Come fare un federalismo che costi meno

Se si procedesse con criteri razionali e non politici, bisognerebbe tener conto delle "economie di scala" (e dunque attuare aggregazioni di Regioni) e "economie di varietà", che riguardano la sinergia delle funzioni svolte da uno stesso ente. Il prevalere dell'uno o dell'altro aspetto nei diversi casi dovrebbe essere deciso da un organo come la Conferenza Stato-Regioni

Il terremoto de L'Aquila, con il suo funebre corteo rappresentato da un pesante tributo di sangue e da un insieme di danni ad edifici forse sopravvalutato (magari ad arte, al fine di dimostrare la straordinaria capacità del governo di far risorgere dalle ceneri l'Araba Fenice) ci induce a porci questo interrogativo preliminare. Se il federalismo fiscale fosse stato già in vigore, la tempestività e l'efficacia degli interventi di emergenza sarebbero state maggiori o minori? La stessa domanda potremmo porci per i futuri programmi di ricostruzione.

 

Nel frattempo il cammino della legge quadro sulla riforma federale procede in apparenza senza intoppi, anche per l'estrema genericità del disposto legislativo, che, non presentando quantificazioni di sorta, si presta al gioco tutto italiano delle molteplici interpretazioni di un medesimo testo. Tuttavia se questo schema non resterà lettera morta - come auspicano alcuni apertamente e molti altri tacitamente - verrà il momento dei decreti attuativi. Qui i nodi verranno al pettine.

 

Sugli aspetti economico-finanziari della riforma federale - quel che viene chiamato federalismo fiscale - i dibattiti non si sono mai spenti da decenni. Per molto tempo, anche alla luce di una ricerca degli anni '80 della Fondazione Agnelli, ha prevalso la tesi - supportata dall'esperienza della istituzione delle Regioni - che il federalismo avrebbe aggravato i costi della gestione della cosa pubblica.

 

Nell'originaria impostazione dell'attuale disegno di legge sembrava inoltre che le differenze interregionali fossero destinate ad accentuarsi. A questo secondo aspetto è stato posto rimedio con le numerose modifiche proposte dal PD, dall'UdC e da esponenti della stessa maggioranza. Cosicchè, almeno formalmente, l'architettura istituzionale appare abbastanza equilibrata.

 

Secondo i più accesi sostenitori della riforma, inoltre, il federalismo fiscale sarebbe addirittura fonte di risparmi di spesa tramite l'eliminazione degli "sprechi" di "Roma ladrona". Queste argomentazioni appartengono al filone un po' infantile e un po' furbesco del "Principe dei Tornelli", che ritiene di poter raddrizzare i conti pubblici colpendo le impiegate che rientrano in ufficio con la sporta della spesa, mentre senatori e deputati, in barba alle incompatibilità, cumulano l'indennità parlamentare con laute prebende pubbliche.

 

Alcuni studiosi, però, politicamente non partigiani, si sono posti il quesito se esistano le condizioni per cui un'organizzazione federale dello Stato possa conseguire una razionalizzazione dei flussi di spesa e un perfezionamento del meccanismo dei controlli, realizzando così un aumento dell'efficacia a pressione fiscale costante o, in alternativa, addirittura una diminuzione della stessa. Un altro filone di pensiero - su cui tornerò fra breve - riguarda un riesame in chiave economica dell'antica proposta leghista delle macro-regioni.

 

Riprendendo quanto da me accennato in precedente articolo, è opportuno distinguere nel flusso di spese, sia regionali che dello Stato centrale, quelle attinenti a funzioni soggette alle economie di scala e quelle correlate alle economie di varietà. Le prime si manifestano con una riduzione dei costi unitari all'aumentare del volume della produzione o degli acquisti. Esempio tipico quello della maggiore economicità delle centrali di acquisto rispetto a consumatori, pubblici o privati, "segmentati".

