Concetti da rottamare

Le riforme e il loro specchio, le controriforme, sono ormai parole vuote che riflettono un'attività tanto frenetica quanto inutile ad un reale sviluppo

Rottamazione di concetti forti: riforme, controriforme

Osservando ciò che accade nel mondo, specificamente da una trentina d'anni, si ha l'impressione che quando un sistema socioeconomico si avvia alla decadenza si fa un gran parlare di riforme, di controriforme, dell'intreccio tra riforme e controriforme.

E' la preservazione delle riforme un valore o un disvalore? E' un quesito che ne tira un altro: come si distingue una riforma da una controriforma? Ricordiamoci che per due volte la chiesa cattolica ha riformato se stessa alla grande, prima contrapponendo a Valdo di Lione l'ignaro S. Francesco, poi contrapponendo a Lutero e Calvino il meno ignaro Concilio di Trento. Sembra quindi che ciò che per gli uni è riforma per gli altri può essere controriforma. Ne discende che in sé riforma e controriforma sono parole vuote, o meglio ciclicamente equivalenti, che si qualificano, quando si qualificano, solo per i contenuti, quando ci sono.

Ci sono invece dei valori che il corso della storia ha prodotto e che vanno preservati,  da riforme e controriforme. Se un sistema di valori si è affermato e se è rimasto vitale per lungo tempo, e per restare vitale ha dovuto evolvere per quanto necessario, è bene preservarlo, come si è preservato ad esempio, de minimis, in Umbria un ex opificio divenuto un eccezionale museo Burri. Quando gli islandesi hanno creato il primo parlamento democratico al mondo (che le forme rappresentative della Grecia democratiche non erano) non hanno certo sentito l'evento come una riforma, ma come la graduale evoluzione di uno spirito di eguaglianza e libertà insito nei loro animi e nella loro tradizione culturale. Riforma e controriforma sono termini che si attagliano invece a chi è rimasto indietro e, rispetto alla graduale evoluzione di altri, individui o popoli, capisce di essere rimasto indietro e di dover recuperare il tempo perduto.

E l'Italia indietro è rimasta, fino alla magica stagione degli anni '50, che ha visto una trasformazione epocale dell'economia e della società civile del paese, che, al tempo,  nessuno si è sognato di definire riforma. La parola riforma, o meglio riforme al plurale, per facilitarne la spendibilità minuta, è stata usata ed abusata successivamente, quando una serie infinita di governicchi e di maggioranze a geometria variabile ha portato gradualmente sulla china del regresso quello stesso paese che, senza quasi rendersene conto, aveva vissuto un rapido salto nel proprio legittimo futuro. 

La stessa cosa è avvenuta parallelamente a livello mondiale: l'affermarsi della teoria economica keynesiana, che, al tempo, non si è definita una riforma dell'economia, ma tout court l'economia adatta al suo tempo, ha trascinato il mondo per un trentennio in una stagione di sviluppo mai prima verificatosi, ma vanificatosi gradualmente a partire dagli anni '70.

In ambedue questi casi, Italia e mondo, si fa da alcuni decenni grande uso e spreco del termine riforma, anzi riforme al plurale, quasi a descrivere un lavoro di Sisifo, che porta in cima al monte una riformina, per poi abbandonarla, in posizione instabile a metà china, per correre a rotolare in su la riformina successiva, mentre quella precedente scivola lentamente di nuovo in giù per l'accavallarsi di casualità che vengono esaltate come espressioni non di disordine ma di libertà dei mercati.

Si riformano le Nazioni unite, che intanto vanno a rotoli; si riformano le istituzioni economiche mondiali - FMI, Banca Modiale, WTO - che intanto hanno perso ogni ragione d'essere; si riforma l'Unione Europea, modesta caricatura degli accordi di Bretton Woods del 1944, peraltro ancora non compiutamente realizzata; si riforma il mercato del lavoro, rendendo più poveri i lavoratori dei paesi avanzati, senza redimere quelli che vivono nei paesi più poveri, che sempre più poveri diventano.

In quest'orgia di riforme e controriforme, in questa notte della ragione, ogni parte politica vuole portare avanti le sue riforme ed abbattere le riforme che la parte avversa ha faticosamente varato, per vedersi cassare le proprie al successivo giro di boa. Nella fatica brutale della sostituzione di singole riforme alle controriforme degli altri e di riparare i guasti creati inevitabilmente da questo flusso continuo e scoordinato di riformine e riformette, nessuno più osa pronunciare la parola programma, perché la sente incongruente, troppo impegnativa e implicitamente interrogativa nei riguardi della produttività e del senso stesso delle riformette.

