Concertazione: segni e significati

Questo metodo di confronto sembra essere stato trattato più per il suo significato simbolico che per i suoi contenuti effettivi; e anche ora, con il centro sinistra, non è chiaro se sia stata superata questa fase. In ogni caso, dovrebbe essere chiaro che "concertazione" è diverso da "consultazione" e che a richiedere questo modo di procedere è proprio l'evoluzione della società
Il dibattito pubblico sulla "concertazione" ha più a che fare con la semiotica (studio dei segni) che con la semantica (studio dei significati). In effetti, se si prende in considerazione la sospettosa diffidenza, per non dire l'esplicita ostilità, del centrodestra verso la concertazione non si sfugge alla convinzione che essa costituisse un "segnale" che l'azione del suo governo sarebbe stata costantemente orientata su alcune stelle fisse. Tra queste brillavano in particolare i propositi: di scaricare silenziosamente sul lavoro i costi dell'aggiustamento economico e finanziario; di ridimensionare il ruolo ed il potere di intervento del sindacato; di privilegiare l'individualismo e la competizione, rispetto alla solidarietà ed all'eguaglianza. I risultati pratici di questa concezione politica sull'economia reale sono sufficientemente noti. Non c'è quindi bisogno di insistervi.

Di "segno" opposto il lessico politico del centrosinistra. Esso ritiene infatti che, per tentare di uscire dalla grave crisi economica e sociale, il Paese abbia bisogno di adottare misure rigorose capaci di conciliare però equità e sviluppo. Condizione questa giudicata imprescindibile per ricercare una "strategia di consenso sociale". Naturalmente le modalità del consenso possono essere varie. Si può trattare infatti di un consenso: parziale o totale, in relazione all'ampiezza della concordanza ed al numero dei soggetti che lo esprimono; condizionato od assoluto, in relazione ai singoli obiettivi; tattico o strategico, in relazione alle finalità ultime; formale o sostanziale, in relazione al tipo di adesione; espresso o tacito, in relazione alla forma; attivo o passivo, in relazione al comportamento. Tutte modalità sperimentate, tanto nelle più limitate esperienze di "concertazione", che in quelle ben più consolidate della contrattazione tradizionale. Sia settoriale che aziendale. Esperienze dalle quali si può anche trarre un insegnamento importante. Vale a dire che "la contrattazione non è solo somma, ma è anche scambio".
In ogni caso, proprio per acquisire l'indispensabile "consenso", il centrosinistra ritiene che lo strumento adatto sia la "concertazione".
 
Tutto chiaro allora? Non proprio. Perché al di là di là del "segno" (restiamo però sempre nel campo della semiotica) di evidente discontinuità con la linea di comportamento del governo Berlusconi, meno chiaro è cosa concretamente il centrosinistra intenda quando parla di "concertazione".

Infatti, per il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa Schioppa, la "concertazione è ascolto". Perché i fin dei conti la decisione spetta "esclusivamente" a chi governa. La formula non è piaciuta ai rappresentanti sindacali. Tuttavia non ha dato luogo ad alcun incidente perché lo stesso ministro dell'Economia si è affrettato a dichiarare di essere stato "frainteso". "Alla concertazione io credo davvero, perché voglio la massima coesione sociale", ha detto invece Prodi ai segretari di Cgil, Cisl ed Uil,  nel corso dell'agape che si è svolta a Palazzo Chigi il 12 giugno. Ai suoi commensali il premier ha però indicato anche quelli che, a suo giudizio, sono paletti invalicabili. In particolare: "La concertazione non è un diritto di veto. Con la concertazione ciascuno si assume diritti e doveri". Affermazione ovvia. Trattandosi di un possibile accordo, tra due o più parti, con il quale ciascun contraente assume delle obbligazioni. Naturalmente nel caso che il negoziato vada a buon fine. Il che però non può mai essere assunto come un "a priori". Insomma, non è mai sufficiente sedersi allo stesso tavolo per considerarsi d'accordo.