 

Le economie di varietà, invece, si manifestano con la polifunzionalità: uno stesso centro operativo svolge una molteplicità di funzioni, fra loro sinergiche o comunque legate da una comune piattaforma di costi costanti. Un esempio caratteristico è quello di un'industria casearia che produce contemporaneamente latte intero, scremato, in polvere, ricotta, burro, formaggio, yogurth. Potremmo dunque ipotizzare che, al fine di razionalizzare nella direzione dei minimi costi le funzioni operative regionali, esse siano coordinate in modo da graduare il livello di aggregazione a seconda del prevalere dell'uno o dell'altro tipo di economia.

 

Si tratterebbe dunque di dar vita ad una "programmazione federale funzionale". L'organo di coordinamento potrebbe essere costituito da un centro tecnico alle dipendenze della Conferenza Stato-Regioni-Enti locali. Sarebbe un vero e proprio Comitato Interregionale per la Programmazione Economica, che riecheggerebbe l'originario CIPE nel quale la P stava per programmazione e non per l'attuale più generico termine politica.

 

E' evidente che quando prevalgano le economie di scala la programmazione funzionale farà capo ad organismi centrali o interregionali; quando prevalgano quelle di varietà, le funzioni verranno connesse a centri a livello regionale o anche sub-regionale. Ricordando sempre però che esiste un livello minimo, superiore a quello del pulviscolo dei piccoli comuni.

 

Il secondo aspetto, quello delle macro-regioni, merita un'attenzione specificamente economica, e non politica. Come noto, l'art. 132 della Costituzione prevede che si possa, con legge costituzionale, disporre la fusione di Regioni esistenti, su proposta di Consigli comunali che rappresentino un terzo delle popolazioni interessate e dopo l'esito positivo di un referendum che rappresenti la maggioranza delle popolazioni stesse. L'articolo era stato a suo tempo invocato dal defunto prof. Miglio per un immaginifico progetto di tre macro-regioni con valenza dichiaratamente politica separatista e con scarso collegamento con la realtà economica.

 

E' interessante riesaminare il problema sotto il profilo squisitamente economico nell'ottica dello sbocco al mare e nel quadro di una logica infrastrutturale. Un principio della fisica stabilisce che, a parità di livello della tecnica, soprattutto nel trasporto di merci, la quantità di energia necessaria per unità di peso è massima per il trasporto aereo; va diminuendo per quello via terra (rispettivamente per rotolamento-autostrade o scivolamento-ferrovie) ed è minima per quello fluviale o marittimo. Ne consegue che per realizzare aggregazioni regionali che soddisfino appieno il criterio della minimizzazione dei costi della logistica per quanto concerne l'impiego di energia per unità di peso, le Regioni dovrebbero avere tutte accesso al mare.

 

Se si volesse adottare questo criterio, il Triveneto dovrebbe inglobare Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli; il Piemonte e la Val d'Aosta dovrebbero fondersi con la Liguria, la Lombardia avere un accesso al mare alla foce del Po, recuperando, tramite una rinnovata idrovia padana, il ruolo medievale di Milano come grande porto commerciale; l'Umbria potrebbe o aggregarsi alle Marche o gravitare su Civitavecchia, inglobando nella Provincia di Terni parte della Maremma laziale.

 

Superfluo ricordare che la programmazione funzionale, per essere e rimanere tale, deve essere e rimanere elastica. Ciò significa che al mutare degli insediamenti, degli stili di vita, dell'economia turistica, del livello della tecnica anche nel settore dei trasporti, le funzioni mutano, al fine di essere sistematicamente ottimizzate. Ciò implica una mentalità aperta al cambiamento delle classi dirigenti regionali, senza chiusure campanilistiche di alcun genere. Se vogliamo concludere con uno slogan, si tratterebbe di una programmazione "delle regioni per le regioni", perchè l'organo tecnico-economico farebbe capo ad un organismo (quello della Conferenza) nel quale la presenza dello Stato centrale, pur importante, non è decisiva, come si è constatato in occasione della prima edizione del “piano casa”.

Domenica, 26. Aprile 2009
 

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