Nessuno o pochi saprebbero rispondere oggi all'interrogativo fondamentale: che cosa conservare di quanto ricevuto in eredità, non già, se non marginalmente, dalle malefatte dell'avversario, ma soprattutto dalla naturale ed inarrestabile evoluzione della società umana. La democrazia, ridotta alla mera alternanza di due clan di potere che sempre più si somigliano, spinge non tanto a programmare quel che si farà ma a distruggere quel che è stato fatto dal clan nemico.

Con queste premesse, un po' più gridate di quanto sarebbe elegante e sensato (ma tanto pochi vogliono sentire), il termine conservazione viene esorcizzato confinandolo là dove meno sarebbe sensato applicarlo, alla conservazione del paesaggio antropizzato, che è un non senso, in quanto da tempo paesaggio, pure già largamente antropizzato, e processo di ulteriore antropizzazione sono divenuti due termini antitetici. Sembra che non ci sia più un centimetro di territorio la cui conservazione non entri in contraddizione con le esigenze dello sviluppo economico o perfino con quelle di mantenimento del livello di sviluppo già raggiunto.

In conclusione, se non si riprende in mano un programma di equilibrata strategia dello sviluppo socioeconomico, non appare possibile una conciliazione tra tutela dell'ambiente e sviluppo economico. La tutela dell'ambiente non si può fermare alla difesa di un'oasi naturale qua e un monumento là  (azioni singole pur necessarie e giuste), ma deve procedere dalla adozione di un modello di sviluppo che prima di tutto non faccia troppo soffrire gli uomini e di conseguenza, solo di conseguenza, li induca a un maggior rispetto dell'ambiente, che è l'ambiente nel quale vivono. E' infatti difficile per chi  ha fame, di pane o di televisori, rifiutare gli ogm che promettono di nutrirlo con i pochi centesimi di cui disporrà da vecchio o preoccuparsi in quale discarica vadano a finire i suoi abbondanti ma miseri rifiuti.

Bisogna invece saper buttar via senza appello quel che non serve, o peggio è nocivo, sulla base di valutazioni semplici e, se occorre, iconoclastiche.

Un esempio emblematico in due interrogativi correlati:
- Domanda: l'applicazione delle teorie monetaristiche ed il loro sbocco naturale in un mercato globale, talmente senza regole da sentire il fastidio anche della mera e inoffensiva esistenza in vita delle Nazioni Unite, ha portato a uno sviluppo economico e sociale adeguato alle potenzialità attuali della razza umana? Domanda lunga, risposta corta: no
- Domanda corta: e invece? Risposta lunghissima: per avere una risposta bisogna prima porsi il problema e  sembra che tra riforme e riformine pochi trovino il tempo per cominciare a ragionarci sopra.

Infine iconoclastico perché? Disponiamo ormai nel nostro portafoglio, che ispezioniamo di tempo in tempo alla ricerca dell'ottimo, di tante belle immaginette, di cui cito alcune: l'apertura del mercato mondiale o globale (alle merci ma non ai lavoratori); la flessibilità del mercato del lavoro (reiventando la precarietà nella vita di molti se non tutti); la scaletta secondo la quale i Parlamenti chiacchierano, i governi propongono, i mercati decidono (ma chi sono precisamente "i mercati", le Borse o solo la principale di esse, quella di New York?); la difesa della pace (mediante la guerra); la solitudine dell'Islam quale oppio dei popoli arabi (e le altre religioni?). Ogni immagine (icona) ha un suo rovescio, altrettanto quando non  più negativo.

Riforma e controriforma non sono infatti altro che immagini, pallide e menzognere ombre di realtà molto complesse, costituenti fasi successive, più consequenziali che opponibili, di processi di evoluzione dei sistemi reali, fisici o politici. L'iconoclasi che si è manifestata, in tempi e con risultati diversi, in tutte e tre le religioni monoteiste - ebraica, cristiana e mussulmana - consiste infatti nella percezione che la realtà - nel caso delle religioni trascendenti - non  è rappresentabile per immagini, cioè per sintesi estremamente semplificative. E se questo è improponibile al livello delle religioni, sistemazioni grossolane e approssimative del continuo evolversi del genere umano, figuriamoci se lo può essere al più raffinato e complesso livello della filosofia della storia. Eppure anche il pensiero laico conosce la tentazione della semplificazione grossolana e speditiva, che ai nostri giorni va sotto il segno del binomio riforme/controriforme. Serve oggi un'iconoclasi laica, una specie di regola morale da tutti accettata, che vieti a chiunque, pena la gogna, di argomentare su qualunque tematica, centrale o marginale, per riforme e controriforme.

Marcello Paolozza

Giovedì, 22. Dicembre 2005
 

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