione delle aliquote per le imposte dirette alle imprese. La misura per la riduzione del cosiddetto cuneo fiscale sembra raccogliere, a meno delle critiche sui ritardi di attuazione e sulla copertura finanziaria, l’approvazione di tutti gli osservatori eppure gli argomenti contrari sono, a mio avviso, molto  consistenti e di essi non si discute. Gli obiettivi mi paiono largamente sovradimensionati rispetto ai mezzi, i benefici saranno sostanzialmente modesti, i costi complessivi elevati, la logica discutibile. E’ utile ragionare brevemente sull’oggetto, non in linea di principio, ma nel campo dei numeri possibili.

 

Nel caso del “cuneo fiscale” riferito alle imprese per ogni lavoratore dipendente è prevista la deduzione dall’imponibile IRAP, oltre che dei contributi sociali, di una somma fissa pari a 5000 euro (10000 al Sud): considerando le elevate aliquote di una regione come il Lazio, 5,25% (nelle regioni con aliquote pari al 4,25% il beneficio sarà inferiore), la somma di cui si tratta corrisponde a un beneficio pari a meno di 600 euro per anno per dipendente. Stiamo parlando quindi di una riduzione del costo del lavoro in media prossima al 2%.

 

Se rapportiamo tale somma ai costi complessivi delle imprese vediamo che si tratta di somme realmente trascurabili per le singole unità produttive e tali da rendere abbastanza fantasiosa l’idea di potere modificare in tal modo la competitività del sistema italiano o di accentuare il processo di investimento come taluni sembrano affermare, anche prescindendo da altre, robuste, critiche teoriche pure presenti.

 

Se la stessa somma, relativamente modesta, viene moltiplicata per l’intero stock dei lavoratori dipendenti, l’impegno finanziario per lo Stato diventa molto consistente, anzi il solo cuneo corrisponde, all’incirca, al totale dei contributi erogati alle imprese industriali in un anno e costringe a varie manovre fiscali per il reperimento dei fondi a copertura.

 

Ma è la stessa logica dell’intervento che mi pare criticabile in un periodo di grandi ristrettezze finanziarie: decidere di premiare (in misura inevitabilmente trascurabile) lo stock dei lavoratori anziché offrire un premio a chi vuole investire, modernizzare, fare ricerca aggiuntiva o anche solo occupare nuove persone, significa offrire uno sgravio indistinto minimo agli operatori, talmente minimo da essere, probabilmente, molto meno efficace delle pur tanto criticate politiche tradizionali per le imprese.

 

Un’analoga contrapposizione tra stock e flussi si ha quando si prospetta, come viene sostenuto da importanti opinion leader, di operare uno scambio tra l’intero ammontare degli aiuti alle imprese e sgravi di imposte generalizzati. Se si ragiona a parità di spesa (o di mancate entrate) la riduzione dell’IRES non può che essere marginale e sostanzialmente non avvertibile per la totalità delle imprese.

 

Credo che sia utile tenere separate le questioni: una cosa è discutere del carico fiscale e di alcuni suoi livelli eccessivi, cosa diversa è ragionare su politiche industriali e di sviluppo. Nel primo caso vanno definiti possibili sentieri di rientro verso livelli meno penalizzanti, nel secondo si devono analizzare l’utilità degli interventi e le correzioni possibili. Va anche ricordato che, nel caso delle politiche industriali,  il “titolare” dei fondi è il contribuente che ritiene opportuno destinare delle risorse non per accrescere tal quali i redditi delle imprese, ma per lo sviluppo di funzioni considerate di utilità sociale (accrescere la ricerca, ridurre l’impatto ambientale, riequilibrare lo sviluppo….).

 

Per rimanere nella stessa logica sopra utilizzata, poi, applicare sgravi agli stock sarebbe contemporaneamente oneroso per il contribuente e irrilevante per le imprese; sarebbe opportuno proporre interventi -anche di sgravio, ma se possibile ragionevoli- solo sui nuovi flussi, sugli incrementi di capitale investito e di lavoro. Non sarebbe una novità, ma certo non sembra impossibile, per una volta almeno, disegnare politiche ben costruite con misure che non abbiano poi bisogno di ulteriori provvedimenti di attuazione e di trattative estenuanti per essere operativi.


(Raffaele Brancati è docente di economia industriale all’Università di Camerino)

Sabato, 23. Giugno 2007
 

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