Come può cambiare una Torino senza l'auto

Il filo principale (non unico) della “terziarizzazione” della città dovrebbe collegarsi alla transizione post-manifatturiera dell’industria, ricca di attività mentale e di contenuti relazionali

Quando è esplosa la questione Fiat, tra gli amici, politici o sindacalisti, ho registrato due tipi prevalenti d'interpretazione: una che vede la crisi terminale della Fiat come un’apocalisse, una catastrofe per i lavoratori, per l’area torinese, per il sistema industriale e una, opposta, che, pensando soprattutto a Torino, afferma che la città ha ormai già metabolizzato la crisi della Fiat ed è ormai avviata a darsi una nuova cultura, una nuova struttura sociale più pluralistica e post-industriale.
Questa polarizzazione, sovente anche molto polemica, mi lascia perplesso e dubbioso. Questi interrogativi e il legame biografico con la città mi hanno condotto a programmare qualche viaggio a Torino ed ho incominciato a parlare con persone e a raccogliere carte. Devo confessare che ho cercato di evitare proprio gli amici politici e sindacalisti, visto che, più o meno, sapevo già quello che pensavano.

Erano i primi giorni di novembre e la crisi della Fiat con le sue immediate conseguenze sull’occupazione dilagava sui media. Sono andato a Torino per cercare di avere notizie dall’interno del Lingotto sull’impresa stessa. Molto presto mi sono fatto questa convinzione: la Fiat come grande multinazionale dell’auto a competizione globale non è più in grado di reggere. Si trattava di vedere quali siano le possibilità di ripiegamento, le linee di resistenza.

Mi ero trovato ad esaminare la crisi Fiat dell’80 da un osservatorio privilegiato. Rappresentavo l’FLM nel comitato tecnico per il Piano auto presso il Ministero dell’industria. Mesi di discussione ravvicinata con Patrizio Bianchi, Mattioli (Fiat) e Massacesi (Alfa). Nelle analisi e nelle discussioni di venti anni fa si potevano già scorgere i rischi del futuro della Fiat. I punti di scontro con la Fiat che si manifestavano erano molto significativi: l’insistenza sulla innovazione di processo e la netta sottovalutazione dell’innovazione di prodotto, l’incomprensione del fatto che la sfida decisiva dell’auto del futuro sarebbe avvenuta nei mercati dell’Europa e degli Stati Uniti e non in quelli del “secondo mondo”. La necessità di alleanze industriali internazionali.

Allora la Fiat aveva deciso di progettare e costruire il motore “Fire” con la Peugeot e si pensava che questo fosse l’avvio di una convergenza con la casa francese per reggere la competizione internazionale. In quei primi anni 80 era impressionante la sottovalutazione del fattore umano nella produzione e l’utopia del “tutto automazione” all’insegna dello slogan “zero uomini = zero difetti”. E poi sappiamo come è andato il problema della qualità in Fiat.

Insomma è inutile rifare la storia della Fiat: questa crisi viene al termine di una lunga vicenda di sbandamenti, di errori della proprietà, di logoramento del management… L’uscita dei due ingegneri, Carlo De Benedetti e Ghidella, e la resistibile ascesa del finanziere Cesare Romiti sono tappe di una traiettoria che può, in parte, spiegare l’attuale Caporetto industriale degli Agnelli.

La Fiat è una multinazionale che produce due milioni di auto ed è esposta ad una competizione feroce: quando non si vola si precipita. Non è possibile per un’ impresa di queste dimensioni “galleggiare” troppo a lungo. Un’ impresa che perde colpi, un management allo sbando e la proprietà che vuole scappare. Una convergenza rapida e contrattata verso la General Motor mi pare che rappresenti ormai una strada obbligata. La mia opinione è che più si rinvia più si perde forza contrattuale.

Si può e si deve contrattare con gli uomini di Detroit. E in questa contrattazione il peso dell’autorità pubblica nazionale conta.

