Come far virare la globalizzazione a sinistra

Idee per un programma/ Finora la strategia è stata difensiva e perdente: non serve a nulla inseguire i nuovi concorrenti deteriorando le condizioni di lavoro. Da dove partire per tornare a sperare nel futuro

Il programma di una forza politica di centro-sinistra - sia essa un partito o una coalizione di partiti e movimenti - non può eludere il tema della globalizzazione e delle sue conseguenze per Paesi permeati da cultura, tradizioni, valori propri dell'Europa continentale ed, in primo luogo, dell'Italia. Il tema è centrale perché la globalizzazione ha investito tutti, la vita di tutti, le condizioni del successo ed i motivi dell'insuccesso, il quadro di riferimento all'interno del quale ciascuno affronta la propria vita di lavoro e, dunque, la propria vita tout court, la sua collocazione nella comunità in cui vive, la programmazione e la formazione di una famiglia, la sua realizzazione di individuo. È dunque un tema che non può essere eluso, poiché condiziona, ad evidenza, ogni disegno di futuro che una forza politica intenda proporre.

Se si dovesse attribuire alla globalizzazione una etichetta che ne definisca la natura politica, occorrerebbe attribuirgliela di destra. La globalizzazione è di destra per la sua origine, per i processi attraverso i quali si va realizzando, per le politiche che direttamente o indirettamente induce. Per il suo aspetto politico, la globalizzazione così come la concepiamo oggi nasce dai processi di liberalizzazione degli scambi di beni, di capitali e di conoscenze realizzati o indotti negli anni '80 dalla amministrazione Reagan negli Stati Uniti e dal governo presieduto dalla Tatcher nella Gran Bretagna. L'assunto di quei processi era un ampliamento al mondo intero dei mercati dei beni, dei servizi, del lavoro, dei capitali in modo che ogni attività potesse essere svolta da chi fosse in grado di provvedervi alle condizioni più convenienti per l'utilizzatore; ne sarebbero derivati un trasferimento delle produzioni a più bassa tecnologia nei Paesi emergenti dove i costi sono più ridotti, e nei Paesi più evoluti  una spinta verso l'innovazione e la produzione di beni e servizi più sofisticati e, dunque, a maggiore valore aggiunto: insomma un eldorado nel quale tutti avrebbero potuto progredire verso un maggiore benessere.

Non rilevava in questa costruzione teorica il fatto che le comunità nazionali avrebbero perso molto della possibilità di governarsi, ma questa connotazione era coerente con la natura, appunto, di destra di quell'indirizzo politico. Una natura generata dalla convinzione che una evoluzione guidata dalla oggettività delle logiche di mercato fosse più efficiente di quella che avrebbe potuto realizzare la soggettività delle scelte di natura politica, per definizione corrotte, o corrompibili, da valutazioni estranee al perseguimento della massima efficienza nell'impiego delle risorse. È appena il caso di rilevare che la concezione della efficienza era ed è riferita a parametri meramente materiali - il Pil, il costo del capitale, il controllo dell'inflazione, la pressione fiscale, gli utili delle imprese - senza riguardo alcuno per ciò che materiale non è - l'equità distributiva, la serenità sociale, il sistema di tutele, la programmabilità della vita, i patrimoni acquisiti di conoscenze e di esperienze -.

Del binomio promesso dal liberismo - bassa tecnologia ai Paesi emergenti e accelerazione dell'innovazione nei Paesi più evoluti - è stato realizzato solo il primo elemento. Il combinato disposto dell'abbattimento delle barriere doganali, della forte riduzione del costo dei trasporti e della diffusione della telematica ha consentito ai Paesi emergenti di imboccare con decisione, spesso con irruenza, la via della crescita economica. Centinaia e centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà e dall'indigenza grazie al fatto che hanno potuto trasformare in forza competitiva la convenienza dei costi determinata sia  dalle condizioni di arretratezza, sia da fattori culturali ed ambientali.

Non è stato realizzato, o lo è stato solo in parte, il secondo termine del binomio promesso, ossia un salto qualitativo ed innovativo dell'attività produttiva dei Paesi evoluti tale da compensare la perdita delle produzioni a favore dei Paesi emergenti. Questo termine della promessa non è stato realizzato perché i produttori dei Paesi evoluti non hanno lasciato ai Paesi emergenti le produzioni più mature ed a più bassa tecnologia per dedicarsi a produzioni più sofisticate ed a maggiore valore aggiunto. Se lo avessero fatto, avremmo potuto attribuire alla globalizzazione una connotazione di sinistra perché davvero il processo avrebbe determinato una crescita culturale, politica e sociale dei Paesi emergenti, spingendo nello stesso tempo i Paesi più evoluti verso livelli di innovazione e di progresso più avanzati.

I produttori di questi ultimi Paesi, invece, hanno sostanzialmente continuato la loro consueta attività limitandosi ad avvalersi, loro, dei più bassi costi che era possibile ottenere in Romania, in India o in Cina trasferendovi tutte le attività a più alta intensità di lavoro, non solo le manifatturazioni, ma anche i centri di calcolo, i servizi informatici, lo sviluppo dei disegni esecutivi e molte altre funzioni ad eccezione, beninteso, di quelle di più alto livello.

