Contrattazione: oltre che di regole, parliamo di contenuti

Flessibilità, inquadramenti e professionalità, formazione, accesso al lavoro e collocamento sono temi chiave dell’azione sindacale in tutta Europa, su cui in Italia siamo in ritardo. E' su questi temi che si riconquista rappresentanza tra i lavoratori
Il recente Congresso della Cgil ha riproposto le questioni che da tempo sono al centro del dibattito sindacale e su cui si fatica a trovare una sintesi unitaria, precondizione all'apertura di un confronto con le controparti: la riforma degli assetti contrattuali, l'impostazione della politica economica, la misurazione della rappresentanza.

Ci sono, in verità, altri due problemi, oltre ai tre citati: la legislazione sul mercato del lavoro e l'autonomia. Ma su di essi non mi soffermerò, perché sul primo ci sono diversità più verbali che di sostanza (la materia va rivista per ridurre i rischi di eccessiva precarizzazione del lavoro) e sul secondo è confermata una storica e ineliminabile diversità di concezione: l'autonomia viene interpretata dalla Cgil a partire da una esplicita autocollocazione nella sinistra politica italiana, e dalla Cisl a partire da una valorizzazione dei corpi sociali, che ha le sue radici nel pensiero cattolico democratico e in quello liberalsocialista.
 
Tornando alle tre questioni iniziali, credo che un punto di partenza utile sia quello di prendere atto che le difficoltà dei salari in Italia non derivano principalmente dalla obsolescenza degli assetti contrattuali definiti nel 1993, ma da un insieme più complesso di fattori.

Il problema di fondo è la perdita di competitività e di produttività del sistema economico italiano, con conseguente bassa crescita del Pil. Quando la ricchezza non cresce, è impossibile ottenere aumenti generalizzati del salario reale. Questo calo di competitività si manifesta da almeno dieci anni e dipende da tre fattori: l'aumento della concorrenza internazionale, lo sciopero degli investimenti nei settori industriali, lo spostamento di ricchezza verso i settori protetti dalla concorrenza internazionale.
Affrontare il problema della bassa crescita solo con interventi sulla domanda è perciò insufficiente e illusorio; servono politiche di sostegno all'offerta a favore dell'industria e del terziario avanzato, sia nel campo fiscale che in quello della politica economica. In questo ambito è positiva la proposta di Epifani sul patto fiscale, insieme alle sollecitazioni per una politica industriale più selettiva ed efficace. Sul terreno della politica economica non mi pare difficile costruire posizioni comuni tra Cgil, Cisl e Uil, sulla base delle quali negoziare con il governo.
 
Sarebbe però insufficiente e pericoloso  fermarsi qui, in  attesa che il tempo ci aiuti a trovare orientamenti comuni sulla contrattazione e la rappresentanza. Quello macroeconomico è infatti un terreno importante, ma sul quale la competizione con gli attori politici sarà molto forte, in particolare se dovesse rivincere il  centro-destra.
Il sindacato ha assoluto bisogno di una nuova politica contrattuale che possa rafforzarne la capacità di rappresentanza, anche nel caso di scarso successo sul piano delle politiche economiche e fiscali.

Se così non fosse, la differenza di compiti tra sindacati e partiti tenderebbe a sparire. Ed è proprio questo il punto debole della relazione di Epifani, non a caso definita da Bertinotti una buona traccia per il discorso programmatico del futuro Presidente del Consiglio di centro-sinistra.

L'indebolimento del sindacato è originato non solo dall'ostilità del governo di centro-destra, ma anche dalle crescenti difficoltà della contrattazione. È calata la sua autorità salariale, perché i già esigui spazi concessi dalla crisi economica sono ulteriormente ridotti dall'aumento di peso delle politiche salariali unilaterali delle aziende, che hanno occupato lo spazio lasciato libero dai sistemi preistorici di riconoscimento della professionalità (fermi da più di 30 anni nelle normative dei contratti nazionali) e dalla scarsa estensione della contrattazione di secondo livello.

Per questo, la contrattazione va riformata nelle regole e rinnovata nei contenuti. Occorre ricordare, al proposito, che il 1993 non è stato solo l'anno in cui si è fatto un accordo sulla politica dei redditi e sul sistema contrattuale, ma anche quello in cui per l'ultima volta si è svalutata la lira. Prima di allora la possibilità di ottenere buoni risultati salariali a livello nazionale, distribuendo produttività media, era consentita, nella sostanza, dalla possibilità di svalutare la lira qualora, come spesso accadde, la gracile e frammentaria struttura produttiva italiana non avesse retto l'aumento dei costi.

Se la svalutazione era una droga, le regole contrattuali furono (e sono) il farmaco necessario per disintossicarsi. Possiamo farne a meno dopo 13 anni? Credo di no. Non solo perché il sistema economico non ha affatto superato le sue carenze strutturali, ma anche perché, in presenza degli squilibri sopra ricordati tra settori e tra aree (e/o aziende) deboli e forti, una contrattazione basata solo sui rapporti di forza finirebbe per produrre soluzioni corporative, in cui i lavoratori più forti potrebbero migliorare, ma i più deboli finirebbero per soccombere. Con tanti saluti alla solidarietà.
 
Il cuore della diatriba tra sindacati è, come è noto, la distribuzione della produttività. Con crescita zero non c'è niente da distribuire a livello centrale. Con crescita positiva si rischia, distribuendo produttività media, di dare meno del possibile a chi sta sopra la media e più del sostenibile a chi sta sotto. Da qui la necessità di decentrare.

La difficoltà della Cgil a scegliere questa strada deriva, a mio avviso, non tanto dalla giusta prudenza rispetto all'esigibilità di un eventuale livello contrattuale territoriale (a cui si possono comunque prevedere rimedi nazionali, come nel recente accordo interconfederale degli artigiani o nel contratto nazionale dei metalmeccanici), ma dalla maggior politicità della contrattazione nazionale rispetto a quella decentrata. Ma come non vedere che di questo passo anche i contratti nazionali rischiano di diventare non esigibili, se caricati di compiti troppo ambiziosi?

Le regole, dunque, non sono una bacchetta magica, ma semmai la traduzione pratica di una strategia. Il dissenso è di merito, non di metodo.
 
Ma il rilancio della contrattazione ha bisogno anche (e forse soprattutto) di nuovo respiro sui contenuti. Flessibilità, inquadramenti e professionalità, formazione, accesso al lavoro e collocamento sono temi chiave dell'azione sindacale in tutta Europa, su cui in Italia siamo in ritardo. O perché li abbiamo lasciati in mano alle aziende, o perché li abbiamo delegati alla politica, o perché li abbiamo abbandonati al "fai da te" del rapporto tra lavoratore e capo.

Di questo i congressi sindacali non parlano più. Ma di questo avremmo bisogno per riconquistare rappresentanza, cioè per essere interessanti e utili per tanti lavoratori i cui bisogni non sono riconducibili alla sola questione salariale.

Infine la rappresentanza. La Cisl ha ragione quando si oppone alla legge e propone l'accordo fra sindacati e con le controparti. Ma è tempo di una proposta di merito, perché di solo metodo non si campa: prima o poi la spinta statalista per una legge rischia di prevalere.
 
Dulcis in fundo. L'accordo del 23 luglio 1993 era fatto di diverse parti: non solo regole contrattuali, ma anche politica economica e nuove rappresentanze aziendali (le Rsu). Forse dobbiamo solo scoprire l'acqua calda.
Venerdì, 24. Marzo 2006
 

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