A Torino si deve salvare in primo luogo il know-how sedimentato in una lunga storia di cultura industriale e concentrato in alcuni poli di eccellenza che sono il Politecnico di Torino, il Centro ricerche Fiat e l’Isvor-Fiat. Quest’ultima è una struttura molto qualificata di formazione professionale e manageriale. Per un’area in transizione come quella torinese il bisogno di formazione permanente è fortissimo. Ma a Torino esistono altre strutture internazionali di formazione manageriale che, entrando in cooperazione sinergica con l’Isvor, possono realisticamente far crescere in questa città un centro di formazione di rilevanza europea.

E’ decisiva per Torino la salvaguardia e lo sviluppo del distretto industriale della componentistica disseminato soprattutto nei comuni della cintura. Sono 75 mila gli addetti in queste imprese, mentre i dipendenti diretti della Fiat a Torino forse non raggiungono i 15mila. Il 70% di un’automobile viene ormai costruito fuori dai recinti della grande fabbrica di assemblaggio. E nelle fabbriche di componenti ci sono tecnologia, capacità di progettazione e managerialità diffuse e dinamiche.

Nel dicembre del 2002, nel pieno della crisi Fiat, è stata fatta una indagine congiunturale sulle piccole e medie imprese del settore auto della provincia di Torino. Vi sono alcuni indicatori interessanti. La quantità della produzione fornita a Fiat-auto cade pesantemente ( flette di oltre il 20% nel 50% delle imprese ). Nell’insieme però non si registra una caduta del fatturato corrispondente a quella flessione. Infatti il 19% delle imprese del campione hanno diversificato la loro produzione verso altri costruttori di auto, mentre il 54 % si è diversificata verso altri settori. Questo sta ad indicare una tendenziale autonomizzazione di queste aziende dalla Fiat.

Detto questo non c’è però da stare tranquilli. Questa tendenza all’autonomia potrebbe venire compromessa e generare forti crisi se dovesse cedere bruscamente lo zoccolo, più o meno alto, delle forniture alla Fiat. Qui si richiede soprattutto l’intervento di politiche industriali: credito, disseminazione di tecnologie innovative, orientamento e sostegno alla ricerca di nuovi mercati, investimenti in infrastrutture logistiche e di comunicazione…

La situazione della componentistica a me sembra che possa riassumere la più generale e paradossale situazione di Torino in questo momento: c’è una realtà economica, sociale e culturale che è in viaggio per andare oltre l’antica dipendenza dalla Fiat, però questo viaggio di emancipazione per proseguire ha bisogno di evitare una perdita troppo brusca e traumatica della presenza Fiat.

Il modo in cui avviene la gestione del ridimensionamento della persistenza della Fiat a Torino e l’intelligenza dell’iniziativa politica sono decisivi per tracciare quella linea del Piave che serve come pedana per lanciare un diverso futuro di Torino, futuro che è comunque altamente problematico: non necessariamente catastrofico e non positivamente garantito.

Dal punto di vista sociale, il problema principale sta nel Mezzogiorno.

A Torino c’il problema di ripensare l’utilizzazione per la produzione di quella smisurata area industriale che è Mirafiori. Già ora la metà dei lavoratori che sono dentro Mirafiori non sono dipendenti diretti della Fiat-Auto. La chiusura di Mirafiori aprirebbe un immenso buco nero a Torino. Non è un problema solo di numero di cassa-integrati. Il tasso di disoccupazione oggi a Torino è del 6%. Il problema è più di fondo: Torino non è in grado di “saltare” nel cosiddetto post-industriale, Torino può solo “evolvere”. L’aggancio a processi produttivi di punta è essenziale.

I drammi comunque sono a Termini Imerese, a Cassino, nel Sud...

Certo, la crisi della Fiat non fa riflettere solo su Torino , ma anche su dove va l'industria italiana. La Fiat viene dopo l'Olivetti, viene dopo la Montedison, viene dopo la siderurgia, viene dopo l'industria alimentare italiana, viene dopo la farmaceutica…

La crisi della grande impresa in Italia si accompagna alla crisi e alla dismissione di importanti centri di ricerca applicata, di focolai dell’innovazione. Andiamo verso l’allargamento smisurato degli spazi economici perdendo punti di forza interni al nostro sistema. Non è detto che questa tendenza comporti necessariamente un declino dell’economia, un regresso dei livelli di benessere. Il centro-nord dell’Italia può evolvere come ricca provincia del cuore economico dell’Europa, può essere una agiata periferia.

