Contrattazione, la realtà è più complessa di una polemica

La contrapposizione alle posizioni di Ichino rischia di irrigidire un dibattito che non può restare nei limiti delle semplificazioni ad uso giornalistico. Un recente rapporto per la Commissione europea mostra che in tutti i paesi le soluzioni sono articolate. Ma la tendenza verso il decentramento non riduce affatto l'opportunità del contratto nazionale
Le questioni delle strutture della contrattazione collettiva e della rappresentanza sindacale sono state recentemente riproposte sullo sfondo del dibattito che ha interessato la CGIL in relazione alle tesi sostenute da Pietro Ichino. Le tesi che Ichino discusso con la consueta chiarezza e lucidità nel dialogo intessuto con Eugenio Scalari, non prospettano soluzioni particolarmente nuove e originali nel dibattito corrente e non costituiscono affatto un tabù anche nel campo sindacale, se si guarda, come l’autore invita  a fare,  oltre il confine nazionale. Ichino dovrebbe però chiedersi perché le sue proposte, in Italia, suscitino così spesso reazioni di rigetto nel campo  riformista; perché riesce a compattare così bene i suoi oppositori.
 
Cosa pensa di questo Ichino potrei pure immaginarlo: il richiamo alla solitudine del riformista, se non fosse abusato; la particolare protervia conservatrice di alcuni settori della sinistra politica e sindacale  italiana   - ma all’estero non si scherza per questo profilo: è sufficiente  guardare ad alcune posizioni dell’attuale direzione della internazionale socialista, per non parlare della sinistra francese schierata contro la Costituzione europea.
 
Potrei   suggerirgli che  forse qualcosa ha probabilmente a che vedere con il tono dei suoi interventi, spesso assertorio, che non lascia  spazi né ai dubbi, né alle mediazioni ; mi sembra, a volte,  ispirato ad una fede indiscutibile, assoluta, nei propri stessi ragionamenti: ciò, è vero,  ha finito per attribuirgli un  ruolo istituzionale, e ormai quasi ufficiale, di fustigatore della sinistra e dei suoi ritardi di fronte alle esigenze di modernizzazione in nome del mercato; ma  proprio per questo non deve meravigliarlo che le sue posizioni suscitino altrettante reazioni di rigetto in quei settori e  in chi pensa – e tra questi mi metto anch’io - che del mercato si può avere una concezione che si discosta anche sensibilmente dai postulati neoclassici.
 
Ma non è neanche questo il problema che voglio sollevare. La verità è che le posizioni di Ichino e dei suoi diretti antagonisti, il giuslavorismo militante e di sinistra che fiancheggia in particolare la CGIL,  rischiano di schiacciare e mettere a tacere, almeno nella arena del dibattito pubblico  -  è quel che mi pare intende denunciare Marzia Barbera -  posizioni terze, più mediate e articolate ma per questo meno utilizzabili in un dibattito non strettamente scientifico, come quello che avviene nelle colonne dei giornali. 
 
Sono personalmente convinto che bisogna uscire dalla trappola epistemica in cui,  con assoluta   onestà intellettuale e con indiscutibile rigore intellettuale, sembrano costringerci giuristi come Pietro Ichino o come Nanni Alleva .
 
Per chiarire cosa intendo dire vorrei tornare sul tema su cui si è innestata la polemica Naccari/Alleva-Ichino ( vedi qui), vale dire la struttura contrattuale. Ho partecipato di recente ad un gruppo europeo, coordinato da Silvana Sciarra, che ha prodotto per la Commissione europea una serie di rapporti nazionali sulla struttura della contrattazione collettiva. Orbene, cosa emerge da questa ricerca rispetto al tema dell’alternativa accentramento/decentramento contrattuale?
 
Nei sistemi contrattuali nazionali  europei   è esperienza ormai diffusa quella di nuove funzioni assunte dalla contrattazione collettiva a livello decentrato, rispetto alla funzione tradizionalmente distributiva di reddito e del potere di controllo sulla prestazione di lavoro tipica del contratto nazionale.
 
La funzione,  per esempio,  di gestione delle crisi aziendali, della riorganizzazione dell’impresa anche attraverso la cessione di rami d’azienda,  o di concessione e di deroga dai trattamenti standard previsti dal contratto nazionale in cambio della difesa occupazionale,  ovvero  il governo in partnership dei mercati del lavoro e dello sviluppo locali (i patti sociali territoriali), ovvero  ancora la razionalizzazione dei trattamenti di coloro, non solo lavoratori subordinati ma anche sub fornitori, lavoratori indipendenti che entrano in relazioni reciproche nella rete di imprese , e via enumerando; sono fatti, esperienze che non riguardano solo l’Italia, e sono fatti ed esperienze che coesistono con il ruolo di coordinamento affidato al contratto nazionale.
 
Questo ampliamento delle funzioni della contrattazione decentrata può essere inteso nella alternativa binaria o come un vulnus alla funzione di regolazione uniforme e standard dei trattamenti affidata al contratto nazionale, ovvero come un necessario adattamento della contrattazione collettiva alle esigenze della competitività  e del mercato, in virtù di rapporti di forza ormai ineludibilmente spostati a favore delle imprese. L’esperienza empirica relativa all’evoluzione delle strutture contrattuali nazionali dimostra che inquadrare questi fenomeni in una siffatta alternativa è, appunto, una trappola. Vero è, infatti, come risulta dalla ricerca citata, che tutte le strutture contrattuali in Europa mostrano moduli di interferenza reciproca  tra i livelli, molto più complessi rispetto al passato; rivelano che le parti sociali individuano nuovi livelli   spaziali di  regolazione sia territoriali sia di impresa  (i distretti territoriali, le regioni, i gruppi e le reti di impresa). Dimostrano pure l’insufficienza dei criteri di raccordo tradizionali utilizzati per regolare la concorrenza e il conflitto tra diversi livelli negoziali (il principio gerarchico, il principio del favor, il principio cronologico) e la necessità di introdurne altri, molto più complessi e articolati.
 
