Contrattazione, decentrare per pagare meno

Dietro le proposte secondo cui bisogna passare al livello aziendale c’è l’ipotesi di una nuova compressione dei salari e delle condizioni di lavoro, come dimostra anche l’esperienza del “modello tedesco”

Sono in molti gli economisti, sindacalisti, esperti di relazioni industriali, che affermano da tempo che la strada per aumentare la produttività nel nostro paese – che da troppo tempo cresce troppo poco – sarebbe un decentramento della contrattazione collettiva a livello d’impresa ed un maggiore collegamento delle retribuzioni alla produttività. E si indica il modello tedesco come quello virtuoso, che avrebbe consentito le notevoli performance dell’economia tedesca. Da ultimo anche autorevolissime personalità come il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi e Lorenzo Bini Smaghi, del board della Bce, hanno indicato questa strada che rappresenta, tra l’altro, la base teorica anche delle scelte di Cisl, Uil e del governo. Ma con tutto il rispetto dell’autorevolezza delle personalità citate, vorremmo modestamente far rilevare che non sembra che l’analisi dei fatti supporti queste ipotesi.

L’effetto della contrattazione decentrata in Germania non è stato quello di aumentare le retribuzioni ma di ridurle. Secondo i dati forniti (in un seminario insieme alla Fondazione Pastore – vicina alla Cisl – del 10 marzo scorso) dalla Fondazione Hans Boeckler, nell’ultimo decennio le retribuzioni di fatto in Germania sono aumentate sistematicamente meno delle retribuzioni contrattuali (nel 2009 sono addirittura diminuite anche in termini nominali, determinando così per la prima volta un wage drift (slittamento salariale) negativo.

Figura 1 – Germania: un decennio di wage drift negativo  - Salari Reali

Fonte: Fondazione Hans Boeckler

La ragione di questi andamenti negativi viene individuata nella larga diffusione di accordi di riduzione delle ore lavorate (qualcosa di simile alla nostra Cigs, anche se con caratteristiche diverse) – in particolare durante la recessione del 2008-2009 – com’è accaduto del resto nella grande maggioranza dei principali paesi europei. Ma questo non spiega l’andamento negativo delle retribuzioni di fatto negli anni precedenti.

Sempre secondo i dati della Fondazione Hans Boeckler, l’andamento negativo delle retribuzioni di fatto rispetto a quelle contrattuali sarebbe da attribuire, da una parte, alla diffusione dell’utilizzo delle clausole d’uscita, agli accordi per l’occupazione, insomma all’insieme di accordi che con l’obiettivo di difendere o accrescere l’occupazione, hanno introdotto delle deroghe dai contratti collettivi soprattutto per quanto concerne i salari e gli orari di lavoro; e dall’altra alla riduzione della copertura della contrattazione collettiva – passata, nella Germania Ovest, dal 76% del 1998 al 65% del 2009 (nonostante la lieve ripresa degli ultimi anni) – dovuta alla scelta di molte imprese di uscire dalle rispettive organizzazioni datoriali.

D’altra parte, l’ultimo bollettino mensile della Bce ha reso esplicito che l’obiettivo della diffusione della contrattazione decentrata, lungi dall’esser quello di un aumento dei salari, è quello di “assicurare che il processo di contrattazione dei salari ne consenta il flessibile e appropriato adeguamento alle condizioni di disoccupazione e alle perdite di competitività”.

Dunque – nonostante che fosse sembrato che tutti avessero capito e fossero d’accordo, almeno questa volta, che il problema non era quello del mercato del lavoro ma quello dei mercati finanziari i quali lungi dall’autoregolarsi, come avrebbe voluto la teoria economica monetarista, hanno portato il mondo alla più grave crisi finanziaria della sua storia – secondo la Bce il problema torna ad essere quello del costo del lavoro.