Che cosa questo comporti per la vita civile e culturale di questa parte del paese non lo so.

Più preoccupante potrebbe essere il futuro di un Mezzogiorno che diventasse la periferia di un sistema periferico.

Torino, comunque, è già profondamente cambiata. Chi da trent’anni non abita più e non vive più in questa città avverte il mutamento in un modo molto più secco di chi ha sperimentato la transizione in modo graduale, giorno dopo giorno. Subito dietro piazza Statuto, dove c’erano la Michelin e le Ferriere Fiat, ora abbattute, si apre uno spazio vuoto immenso, nel cuore della città, che va sino alla Savigliano (altra grande fabbrica dismessa). E’ vertigine e spaesamento. Da Porta Susa alla stazione Dora la vecchia città è scomparsa insieme aprendosi e ricomponendosi.

Comunque tornando a Torino si vive un’ esperienza piuttosto contraddittoria. Da una parte l’ossessione della Fiat che dismette, disattiva, svuota e dall’altra la visione di una città messa sottosopra dalla onnipresenza di gru , di ruspe e scavatrici in attività.

Convergono oggi in modo congestionato vecchi programmi in ritardo nell’attuazione ( bonifica delle aree industriali e realizzazione del passante ferroviario), grandi lavori dell’oggi come la costruzione della metropolitana , l’anticipata e affrettata realizzazione degli interventi legati alle Olimpiadi del 2006.

Il volto della città si rovescia. Torino ha un piccolo centro storico e monumentale spostato verso la riva del Po oltre il quale si alza immediatamente la collina. La ferrovia che viene da sud, da Genova, entra nel centro di Torino a Porta Nuova e poi sale immediatamente verso Porta Susa svoltando ad est per indirizzarsi verso Milano. In questo modo la ferrovia accerchia molto da vicino tutto quanto il vecchio centro storico. Quasi tutte le città sono in qualche modo tagliate, segmentate dalla ferrovia. Ma questa ferrovia che passa dentro Torino ha avuto il ruolo di una vera e propria spina dorsale sulla quale si sono innestate le costole delle fabbriche e dei loro magazzini: dal Lingotto a sud, alla Spa Centro e alla Lancia di Borgo San Paolo, alle Ferriere Fiat, alla Michelin e alla Savigliano verso la Stazione Dora in direzione Milano.

Il sistema delle fabbriche era dentro la città ed era strutturato attorno alla linea ferroviaria. Ora con la costruzione del passante ferroviario, cioè con la copertura dell’anello della strada ferrata e con il recupero delle aree delle dismesse strutture industriali, è come se dalla vecchia città si togliesse la lisca con tutte le sue spine, le vertebre con tutte le costole: la città diventa completamente plasmabile, può essere ridisegnata senza limiti.

Certo uno rimane impressionato da questi cambiamenti, ma un’ inquietudine si insinua: tanti spazi, tante possibilità, ma quali forze nuove invaderanno questi spazi, chi sarà ad approfittare di tante possibilità? Torino è una ex capitale dell’auto, Torino è una città che dalla fine degli anni 70 ha perso quasi il 30% della sua popolazione. Se uno pensa all’esplosione di uffici e laboratori avanzati, alla fioritura edilizia di Sesto San Giovanni, ha l’impressione che la circolazione sanguigna sia un po’ troppo lenta e faticosa nelle nuove arterie di Torino. Ho sollevato questo interrogativo ai miei amici torinesi: ”Mi avete convinto: state costruendo una fiammante carrozzeria urbana; il vecchio trattore della Torino della fatica produttiva sta diventando una nuova spider, ma siete sicuri che essa avrà poi un motore all’altezza delle ambizioni? E quale sarà? “

Nella ristrutturazione del Lingotto, il grande stabilimento del 1923, realizzata da Renzo Piano, si possono leggere tutte le contraddizioni della Torino-Fiat. Quelle del presente, del passato e del futuro. Questo edificio, che è sempre stato considerato come il simbolo della modernità americana innestata in Italia e in Europa, in realtà esprime molto bene quel progresso con ritardo, quella razionalità limitata e distorta che sono proprie dell’americanismo in versione sabauda.

