Contrattazione e accordi in deroga nel settore bancario

Trasformazioni organizzative, welfare aziendale, occupazione. Introduzione di Lorenzo Zoppoli ad un incontro di studio napoletano tenutosi il 10.12.2010 incentrato sulla testimonianza di Francesco Micheli sul caso Intesa Sanpaolo

Questo incontro è nato da una non frequente convergenza teorico-pratica alimentata da una profonda consapevolezza di un paio di grossi limiti del diritto sindacale  e delle relazioni industriali italiane: la refrattarietà rispetto ai disegni sistematici e la vocazione diffusa a procedere per esperienze e progressivi aggiustamenti. Non a caso qualche anno fa un maestro della materia (Romagnoli) parlava di un metodo di  costruzione assimilabile al bricolage, più che ai grandi progetti ben congegnati e in attesa di essere solo eseguiti.

 

Nell’incessante bricolage del diritto sindacale italiano si inseriscono però, con una problematicità aggiuntiva, i momenti di svolta, che siano le micro-discontinuità  (di cui parlava ancora Romagnoli nel suo bel libro “Il lavoro in Italia”) o le vere e proprie rotture, che spesso molti invocano e molti altri temono. Questi momenti si collocano variamente nelle vicende storiche della materia e del paese che la vive e la fa vivere; non di rado esse però si intrecciano con le grandi trasformazioni organizzative, cioè le trasformazioni dei processi organizzativi e/o dei prodotti e/o della loro distribuzione commerciale, che coinvolgono interi settori o comunque settori, imprese, strutture di grande importanza tanto socio-economica quanto simbolica. Prima o poi tutte queste grandi trasformazioni hanno riflessi di ampio raggio, influenzando leggi, contratti e comportamenti degli attori economico-sociali come degli individui. Il problema nasce però proprio da quel “prima o poi”: soprattutto oggi – una stagione in cui il tempo non concede tregua a niente e a nessuno – è assai importante cogliere tempestivamente quali riflessi possano avere tutte le grandi trasformazioni in atto, senza limitarsi a quelle che più facilmente raggiungono la ribalta dei mass-media o la vetrina della convegnistica prêt à porter e dei diffusori di instant book.

 

Nell’organizzare l’incontro di oggi, ci è parso che una grande trasformazione in atto poco osservata nei tempi giusti sia quella riguardante il settore delle aziende di credito, con particolare riguardo a quei gruppi che, come Intesa Sanpaolo, nel giro di pochissimo tempo hanno dato vita ad una formidabile esperienza di fusione-concentrazione, con enormi riflessi sulle relazioni sindacali e di lavoro. Sia chiaro, gli addetti ai lavori ne conoscono ogni minimo risvolto e hanno anche fatto sforzi notevoli per farli cogliere e capire. Ma non sembra che le problematiche che si sono presentate e le relative soluzioni – più o meno assestate, più o meno condivisibili – abbiano formato oggetto di adeguate riflessioni da parte degli studiosi e di un’opinione pubblica qualificata più ampia. Nasce così l’idea di questa giornata: una testimonianza di eccellenza su un caso di grande trasformazione sottoposta alla riflessione collettiva interdisciplinare di un gruppo di autorevoli studiosi.

 

Senza nulla togliere alla testimonianza che seguirà, mi limito a ricordare 6 punti di questa trasformazione  che, agli occhi del giuslavorista e non solo, meritano di essere oggetto di una più approfondita riflessione:

A)    considerato il contesto in cui da quindici anni a questa parte il sistema bancario italiano si è dovuto strategicamente riposizionare per riacquistare competitività attraverso ristrutturazioni e riorganizzazioni, processi di concentrazione dei gruppi e di privatizzazione degli assetti proprietari, innovazioni dei processi produttivi, dei prodotti e dei canali distributivi, è di straordinario interesse capire come, nella genesi di Intesa Sanpaolo - avvenuta si ricordi tra il 2006 e il 2007 – il sistema giuslavoristico ha consentito di governare i riflessi sui costi del lavoro, l’introduzione di nuove flessibilità, la modernizzazione delle relazioni sindacali e l’individuazione di strumenti di gestione delle risorse umane all’insegna dell’equilibrio sociale e del governo delle tensioni occupazionali. Molti dei termini appena utilizzati sono estratti di sana pianta dalla premessa al CCNL aziende di credito del 2007, oggi in via di rinnovo. Si potrebbe perciò più brevemente porre la questione così: quale verifica quella premessa ha avuto nel nostro odierno “case study” di IntesaSanPaolo?