Rimane perciò una ambiguità di fondo che sarebbe meglio chiarire. Altrimenti si rischia di provocare indesiderati cortocircuiti. Bisogna quindi sgombrare innanzi tutto il campo da un possibile equivoco. Che cioè la "concertazione" possa essere intesa più come sinonimo di "consultazione" che di "negoziazione". Ora, anche se non si condivide l'opinione (probabilmente un po' estremistica) di chi ritiene che "consultare significa domandare a qualcuno di essere del nostro parere", resta pur sempre il fatto che la "consultazione" non può assolutamente essere scambiata con la "concertazione".

Se dunque dal piano dei segni si vuole passare a quello dei significati non si dovrebbe ignorare che "concertare" deriva dalla parola latina composta da cum "con" e concertare "discutere, disputare, contendere". E' perciò evidente che una disputa, una contesa, una controversia, una contestazione può essere risolta solo con un accordo. Ovviamente, se l'intesa non si realizza ciascuno è autorizzato a rimanere della propria opinione e ad agire di conseguenza. Capita nella vita. Può capitare anche nei rapporti sociali e politici. Inutile dire che le possibilità di accordo sono maggiori quanto maggiore è la propensione delle parti alla mediazione, al compromesso, rispettosi del principio di equità.

A questo proposito però i critici della concertazione sollevano un problema. Perché mai - essi si chiedono - il potere politico (che bene o male è l'espressione della sovranità popolare) dovrebbe impegnarsi a ricercare accordi, ad attuare uno "scambio politico" con le organizzazioni sociali, sia dei lavoratori che delle imprese? Essi temono che uno scambio triangolare tra governo, organizzazioni sindacali ed imprenditoriali, comporti il rischio di una confusione istituzionale ed anche un serio pericolo di involuzione neocorporativa. E' una preoccupazione che viene espressa soprattutto dalla cultura di destra. Ma non solo. Vale quindi la pena  cercare di chiarire alcuni dei termini essenziali della questione.

Le moderne democrazie occidentali sono dominate dalla logica delle grandi organizzazioni. Dalle grandi imprese, ai grandi sindacati, ai grandi movimenti collettivi (a cominciare da quelli per la difesa dell'ambiente e del territorio), all'apparato dello Stato. La grande organizzazione è la risposta alla crescente complessità della società moderna, ma è al tempo stesso fonte di nuova complessità. E' infatti difficile, per non dire impossibile, indirizzare e gestire la politica economica se invece di un governo dell'economia ce ne sono tanti. Perché è pur vero che lo Stato dispone della politica fiscale (a cui in passato si aggiungeva anche quella monetaria), ma le imprese dispongono della politica dei prezzi ed i sindacati di quella salariale. E' dunque indispensabile una conciliazione. Non si possono quindi non vedere i limiti e la sostanziale inadeguatezza delle impostazioni concettuali di teorie economiche e  del ruolo dello Stato (che alcuni scambiano per "principi perenni") elaborate in contesti storici, socioeconomici e culturali del tutto diversi da quelli nei quali  viviamo.

In ogni caso, il dato nuovo della situazione si esprime nel fatto che lo Stato non è più in grado di sostenere il capitalismo (come ha fatto stabilmente tra ottocento e novecento) con il protezionismo, le barriere doganali, gli aiuti alle industrie belliche e (nell'ultimo quarto del secolo scorso) con i crediti agevolati, le fiscalizzazioni, i trasferimenti alle imprese. Né sussistono più le condizioni che gli consentono di favorire l'incontro tra imprese e sindacato con una sua mediazione nei conflitti di lavoro, usando la leva di un livello crescente di spesa sociale ed un livello di domanda pubblica funzionale a sostenere l'offerta. Perché questa linea di condotta, già problematica in passato, oggi è del tutto impraticabile di fronte ad una crisi che (in particolare in Italia) ha ridimensionato, per non dire completamente annullato i tradizionali margini di mediazione della politica.

