A cosa serve il massacro dell’art. 18

Si è già detto che lo scontro è soprattutto ideologico, condotto da coloro per i quali la libertà coincide con la libertà di monetizzare tutto e dunque ridurre il lavoro a una merce. Ma il risultato dei contorsionismi verbali nella stesura del decreto lo rende poco usabile e amplia la discrezionalità del giudice che si voleva ridurre
Quello che si sta consumando sotto i nostri occhi, e non solo nel nostro paese, è un colossale scontro per conquistare l’egemonia culturale. Esso ha per oggetto la libertà dell’agire economico, dove il massimo di libertà dovrebbe coincidere con la libertà di monetizzare tutto, o quasi tutto, e dunque di rimercificare il lavoro e, perché no?, la stessa esistenza.
      
Come è facile constatare, in concreto sta producendo effetti devastanti. Ciononostante, è tutto ideologico e anzi lo sfruttamento mass-mediatico, cui si presta egregiamente, lo ha reso uno dei più ideologici che siano divampati sul fronte del diritto di produzione parlamentare nella seconda metà del ‘900. Non a caso le fiamme hanno lambito il cielo quando la società della flessibilità ha trovato l’occasione, che cercava da tempo, per disintegrare il fortilizio rappresentato dalla norma-simbolo delle sicurezze giuridiche cui permette di accedere (sia pure con dei distinguo che in un sistema produttivo come il nostro escludono un’ampia fascia di occupati) il contratto di lavoro a tempo indeterminato.
       
Infatti, la reintegra prevista dall’art. 18 del lavoratore ingiustamente espulso da un’impresa fa balenare l’idea di un diritto (quasi) reale dell’occupato sul posto di lavoro e perciò rappresenta la più acuminata ritrascrizione in chiave normativa della percezione del lavoro come il bene senza il quale il comune mortale non ha, ma soprattutto non è. Pertanto, la rimessione in pristino del rapporto contrattuale interrotto da un licenziamento illegittimo fornisce un solido argomento a favore di quella che i più hanno sempre disapprovato come se fosse una manifestazione di morbosità ideologica: l’assimilazione del lavoro alla res di cui sarebbe proprietario il lavoratore.
       
Nel luglio del 2012 è entrata in vigore una legge, la legge Monti-Fornero, destinata per l’appunto ad accompagnare ad un malinconico passo d’addio la versione statutaria dell’art. 18 che configurava un meccanismo d’intensità protettiva ricalcato su quelli di cui, in base all’ordinamento civilistico e processualistico, si giova la proprietà. Insomma, non si poteva fare a meno di premere il tasto dell’art. 18, perché  premendo su di esso si arriva a scardinare il pilastro della reificazione del posto di lavoro che, coerentemente con la generale concezione privatistica, funziona da presupposto teorico-dogmatico della reintegra.         
       
La versione attuale dell’art. 18 spariglia le carte. Come nel gioco dello scopone scientifico. Non si limita a restringere il campo di applicazione dell’istituto della reintegra, di fatto ridotta ormai ad una sanzione poco più che residuale. Si propone anzitutto di immunizzarlo dalle suggestioni proprietarie che quarant’anni fa portarono il legislatore a trasferire nell’ambito di un rapporto obbligatorio un modello di tutela in forma specifica contro le turbative del possesso di un bene di cui c’è sempre stata penuria. Oggi, infatti, si dispone di una inaudita (e, a modo suo, originale e comunque priva di riscontri in altri sistemi legali) molteplicità di tipi di licenziamento e di regimi sanzionatori – con certosina pazienza, qualcuno ne ha contati, rispettivamente, 18 e 6, più della metà dei quali inventati di sana pianta dalla legge 92 del 2012. La rimodulazione normativa non è correlata all’illecito commesso dal recedente, che resta concettualmente inalterato e sempre eguale a se stesso malgrado il variare delle circostanze: il parametro di riferimento è diventato la gravità della devianza. Perciò, è scontato che un legislatore attento più ai diritti civili che ai diritti sociali decida di collocare la reintegra come venne pensata dal legislatore statutario al vertice del mini-sistema sanzionatorio allestito ad hoc, stabilendo che sarà ordinata dal giudice soltanto in caso di licenziamento discriminatorio. 
        