 

B)    Uno dei problemi più rilevanti da affrontare nella fusione è stato, in una prima fase, quello di migliaia di dipendenti in esubero (6.500 stimati nel 2006). Lo strumento principale per gestire questo doloroso processo espulsivo è stato il Fondo di solidarietà di settore, uno strumento nuovo, operativo dal 2001 fino (salvo imminenti modifiche, ventilate ma ancora non attuate) al 2020. Con esso, com’è noto, si sono estesi al settore bancario gli istituti dei contratti di solidarietà e della cassa integrazione guadagni, sulla falsariga della normativa generale, ma anche con talune peculiarità. Il Fondo richiede una gestione consensuale a livello aziendale, gestione che ha conosciuto un’intensa e proficua sperimentazione nei processi di fusione che hanno riguardato prima separatamente  Banca Intesa e il Gruppo San Paolo e poi la loro ulteriore confluenza. E’ di estremo interesse ed utilità capire luci ed ombre di questo uso del Fondo (1), anche per avere elementi validi per meglio inquadrarne gli sviluppi, entrati in un’area di incertezza a seguito di un dichiarato intento dell’ABI di procedere ad una revisione  anticipata della sua disciplina, basata su accordi ma recepita in un decreto ministeriale (tra l’altro proprio mentre Unicredit ha annunciato altri 4.100/4.700 esuberi).

 

C)    Il caso di IntesaSanPaolo – come del resto vari altri: uno per tutti la BNL - è sembrato per vari anni potersi sviluppare senza grandi problemi nell’ambito  della cornice contrattuale disegnata per il settore a livello nazionale. Anche perché occorre dire che questo settore non è rimasto del tutto fermo ai protocolli generali del ’92-’93, aspettando una riforma della struttura della contrattazione che troppo ha tardato. L’impianto di fondo certo è rimasto pressoché immodificato (salvo un’anticipata triennalizzazione della durata del contratto), ma già un protocollo del 1997 faceva valere una serie di specificità. Quel protocollo è stato  poi seguito da un ulteriore interessante protocollo del 2004, in cui, tra le altre cose, il settore manifestava un particolare interesse per l’implementazione di prassi di Corporate Social Responsibility.

 

a.                              E’ vero però che – a guardare il contratto nazionale vigente (2007) – non sembrano esservi grandi spazi per una fisiologica espansione di una contrattazione decentrata più strettamente a ridosso dei processi di riorganizzazione.

b.                              E’ probabilmente questo limite che si è inteso affrontare aderendo da parte dell’ABI alla riforma della struttura della contrattazione del 2009, adesione che però si configura peculiare proprio con riguardo ai riflessi che la stessa può avere sulle prassi di relazioni sindacali unitarie del settore, prassi com’è noto non conformi a quella che ha generato la riforma del 2009, priva dell’accordo della Cgil.

i.                                                      Al riguardo va rilevato che la reale incidenza dell’intesa separata del 2009 sulla contrattazione di settore è ancora da verificarsi alla luce del rinnovo in itinere del CCNL. E non pare che il settore viva un momento di tensione particolare, se è vero che nel luglio scorso si è concluso un accordo importante sulla razionalizzazione dei permessi e dei distacchi sindacali che dovrebbe semplificare il  novero degli soggetti ed alleggerire i  relativi costi.

ii.                                                      E’ però anche vero che proprio in IntesaSanPaolo, non appena si è presentata l’esigenza di “accordi parzialmente in deroga al contratto nazionale”, immediatamente la rottura dell’unità si è riflessa sui firmatari di parte sindacale, trovando l’opposizione della FISAC Cgil. E da qui il fatto che gli accordi di febbraio, ottobre e novembre 2010, sono stati denominati dai mass media “Le Pomigliano del credito” (v. Il Foglio del 22.8.2010), quanto meno con una sensibile inversione dell’ordine cronologico degli eventi (l’accordo di Pomigliano è di giugno). L’etichetta è di sicura efficacia giornalistica. 

 

Prima però che essa assorba la specifica storia di Intesa SanPaolo, mi pare doveroso mettere in luce le differenze di genesi e, soprattutto di contenuti degli accordi. A quest’ultimo riguardo va rilevato che si tratta di accordi per il sostegno all’occupazione che si concretizzano in speciali condizioni per i neo-assunti presso specifiche infrastrutture (o siti) “dove si registrano importanti difficoltà occupazionali”. Le speciali condizioni consistono in una decurtazione del 20% dei minimi retributivi e del premio aziendale e in una parziale variabilità dell’orario di lavoro settimanale in relazione ai turni distribuiti su 5 o 6 giorni, condizioni tra l’altro correlate in gran parte alla stipulazione di contratti di apprendistato. Al più va aggiunta la clausola derogatoria della normativa sui trasferimenti (in particolare al limite dei 50 Km), intesa evidentemente ad una più agevole riallocazione degli assunti all’esaurirsi del quadriennio di “condizioni speciali”.