Dunque, proprio per questo lo Stato, attraverso il governo che lo rappresenta, non può sottrarsi alla necessità di cercare di definire con le parti sociali le linee della politica economica ed un governo coerente dei diversi aggregati dell'economia in funzione degli obiettivi di risanamento nell'equità e di ripresa dello sviluppo. La "concertazione" serve appunto a questo. Non ad altro. Ma, proprio per questo, essa non può quindi essere ridotta a rito inconcludente, a perdita di tempo, ad un modo come un altro per fare un po' di "fumo con la manovella". Tutte cose di cui non si sente affatto il bisogno. Perché, anche se si usa dire che "non bisogna perdere tempo", il rischio vero è che sia "il tempo a perdere noi".

Quindi, se la concertazione non si risolve in cerimonia, in pura formalità, ma corrisponde ad una precisa necessità, essa non può che mettere in discussione i paradigmi su cui si è costituita la dottrina dello Stato a cavallo tra ottocento e novecento: primato dello Stato sulla società; primato della legge sul contratto; scambio politico esclusivamente con le imprese; presunta capacità autonoma dello Stato di indirizzare la condotta economica e sociale; presunta capacità di dirimere autoritariamente il conflitto sociale. Essa costituisce, al contrario, una modalità per cercare una possibile soluzione rispetto alle illusioni di chi pensa che sia possibile governare le società complesse e fortemente strutturate mettendo in mora il problema del necessario consenso sociale; o immagina impossibili semplificazioni, come l'assorbimento totale della gestione del conflitto sociale nel processo politico.

Attenzione però. La concertazione è soltanto un metodo, una modalità. Non è la "pietra filosofale" che consente di pervenire alla "pace sociale perpetua", o alla definitiva scomparsa del "conflitto sociale". Anche perché essa esige una centralizzazione delle relazioni sociali che non può essere  sostenuta indefinitamente. Se non a rischio di tensioni e lacerazioni che possono diventare incontrollabili. A ben vedere però la durata temporalmente circoscritta delle reciproche obbligazioni non può essere considerato un limite di cui preoccuparsi. Perché  il problema delle società moderne e democratiche non è affatto quello del definitivo superamento del conflitto. Ma semmai quello della predisposizione di appropriati (e diversificati) canali di interlocuzione e di soluzione del conflitto stesso quando esso incontra motivi reali per manifestarsi e farsi valere. La "concertazione" è dunque una modalità per affrontare, in un confronto triangolare, particolari situazioni di crisi, diversamente non risolvibili.

Per altro, contrariamente a ciò che alcuni sembrano pensare, essa non è una intuizione particolarmente nuova. In effetti la concezione "contrattualistica" da cui trae origine la "concertazione" non è affatto una invenzione culturale e politica recente.  Essa ha radice antiche e piuttosto solide. E' evidente, tuttavia, che la realtà in cui si pone oggi l'esigenza della concertazione presenta un quadro radicalmente diverso rispetto al contesto in cui sono nate le teorie contrattualistiche  classiche di Hobbes, Locke, Rousseau (che, per altro, esprimono tre idee diverse ed opposte di Stato: assoluto, liberale, democratico) il cui vigore teorico ha quindi solo una pallida eco nel neo-contrattualismo contemporaneo nel quale spicca il contributo di J. Rawls (A Teory of Justice). Per altro, poiché le teorie contrattualistiche, antiche e moderne, restano pur sempre una sorta di involucro vuoto che può essere riempito di contenuti diversi, è opportuno tenere presenti alcune rilevanti differenze tra il contrattualismo classico ed il neo-contrattualismo contemporaneo.

