Crisi vera, rimedi finti

I provvedimenti varati dal governo non sono solo quantitativamente insignificanti: soprattutto partono da un presupposto sbagliato, cioè che l'economia abbia bisogni di continuare a incrementare i consumi privati. Bisognerebbe invece puntare su quelli pubblici

Con Tremonti che invoca il vincolo dei conti pubblici e Berlusconi più interessato ai sondaggi ed alle ricadute sul mercato politico, il governo ha licenziato la sua manovra per far fronte alla crisi economica. L’intervento deciso poggia su due cardini: un pacchetto di investimenti infrastrutturali per grandi opere (pari a 16,6 miliardi di Euro, già stanziati in passato e dispersi in vari capitoli di spesa); un bonus “una tantum”, di consistenza variabile, per un certo numero di famiglie e persone indigenti. Sugli effetti anticrisi di simili misure c’è poco da scommettere. Perchè è come illudersi di rimediare a occlusioni coronariche con qualche cerotto transdermico.

 

In effetti alla base della crisi ci sono fattori strutturali che, dunque, esigerebbero rimedi strutturali. Mi riferisco a due questioni in particolare: l’aumento delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito e l’assetto dei consumi. Incominciamo dalla prima. Il più recente studio dell’Ocse ci informa che, nel 2005, il 10 per cento più ricco della popolazione percepiva un reddito 9 volte superiore a quello del 10 per cento più povero. Nei paesi nordici ed in Francia la disuguaglianza era molto inferiore: di 6-7 a1. In Giappone, Germania e Canada era di 8 a1. In altri paesi la disparità risultava decisamente più elevata. In Messico, per esempio, la differenza nei livelli di reddito tra il 10 per cento al vertice ed il 10 per cento al fondo della scala sociale era di 26 a 1; negli Stati Uniti di 16 a 1; in Italia di 11 a 1.
 
Secondo il rapporto, in termini puramente monetari, i cittadini più poveri dei paesi Ocse erano costretti a vivere con in media meno di 7 mila dollari all’anno. Ma in Italia e negli Stati Uniti dovevano accontentarsi di 5 mila dollari. Questi dati si riferiscono esclusivamente al reddito. Se invece si prende in considerazione anche la disparità della ricchezza si scopre, come nel caso dell’Italia, che il decile della popolazione che sta in alto nella scala sociale si accaparra oltre i due terzi dell’intera ricchezza nazionale. Cioè del patrimonio immobiliare, dei depositi bancari, dei valori finanziari e di altri beni dello stesso genere.

 
Il punto da tenere presente è che i paesi con un più alto livello di disuguaglianza, normalmente hanno anche un più basso livello di crescita. Se si confrontano i dati dell’Italia con quelli degli Stati Uniti si potrebbe essere indotti ad una conclusione diversa. Ma si tratterebbe di una conclusione sbagliata. Perché negli Stati Uniti, per quasi dieci anni, si è pensato di poter eludere il problema del peggioramento della distribuzione del reddito incoraggiando un aumento dell’indebitamento delle persone e delle famiglie. In sostanza, si è creduto che fosse possibile barattare indefinitamente una diminuzione del potere d’acquisto dei salari di operai ed impiegati con la facilità di avere mutui superiori al valore dell’appartamento di proprietà, o di indebitarsi con le carte di credito. L’illusione è finita assieme alla esplosione della crisi finanziaria. Ora si stanno raccogliendo i cocci.
 
Negli Stati Uniti si incomincia  infatti a prendere coscienza che alla base della “bolla finanziaria” c’era, non solo una deregolazione scriteriata che ha favorito i lestofanti svelti e capaci di vendere carta straccia a caro prezzo, ma anche un problema (colpevolmente sottovalutato) di aumento delle disuguaglianze. Problema a cui la nuova amministrazione dovrà cercare di porre mano.
 
In Italia la situazione è in parte diversa, ma la questione redistributiva (come confermano i dati Ocse) è più grave che in tutti gli altri Stati europei. Ed essa non si risolve con occasionali contributi ai “più bisognosi”, o con la “tessera di povertà”, ma solo con interventi strutturali sul sistema fiscale per correggerne le distorsioni accumulate a danno di lavoratori e pensionati. Introducendo eventualmente anche l’imposta negativa per chi non avesse redditi sufficienti. Che, per altro, è una forma di sostegno ai poveri sicuramente meno umiliante delle trovate governative. Purtroppo però, di tutto questo nei provvedimenti del governo non c’è assolutamente traccia. Una ragione più che sufficiente per esprimere una reazione critica.