 

Con riferimento alla delineata sequenza di assunzioni “a condizioni speciali” con successiva “normalizzazione” dei trattamenti (tra l’altro prevista pure nel caso di assegnazioni ad articolazioni organizzative diverse da quelle indicate negli accordi) si è anche parlato di percorsi di flexicurity e di “contratto unico”. Mi sembra un tema interessante da riprendere.

 

D)    Con riguardo specifico agli accordi in deroga per il sostegno all’occupazione, mi pare molto importante analizzarli però nel dettaglio proprio in ordine alla loro configurazione “derogatoria”. I dubbi principali riguardano: a) quanto sono realmente in deroga?; b) per la parte in cui lo sono, come è stato possibile procedere alla loro stipulazione? Ci si è mossi nell’ambito degli artt. 23, 26 e 27 del CCNL?  Sono state queste norme a consentire di non porre affatto in discussione il quadro contrattuale nazionale, prospettando la necessità di uscirne subito (come invece ha fatto la Fiat)?

 

E)    Nel futuro si prevede la necessità di introdurre ulteriori ipotesi di deroga o, comunque, di sfruttare  le clausole previste dall’intesa separata del 2009 anche mettendo a rischio l’adesione della FISAC CGIL alla contrattazione nazionale e decentrata?

 

F)     Una contrattazione peggiorativa delle condizioni di lavoro e del clima di relazioni sindacali è compatibile con le istanze di Responsabilità sociale contenute nel protocollo di settore del 2004? O queste ultime cedono il passo all’urgenza di recuperare produttività rendendo fette di salario assai più variabili ovvero, come ha detto Mussari di recente, incorporando nel salario il rischio di impresa (Il Sole24Ore del 19.11.2010)? Potrei sbagliarmi, ma in questa affermazione si può cogliere anche l’eco di alcune scelte fatte da IntesaSanpaolo nell’elevare il più possibile le quote di salario flessibile. Entro certi limiti queste mi sono sempre parse scelte sacrosante. Ma, almeno in questa sede, possiamo chiederci se il pur necessario recupero di competitività del paese e del settore richieda davvero una trasformazione così profonda quale quella evocata dalle parole appena ricordate di Mussari, una trasformazione cioè tale da eliminare la barriera concettuale e pratica tra chi possiede e gestisce un’impresa e chi in essa si limita a lavorare, trascorrendovi parte della sua vita senza poter decidere o scegliere pressoché nulla del suo presente o del suo futuro. Quale ruolo di reale coinvolgimento nelle attività si immagina per il lavoratore, individuale e collettivo, una volta inserito con queste prospettive in un settore ancora così labour intensive? O, più realisticamente, l’attrazione delle modalità retributive nell’area del rischio riguarderà solo i dirigenti o i manager? Se però tali figure sono sempre più realmente esposte al rischio di impresa, è necessario introdurre per i loro compensi dei tetti, come pure ha detto Mussari?

 

 

 

3. Andando avanti con questi interrogativi, ho infine l’impressione di andare a toccare un tasto davvero dolente, sul quale molto insiste una analisi della grande crisi finanziaria degli ultimi due anni proposta da un recentissimo libro di R.A. Posner (La crisi della democrazia capitalista, Bocconi editore, 2010):  l’equilibrio tra mercato concorrenziale, che negli ultimi anni ha esaltato il rischio oltre ogni misura, e meccanismi regolatori che lo bilanciano. Secondo Posner è un eccesso di spinta al rischio – realizzata con una forte deregulation - che ha reso fragile il sistema finanziario, costringendo poi gli Stati a “scongiurare i disastri del mercato” (p. 256). L’analisi riguarda la realtà americana, che com’è noto è molto diversa da quella italiana soprattutto per i vincoli all’uso del capitale umano. Fatte le debite differenze, mi pare legittimo chiedersi però se proprio oggi, alla luce dell’esperienza americana, non sia utile che le regole del lavoro, anche e soprattutto nel settore creditizio radicato in Italia (dati diffusi ieri dall’ABI ci dicono che il settore ha un 96% di lavoratori a tempo indeterminato) , continuino a gravitare tra quelle che bilanciano un’eccessiva propensione delle aziende ad elevare sempre di più “la rischiosità degli investimenti”  (Posner, p. 257).  

 

1) Che tra l’altro dovrebbe aver riguardato una percentuale consistente del totale degli esuberi di settore, se è vero, come ha detto Giuseppe Mussari nei giorni scorsi, che nel complesso il Fondo ha permesso di pensionare 10.000 lavoratori in dieci anni; altre fonti però dicono almeno 30.000 - v. audizione del 25.12.2009 di Corrado Faissola, allora presidente ABI, in Commissione lavoro-Camera dei deputati – o addirittura 40.000 – v. comunicati di tutte le principali sigle sindacali del 1.1.2010.
Mercoledì, 29. Dicembre 2010
 

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