Se infatti il problema fondamentale dei "giusnaturalisti" era quello di trovare un fondamento razionale alla costruzione dello Stato e del potere politico, per i neo-contrattualsti il problema cruciale diventa quello della giustizia e della società giusta.  Se nel contrattualismo classico i soggetti che davano luogo al contratto erano sempre soggetti individuali, nel neo-contrattualsmo i contraenti non sono più gli individui, ma i gruppi sociali organizzati. Nella società della vecchia concezione liberale l'autorità degli organi dello Stato si esprimeva in norme e comandi legittimati esclusivamente dai procedimenti parlamentari. Mentre nella attuale realtà quotidiana l'autorità degli organi statuali, pur non contestata in linea di principio, appare impotente senza il consenso ed il sostegno dei più importanti e consistenti gruppi sociali organizzati. Ecco perché un certo numero di decisioni diventano, in diversa misura, oggetto di scambio politico tra gruppi detentori di quote di potere politico, economico o sociale. In questo nuovo quadro si ripropone (seppure su basi e con contenuti diversi rispetto a quelli immaginati da Rousseau) l'esigenza di un "contratto sociale". Inteso sostanzialmente come modalità di governo delle società capitaliste contemporanee.

In questo nuovo quadro economico, sociale e politico, la categoria del contratto diventa quindi fondamento di legittimità dell'azione dello Stato che viene sviluppata mediante l'accordo tra forze politiche, sindacati dei lavoratori e delle imprese, gruppi di pressione. La logica del contratto, che per sua natura è un misto di cooperazione e conflitto, costituisce la vera trama dei rapporti di potere nelle società contemporanee. La crisi di legittimità delle istituzioni induce quindi a "restaurare" l'autorità per via contrattuale e vede nello scambio tra equità, consenso, impiego delle risorse pubbliche, obbiettivi e qualità dello sviluppo, la possibile via d'uscita per la crisi di governabilità delle società complesse.
 
Il neo-contrattualismo è perciò un concreto tentativo di risposta ad una situazione di crisi, di vincoli, di difficoltà, che sollecitano una soluzione contrattuale a problemi, altrimenti non regolabili. Si può anche dire che, in una fase di dispersione e lacerazione sociale, la ricerca di un continuo adattamento del contratto sociale, più che rinviare alla genesi della società politica (come la pensavano i giusnaturalisti) soddisfa il bisogno (nel mutato contesto storico) di un ri-cominciamento, di una ri-fondazione complessiva delle moderne società complesse e fortemente contrassegnate dalla presenza di grandi organizzazioni collettive. Per questo la "concertazione" diventa una modalità di governo economico e sociale sempre più frequentata. Sia sul piano teorico, che di fatto. Soprattutto in Europa. Anche se naturalmente con differenze che riflettono: il diverso orientamento politico dei governi, delle maggioranze che li sostengono, della gravità dei prolemi che devono essere affrontati.

Inutile dire che, come metodo di regolazione dei rapporti e dei conflitti sociali, il neo-contrattualismo è una forma sostanzialmente alternativa alla concezione neoliberista e monetarista,  che ha dominato il campo. In particolare negli ultimi due decenni del secolo scorso. Il neoliberismo attribuisce infatti al mercato la capacità esclusiva di governo del sistema economico-sociale. Con la conseguenza ovvia di una selezione sociale prodotta dalla logica del mercato dei fattori produttivi. Così forze di lavoro non idonee (anziani, non qualificati, lavoratori non riconvertibili, ecc.) sono costrette ad abbandonare il lavoro aggiungendosi all'esercito di donne e giovani che non riescono a trovarlo.
 
Selezione del mercato, centralità dell'impresa, riduzione della protezione sociale, hanno costituito i corollari che hanno accompagnato ovunque le politiche neoliberiste. Sulla base delle implicazioni etico-politiche di questo indirizzo, la selezione tra forti e deboli, capaci ed incapaci, coraggiosi e pavidi, fortunati e sfortunati, diventa inevitabile. Far avanzare i forti ed abbandonare i deboli e gli indifesi (affidati soltanto alla benevolenza di un "compassionismo caritatevole") diventa, oltre che una scelta politica, in qualche modo persino un precetto etico. Ogni forma di egualitarismo, di solidarietà, di protezione dei più deboli viene considerata non solo uno spreco di risorse, ma anche un incentivo all'appiattimento dei singoli ed al declino delle responsabilità. I costi sociali di questa ideologica sono però giustamente considerati sempre più intollerabili e, per questo, sempre più largamente contestati. La "concertazione" diventa quindi, nella forma e nella sostanza, l'alternativa per cercare di contrastare i rischi di una crescente e tendenzialmente incontrollabile disgregazione sociale.
 