Il Lingotto imita lo stabilimento di Ford costruito a Higland Park nel 1910. E’ una fabbrica a struttura verticale di cinque piani. Però mentre nello stabilimento di Ford il flusso della produzione “scivolava” dall’alto verso il basso, in quello di Torino il flusso andava in salita: si partiva dal piano terra e poi i pezzi e le parti venivano portati nei piani superiori. Al quinto piano avveniva il montaggio finale. L’automobile veniva poi collaudata sulla pista che sta sul tetto e successivamente scendeva a terra lungo le belle rampe elicoidali. Mi pare ovvio che per salire ci vuole più energia che per discendere. Non solo. Negli stessi anni 20 il sistema di fabbricazione fordista trovava finalmente la sua struttura architettonica nella fabbrica orizzontale di River Rouge. Pochi anni dopo la costruzione della fabbrica del 1923 i torinesi furono ossessionati dall’idea di avere “un Lingotto ad un solo piano”. Arriverà nel 1939 con il nuovo stabilimento di Mirafiori. Eppure questa impropria e faticosa fabbrica fordista a cinque piani (che a me richiama sempre gli stabilimenti tessili biellesi dell’800) è rimasta attiva sino al 1981.

Anche oggi, guardando il profilo esterno del Lingotto, non si sfugge all’impressione di trovarsi di fronte alla strana commistione della fabbrica americana con una gigantesca caserma piemontese. La “palazzina del comando” al centro e in avanti. Dietro gli alloggiamenti per la truppa schierati in monotono ordine gerarchico.

Lorenzo Piano ha interpretato e sviluppato la verticalità gerarchica di questo edificio aggiungendo due “guglie” che si elevano oltre il tetto. Una “cupola” di cristallo e di acciaio (con pista d’atterraggio per l’elicottero) che è il luogo esclusivo del top che dall’alto tutto può vedere e che dal basso è visto come quello che sta in alto. L’altra guglia d’acciaio innalza lo “scrigno” della Pinacoteca Gianni e Marella Agnelli. L’aristocrazia della cultura che sta a fianco dell’aristocrazia del comando. Qui si parla di una dinastia ed è esclusa la storia collettiva del sapere tecnico e del lavoro di Torino.

Certamente la ricca polifunzionalità delle nuove strutture interne sorprende ed affascina. La vasta sala dei Congressi, l’area immensa (e sottoutilizzata) delle esposizioni fieristiche, l’esclusivo albergo con 240 stanze, un chilometro di gallerie per lo shopping, lo straordinario auditorium, il supermercato Pam, il cinema multisala, l’area del Politecnico, gli uffici, nei piani superiori, di società e di istituti bancari…

Fa impressione vedere questo vecchio contenitore di dura fatica e pesante disciplina, nel quale si è forgiato il fordismo all’italiana col sistema Bedaux e il regime fascista, ora trasformato in un centro di fruizione della musica e dell’arte, del cinema e dei mille oggetti del consumo di massa.

Però non si sfugge ad una impressione di sforzo, di fatica nel collocare dentro questa che vuole essere una vetrina del futuro il problematico ed incerto presente di Torino. C’è un deficit in questa pretesa di esibire una Torino “post-moderna” che proprio ancora non c’è.

E’ ovvio che un’area ossessivamente mono-industriale si deve differenziare, ma pensare che la terziarizzazione a Torino significhi inventare una città che possa vivere di turismo, cinema e cultura mi sembra un poco folle.

Sono troppo schematiche le contrapposizioni tra vecchia e nuova economia, tra produzione materiale e produzione immateriale, tra hardware e software. Per ora gli effetti più dirompenti delle nuove tecnologie elettroniche e informatiche consistono nel rendere nuova la cosiddetta vecchia economia, intellettualizzando e terziarizzando l’industria e iniettando dosi massicce di software a monte, a valle e all’interno dei processi hard. Il filo principale (non unico) della “terziarizzazione” di una città come Torino dovrebbe collegarsi a questa transizione post-manifatturiera dell’industria, ricca di attività mentale e di contenuti relazionali. Ciò richiede un nuovo collegamento tra cultura alta scientifica, tecnica e nuove forme dell’economia. Ai tempi del decollo industriale di Torino fu determinante la presenza e il ruolo di scienziati come Galileo Ferraris che conduceva in Inghilterra e in America Camillo Olivetti a studiare i nuovi modi di fare industria.