Per esempio, le “clausole di apertura” a livello aziendale o territoriale in  Germania o le clausole di sganciamento  salariale in Spagna, altro non sono che meccanismi procedurali per legittimare la differenziazione di trattamento retributivo rispetto agli standard nazionali.
 
Queste tipologie di clausole possono essere intese alternativamente:
a) come lo strumento per mettere definitivamente in crisi la funzione d’eguagliamento del contratto nazionale, i suoi valori e le sue utilità  (la solidarietà tra lavoratori dello stesso stato, ma pure la competizione regolata tra le imprese in quel territorio);
b) ovvero, come l’unico strumento attraverso cui la contrattazione collettiva,  con i sindacati anche non di livello nazionale o meglio ancora direttamente con i rappresentanti dei lavoratori, possa adattarsi funzionalmente ai nuovi modelli di corporate governance delle imprese e  dei mercati locali, davanti alla sfida della competizione globale.
 
Questi meccanismi , ma si potrebbero citarne altri come le procedure di coordinamento nazionale della contrattazione decentrata (per esempio il procotollo del 1993 in Italia), potrebbero essere invece letti in una logica diversa, terza, alternativa alle due. Nella misura in cui mettono in moto meccanismi procedurali di controllo affidati per esempio ai sindacati o a commissioni paritetiche nazionali in grado di soppesare costi e benefici nel breve e medio periodo, essi introducono una logica procedurale in cui il bilanciamento degli interessi non si dà una volta per tutte, ma si misura in relazione ad obiettivi di adeguatezza sociale misurabili in relazione al raggiungimento o meno dell’obiettivo che si intende perseguire.  
 
Per cui, per tornare all’esempio precedente, le clausole in deroga sono legittime soltanto a condizione che introducano differenziazioni di trattamento retributivo compatibili o, comunque, tollerabili  con altri obiettivi sociali misurabili:  la difesa dell’occupazione esistente o, come in Italia  con i contratti formativi a livello aziendale, la creazione di nuova occupazione. Cosa per altro che il sindacato, almeno quello delle migliori tradizioni riformiste,  in Italia ha fatto da sempre e non ha bisogno di scoprire ora.
 
In altri termini, è la stessa legge o la contrattazione collettiva che attribuisce ai sindacati il compito di stabilire e governare, con norme procedurali, il punto di equilibrio storicamente adeguato tra interessi e diritti in conflitto, la cui legittimità è misurata ex post sulla base del raggiungimento dell’obiettivo sociale compensativo.
 
Come si vede uno schema di legittimazione della diversificazione regolativa per via contrattuale  molto più sofisticato e complesso di quella proposta  o rifiutata dalle due alternative dialettiche.
 
Tutto questo ha una ricaduta immediata sul dibattito in corso sulla struttura contrattuale. Sono personalmente convinto che l’idea forza del Protocollo del 1993 di operare un decentramento negoziale coordinato e organizzato dal centro regga ancora. E’ stata una delle ragioni del suo riconosciuto successo internazionale. E’ però altrettanto vero che la struttura di quel documento vada rivista: acqua è passata sotto i ponti sotto le guise di riforme istituzionali che mettono al centro le regioni nelle politiche del mercato del lavoro; e va seguita pure con attenzione la realtà nuova di un sistema di contrattazione di livello europeo che inizia, anche se lentamente, ad assumere una certa fisionomia.
 
E’ probable, allora, che proprio la dialettica del terzo escluso suggerisca di non mettere in discussione la funzione del contratto nazionale ovvero, all’opposto,  di confermarla così come essa è attualmente.  Si potrebbe allora lavorare, in sede di revisione del protocollo del 1993, proprio sui dispositivi in grado di rendere ancor più flessibile la struttura negoziale, aumentando il peso specifico dei livelli decentrati e del livello territoriale in particolare, tenendo conto del nuovo assetto istituzionale, senza rinunciare al ruolo di coordinamento e di fissazione degli standard dei livelli essenziali di trattamento del contratto nazionale; funzione che ritengo, in questa fase, ancora necessaria finchè non si valuteranno maturi i tempi politici per fissare altrove l’asse del coordinamento e riposizionare su nuove basi la dialettica organizzazione/differenziazione del sistema contrattuale.
 
Credo che su ogni tema, oggi presente  nella agenda dei giuslavoristi, occorrerebbe  provare a pensare utilizzando una logica “terza” –  che tenga conto del fatto che la realtà è più complessa di ogni  semplificazione giornalistica, mi rendo conto necessaria ma pur sempre tale; ma  la realtà è soprattutto più complicata di ogni alternativa binaria. Purtroppo o per fortuna (dipende dai punti di vista) la realtà e i modelli di regolazione che si possono auspicare, a partire dalle proprie personali convinzioni e visioni del mondo, non si riducono  ad alfa e omega.
 
 

 
Venerdì, 24. Marzo 2006
 

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