 

Per quanto riguarda invece il secondo problema, vale dire l’assetto dei consumi e dunque della produzione, a parte la sua insostenibilità ambientale (su cui prima o poi si dovrà pure incominciare a riflettere) vi sono più che fondati dubbi che possa generare davvero benessere. Ma anche che l’aumento dei consumi possa essere indefinitamente incrementato. Magari con interventi a favore di questo o quel settore produttivo. In proposito, sia detto per inciso, ha assolutamente ragione l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, quando in relazione ai ventilati contributi a favore di alcune aziende del settore auto, ha reagito affermando: “Per tutti, o per nessuno”. Ed è un vero peccato non avere sentito dire la stessa cosa dalle organizzazioni sindacali quando per l’Alitalia sono state stabilite modalità del tutto particolari di cassa integrazione.

 

In ogni caso sul punto la destra, incomprensibilmente assecondata anche da una parte delle sinistra, insiste nel dire che “bisogna sostenere i consumi”. Ma concretamente cosa vuol dire sostenere i consumi? Quando ormai la grande maggioranza delle famiglie possiede una casa di proprietà, più di un'auto, una dotazione completa di elettrodomestici (televisori e cellulari compresi), quando chi soffre la fame non è certo vittima di una insufficiente offerta di consumi, ma caso  mai di un reddito troppo basso, o del tutto assente, si dovrebbe perlomeno discutere se un ulteriore aumento dei consumi privati possa davvero fare stare meglio. Ma persino se una loro ulteriore qualificazione, tenuto conto che nella maggior parte dei casi una innovazione sostanziale non si vede da tempo, sia davvero un obiettivo prioritario dei paesi ricchi. Se non sia perciò un po’ insensato, in mercati in gran parte di sostituzione, un turnover sempre più accelerato che distrugge risorse anziché  generarne.

 
Sia chiaro: in queste considerazioni non c’è nessuna intonazione moralistica. Nessuna concessione a idee, pur rispettabili, che elevano a valore assoluto la frugalità. Soprattutto ad idee di stampo fondamentalista che demonizzano il consumo. C’è soltanto la presa di coscienza che la qualità della vita, raggiunto un certo livello di consumi privati (nei paesi ricchi, il nostro compreso, ampiamente superati) deve trovare altre strade per realizzarsi. Una nuova proposta di civilizzazione andrebbe perciò presa urgentemente e seriamente in considerazione per fronteggiare il contraccolpo di una crisi tanto profonda, quale quella con cui siamo alle prese. Si dice spesso che le crisi costituiscono, al tempo stesso, un rischio ed una opportunità. Come si fa allora a scongiurare il rischio ed a cogliere l’opportunità?

 

Un qualche suggerimento ci potrebbe venire dal nuovo presidente degli Stati Uniti. Infatti nei suoi discorsi Obama ha formulato interessanti suggestioni per la ripresa dell’economia americana. Ed anche per evitare pericolosi contraccolpi sull’occupazione. Mi riferisco, in particolare, agli interventi a sostegno di una politica energetica verde capace, almeno nei propositi, di creare 5 milioni di posti di lavoro. Mi riferisco inoltre alla messa in sicurezza di strade, ponti, scuole, per altri due milioni di posti di lavoro. Mi riferisco infine alla copertura sanitaria per i 50 milioni di americani che oggi ne sono privi ed al sostegno economico dei ceti più deboli. Per essere un avvio di mandato non mi sembra davvero poco.

 

Purtroppo in Italia le cose vanno invece diversamente. La maggioranza ha infatti un debole per i consumi privati, mentre diffida di quelli pubblici. Il premier ha una ragione in più per sostenere questa linea. I consumi privati consentono infatti una raccolta pubblicitaria largamente superiore a quella dei consumi pubblici. Lascio però da parte il permanente, scandaloso, conflitto di interesse e mi limito ai fatti di questi giorni. L’opposizione ha giustamente respinto la richiesta del governo di aggiungersi alla maggioranza nella approvazione delle misure “anticrisi”. La ragione invocata è che la maggioranza manca di ogni elementare forma di rispetto e di buona educazione. Non avendo infatti sentito il bisogno di consultare l’opposizione nella fase di formazione delle decisioni, come può invocare il “dialogo” e soprattutto il voto dopo? La mia opinione è però che il dissenso vada oltre il “galateo”. Perché investe anche e soprattutto il merito. Infatti, pur con tutta la migliore buona volontà, non si può non riconoscere che, con le cause della crisi, i provvedimenti varati dal governo hanno poco o nulla a che fare.

Martedì, 2. Dicembre 2008
 

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