E’ vero che nella realtà torinese esistono fermenti che vanno in questa direzione: design, progettazione, vari servizi all’impresa, attività informatica, centri importanti di formazione La mia impressione è che tutto ciò stenti a farsi sistema. E’ difficile liberarsi di un passato tanto maestoso e schiacciante.

Tornano alla mente gli anni 80, anni durissimi. La sconfitta operaia dei 35 giorni del 1980 con 24mila operai in cassa integrazione e subito dopo la chiusura del Lingotto. In un decennio più di 50mila operai uscirono dalla Fiat. Disoccupazione a due cifre, disadattamento, disagio psico-sociale, esclusione.

Lo spessore materiale, la dimensione esistenziale del trauma degli anni 80 è stato in larga parte assorbito. I problemi che si pongono ora mi sembrano di altra natura, di mutamento di paradigma culturale, di ricerca di identità, di riorientamento al futuro.

Nel 1986 Arnaldo Bagnasco pubblicò un “profilo sociologico” di Torino. Nonostante gli scossoni dei primi anni 80 allora Torino risultava essere ancora un “metropoli di produzione” segnata da due caratteristiche essenziali: la estrema polarizzazione sociale e la prevalenza socio-economica dell’organizzazione sul mercato.

Tra borghesi e operai erano relativamente pochi “quelli che stanno nel mezzo”. Se in quegli anni Bagnasco rilevava un incremento della fascia mediana la vedeva crescere soprattutto all’interno di strategie di difesa dei redditi e dell’occupazione, nel commercio e nell’artigianato. E’ vero che, dopo che la grande spugna della Fiat aveva espulso forza-lavoro, a Torino finalmente si trovavano idraulici ed elettricisti. La bella azione di recupero del vecchio centro storico degradato (la zona di via Barbaroux, di via S. Agostino, attorno a Palazzo di Città) con la folla attuale di piccoli ristoranti, pub, negozi sfiziosi, testimonia certo un flusso vivace e intelligente di piccole e medie iniziative private.

Ma non è questa la direzione principale della terziarizzazione di Torino. “Quelli che stanno nel mezzo” sono cresciuti moltissimo. Chi sono? Sarebbe tempo di riscrivere “il profilo sociologico” di Torino.

La Torino fordista si manifesta soprattutto come una economia e una società “organizzate”: in essa la regolazione burocratica e gerarchica prevale sul libero, rischioso e concorrenziale gioco di mercato.

Detto in parole povere a Torino quasi tutti “lavoravano su ordinazione”. E per un unico committente: la Fiat. Tutti erano “dipendenti”: le imprese dell’indotto e i lavoratori di Mirafiori, i “liberi” professionisti e i giornalisti della Stampa. Le dinamiche di una società di “dipendenti” sono fortemente cicliche: lunghe fasi di disciplinata acquiescenza e momenti di alta conflittualità libertaria. Questa dialettica radicale di subalternità e combattentismo in fondo denunzia la fragilità di un ampio tessuto di esperienze durature di libertà praticata nel “far da sé”, di autonomia sociale consolidata sia nelle forme del far da sé individualistico dell’imprenditore sia nel far da sé solidaristico dell’associazionismo autogestito.

Per concludere è necessario precisare che questo discorso riguarda soprattutto la “piccola Torino”, quella chiusa entro i confini anagrafici del capoluogo con i suoi 850 mila abitanti.

Abbiamo appena sfiorato, parlando della componentistica, i problemi dei 52 comuni delle due cinture industriali dell’area metropolitana. Non abbiamo parlato della Provincia di Torino dove esiste ad esempio un caso Ivrea, vulnerata dalla perdita della Olivetti.

La crisi Fiat lancia onde lunghe con conseguenze e risposte differenziate nei diversi contesti.

Forse, a questo punto, occorrerebbe incominciare un altro discorso.

Venerdì, 21. Febbraio 2003
 

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