Ma c’è da notare che se in Germania quello del contenimento del costo del lavoro può essere un problema in quanto in quel paese è il terzo più alto del mondo (nonostante un decennio di moderazione salariale), in Italia – dopo quasi un ventennio di moderazione salariale  - il costo del lavoro (vedi Tabella 1), risulta al 21° posto tra i primi trenta paesi Ocse, al di sopra soltanto di Islanda, Portogallo ed i paesi del blocco ex socialista. D’altra parte era sembrato che tutti fossero d’accordo – a partire dalla Banca d’Italia – che i salari in Italia fossero troppo bassi.

Tabella 1 – Costo del lavoro, retribuzioni lorde e nette – Euro a parità di potere d’acquisto

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Ocse, Taxing Wages 2008-2009

Ma l’enfasi sulla contrattazione decentrata sembra dimenticare che in Italia dall’accordo del luglio ’93 è prevista formalmente (sostanzialmente anche da prima) la contrattazione dei premi di risultato, cioè di una quota di retribuzione legata ai risultati d’impresa e che la contrattazione decentrata lungo tutti gli anni ’90 è stata concentrata proprio intorno al salario variabile e alla flessibilizzazione della prestazione lavorativa a partire proprio dagli orari di lavoro (flessibilità plurisettimanali, banca delle ore, utilizzo degli impianti). Il problema semmai è che nonostante un’ampia diffusione della contrattazione di secondo livello ed una notevole intensità di contrattazione, il salario contrattato a livello aziendale non ha mai superato – nonostante i numerosi incentivi spesi – la soglia del 5% dell’insieme della retribuzione: non credo che si possa attribuire un esito del genere al sindacato ed alle rappresentanze aziendali. Sembra più realistico attribuirlo ad una resistenza delle imprese ad erogare salario aggiuntivo, tanto più se contrattato.

L’altro problema che si manifesta è che la contrattazione decentrata, piuttosto che diffondersi si restringe: secondo i dati dell’indagine di Banca d’Italia, nell’Industria in senso stretto, le imprese con più di 20 dipendenti con almeno un accordo sottoscritto nel periodo, negli anni ’90 erano il 43% ed i lavoratori coinvolti il 64%; negli anni 2000 quelle percentuali sono scese rispettivamente al 30% per le imprese e al 54% per i lavoratori. Visti i trend in atto sembra difficile tornare ai livelli degli anni ’90.  Anche l’analisi del Cnel segnala, infatti, una drastica caduta del numero di accordi annui per impresa, tra quelle che fanno contrattazione (vedi Figura 2). Questi dati sono relativi alle imprese con almeno 500 dipendenti: nelle imprese tra 100 e 500 la caduta è ancora più radicale. In quelle tra 20 e 100 la situazione è ancora peggiore.

Figura 2 -  La percentuale di accordi annui nelle imprese che fanno contrattazione del campione del Cnel, con almeno 500 dip.

Fonte: Contrattazione collettiva del settore privato nel 2009,  Cnel, luglio 2010

Anche in questo caso sembra difficile attribuire la caduta della diffusione e dell’intensità di contrattazione al sindacato ed ai lavoratori: anche qui sembra più realistico pensare ad una propensione in questo senso delle imprese.

D’Altra parte non sembra che l’accordo di Pomigliano parli di aumento dei salari, ma di intensificazione dei ritmi di lavoro, di riduzione delle pause e dei diritti, con tanti saluti a tutti i discorsi sulla “via alta alla competizione”, sull’economia della conoscenza, sulla qualità del lavoro, sulla partecipazione ed il coinvolgimento dei lavoratori, sulle cosiddette “new forms of work organization”: qui si ripropone il più duro taylorismo, con il suo bagaglio di impoverimento del lavoro, ripetitività, stress, fatica. Altro che job enrichment and enlargement.

La cosa peggiore è che questo avviene sulla base di una divisione sindacale che sembra far tornare le relazioni sindacali indietro di cinquant’anni.

Giovedì, 16. Settembre 2010
 

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