Ma, proprio per questo, ritornando in particolare al caso italiano, si capisce bene che il neo-contrattualismo e la sua modalità pratica di attuazione, vale a dire la "concertazione", non può essere inteso come l'equivalente di un sedativo, un "Lexotan" che il governo somministra di tanto in tanto a gruppi sociali più irrequieti, nel tentativo di tenerli buoni. Né può essere semplicemente inteso come un comportamento di buon senso da contrapporre alla arroganza ed alle illusorie pretese di autosufficienza. Che hanno costituito la discutibile cifra del governo Berlusconi. Non a caso dimissionato dagli elettori.

Infatti, anche se si tratta semplicemente di un metodo esso assume rilievo pure sul piano dei contenuti. Si può persino dire della filosofia politica. Non fosse altro perché  implica una idea di rapporti Società-Stato profondamente diversa rispetto alla concezione politica a cui si ispira la destra. Una ragione più che sufficiente per dare "significato" alla concertazione. Innanzi tutto utilizzandola a proposito. Per temi appropriati. In particolare, quando si tratta di: decidere circa la distribuzione dei costi del risanamento della finanza pubblica; aggiornare gli assetti del Welfare State; assicurare l'equilibrio e le compatibilità tra i diversi aggregati economici in funzione di una maggiore occupazione e di una crescita quantitativamente e qualitativamente migliore.

Senza stare a farla lunga. Per essere ragionevolmente certi di fare un uso appropriato della "concertazione" occorre un costante impegno per trasferirla dal piano della semiotica a quello della semantica. Cioè da quello dei "segni" a quello dei "significati". Il che, tra l'altro, esige che vengano osservate alcune essenziali "istruzioni per l'uso". In particolare si dovrebbe sempre tenere conto che la concertazione è appunto un metodo per affrontare, in un "negoziato" triangolare, problemi in altro modo non risolvibili. Negoziato nel quale ciascuno dei soggetti contraenti scambia con gli altri delle obbligazioni, chiaramente definite. Anche nella loro durata. Cosa che, detto per inciso, nel recente passato purtroppo non è sempre avvenuta. Il che ha prodotto significativi inconvenienti.
 
Si dovrebbe inoltre tenere sempre bene presente che la "concertazione" è  altra cosa rispetto alla contrattazione settoriale e di categoria. Essa infatti non può essere confusa con una sede di appello e, men che meno, una discarica nella quale rovesciare il contenzioso di tutti problemi irrisolti (ed, a volte, nemmeno affrontati a livello di categoria, o di azienda) inerenti i rapporti di lavoro. Problemi che, al contrario, è opportuno conservare nella esclusiva competenza delle relazioni contrattuali di categoria o di azienda. Inclusi quelli che riguardano la scelta tra i diversi tipi di rapporto di lavoro. Che, come in qualche misura confermano i contratti dei bancari e del commercio, è sempre più sensato regolare a livello settoriale che generale.

In definitiva ed in estrema sintesi, per fare buon uso della concertazione, si dovrebbe sempre tenere presente la illuminante risposta del gatto Cheshire ad Alice, Quando infatti Alice gli chiede: "vorresti per favore dirmi quale strada devo  percorrere da qui?" Il gatto le risponde: "Questo dipende da dove vuoi andare". Appunto! La discussione sulla congruità dei mezzi rischierebbe infatti di diventare oziosa se restasse separata da quella, assolutamente decisiva, di "dove si vuole andare". 
Giovedì, 29. Giugno 2006
 

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