Di per sé, lo spariglio non è una mossa avventata. In genere, però, è un’iniziativa che viene presa da un giocatore in difficoltà, ma determinato a correre il rischio di perdere il controllo degli sviluppi di un gioco che può complicarsi oltre l‘immaginabile. Ciò che per lui conta è la vittoria. Ad ogni costo.
      
Qualcosa di analogo deve essere successo nel riformulare l’art. 18. Il quale è dettato con la tetraggine di chi, pur di riprendersi un primato ideologico-culturale diventato sempre più contendibile, è disposto a proteggere meno di quanto vorrebbe l’interesse a difesa del quale è schierato: in questo caso, l’esonero da vincoli legali della libertà d’impresa sub specie di licenza di licenziare. Quello ottenuto, infatti, è sicuramente un risultato apprezzabile, ma soltanto se si inforcano le lenti dello storico delle idee giuridiche. Ne dà conferma l’iniziale esperienza applicativa del nuovo disposto legale. Essa rivela che, per quanto radicale sia la modifica del codice genetico dell’istituto della reintegra, non c’è impresa che possa trarne vantaggi apprezzabili. Almeno, nell’immediato. Grande, infatti, è lo sconcerto provocato nello star-system accademico dei giuristi-scrittori – figurarsi nella popolazione giudiziaria e forense – da un testo legislativo la cui cifra stilistica è il contorsionismo verbale. Al di là delle intenzioni, esso genera un’infinità di incertezze interpretative che finiscono per allargare lo spazio di discrezionalità di quello stesso potere giurisdizionale di cui il Parlamento aveva di recente censurato l’inclinazione ad esercitare un controllo di legalità (a suo parere) sostanzialmente espropriativo del potere aziendale.
       
E’ tuttavia verosimile che la pasticciata riformulazione dell’art. 18 sia dovuta non tanto a dilettantismo. Piuttosto, c’è affanno. E tanta fatica. La fatica di superare resistenze e cercare soluzioni compromissorie. C’è anche la mesta consapevolezza che la flex-security raccomandata dall’Unione Europea  non può essere virtuosa: da noi, per chissà quanto tempo, può essere soltanto virtuale, perché costa in termini di politiche attive del lavoro, nelle quali l’Italia è particolarmente arretrata, e di esborsi pubblici – mentre le casse dello Stato sono vuote. Infine, c’è l’euforizzante emozione di chi sta compiendo il gesto dissacrante che meditava da troppo tempo. E tale certamente è quello indispensabile per spianare la strada che permette di giungere, col maturarsi di condizioni più favorevoli, ad azzerare l’attitudine del contratto di lavoro a tempo indeterminato a soddisfare con la maggiore pienezza possibile l’interesse primario del lavoratore alla continuità del rapporto.
       
Poiché l’obiettivo era quello di diminuire la desiderabilità sociale del prototipo dei contratti di scambio tra lavoro e retribuzione, non si poteva realizzarlo senza il massacro dell’art. 18. Esso infatti toglie alle giovani generazioni un incentivo non secondario a idealizzare “la monotonia del posto fisso”: come si esprime l’algido leader politico che ha più fermamente voluto la dissacrazione e se ne è pubblicamente dichiarato soddisfatto – Mario Monti è un anziano professore universitario nonché senatore a vita.
       
Per realizzarlo, quell’obiettivo di portata strategica, si è ritenuto che valesse anche la pena di firmare una cambiale in bianco. Sì, proprio così. Ma questo è un discorso che farò in una prossima occasione.
Lunedì, 29. Aprile 2013
 

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