Più che di una nuova divisione del lavoro, la globalizzazione suggerisce così l'idea di una forma di colonizzazione che può finire per connotare il XXI secolo. I Paesi arretrati si stanno affrancando, ma in funzione della convenienza dei gruppi industriali e finanziari dei Paesi più evoluti. Del resto, a Shangai come a Saigon, a Varsavia come a Budapest le rutilanti insegne che illuminano le grandi strade commerciali sono tutte o quasi delle grandi multinazionali dell'occidente. Pochi in Europa, e soprattutto in Italia, gli investimenti effettuati per sostituire le produzioni trasferite altrove o comunque espulse dal mercato da quelle più competitive. E così, soprattutto se vista dall'Europa, la globalizzazione appare come un processo al centro del quale non ci sono gli uomini ed il loro benessere, ma le imprese, le grandi multinazionali, i loro interessi, la loro competitività.

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Ne è derivata una concorrenza sulle condizioni di lavoro. Al lavoro europeo la globalizzazione non ha portato l'opportunità di essere impiegato a condizioni migliori (questa era la promessa del liberismo), ma ha portato la concorrenza del lavoro di Paesi indietro, anche molto più indietro, nello sviluppo economico, nel reddito distribuito, nelle tutele sociali, nella protezione dell'ambiente, nelle norme antinfortuni, nella fiscalità. Il fenomeno, inizialmente strisciante e poco evidente, si manifesta sempre più distintamente negli accordi sindacali e negli indirizzi delle legislazioni. Pur di evitare delocalizzazioni di impianti, ridimensionamenti della produzione, cessazione di attività, i sindacati sottoscrivono accordi che prevedono sempre e comunque un arretramento nelle condizioni di lavoro sotto il profilo delle retribuzioni, degli orari, delle ferie, della tutela del posto di lavoro, e ancora di incentivi, bonus, straordinari, anzianità.

È sempre più diffusa la contrattazione del prezzo da pagare per indurre le imprese a rinunciare alle delocalizzazioni; un prezzo tanto più elevato quanto più si ritiene improbabile che il vuoto lasciato possa essere altrimenti riempito. (Se fosse vero, come molti sostengono, che le delocalizzazioni non generano disoccupazione, non si capisce perché le aziende dovrebbero chiedere, e le organizzazioni sindacali accettare, condizioni di lavoro più gravose in cambio della rinuncia al trasferimento delle attività produttive). Le legislazioni, dal canto loro, sono orientate nella stessa direzione: in Francia può essere il principio delle 35 ore settimanali, in Italia le leggi che moltiplicano le forme contrattuali per introdurne di sempre più precarie, flessibili e, in definitiva, scarsamente retribuite.

La strategia di fronteggiare la concorrenza dei Paesi emergenti rivedendo in peggio le condizioni economiche e normative dei lavoratori non può avere alcuna prospettiva di successo, come non la può avere qualsiasi reazione che miri a contenere i costi di produzione, vuoi diretti come il costo del lavoro, vuoi indiretti come la fiscalità e gli oneri contributivi. Il motivo è semplice.

Veniamo da un tempo nel quale il confronto competitivo era con Paesi a noi simili per livello di vita, per scala dei valori, per organizzazione sociale. I differenziali sui quali si decideva il successo del confronto competitivo erano marginali, sicché bastavano aggiustamenti relativamente modesti per recuperare una competitività che per un qualsiasi motivo fosse stata perduta. Chi di anni non ne ha pochi potrà ricordare il tempo nel quale poteva bastare anche una svalutazione della moneta del 5% per riequilibrare una bilancia commerciale in rosso.

Oggi la distanza con i competitori è abissale. Abbiamo di fronte Paesi che hanno un reddito pro-capite che è un quindicesimo ed anche meno del nostro, che non hanno oneri sociali né vincoli di rispetto ambientale, né qualsivoglia forma di tutela dei diritti del lavoratore: non può esserci possibilità di produrre in Italia a condizioni competitive qualcosa che possa essere prodotto in quei Paesi a quelle condizioni. Per ora agiscono ancora inerzie, attriti commerciali, organizzazione ancora parziale dell'offerta, ma sono fattori contingenti destinati ad essere gradualmente superati (la liberalizzazione dal 1° gennaio dei prodotti tessili, e della biancheria in particolare, già prospetta effetti sconvolgenti) .

Ne discende che la strategia di rincorrere questi competitori sul loro terreno, come in qualche misura anche forze del centro sinistra hanno fatto e ancora propongono di fare, non ha alcuna possibilità di successo. Non è una strategia nella quale si possa credere e, credendoci, accettare come strumentali i sacrifici che possono costituirne il passaggio intermedio. Piuttosto, alimenta la convinzione che il futuro non possa essere che quello di un continuo, graduale, quasi fatale peggioramento contro il quale non ci sia altro da fare che tentare di rallentarne il corso, resistendo il più possibile nella difesa - senza se e senza ma - dei livelli di benessere materiale e civile raggiunti.

Se si riconosce che questa è la conseguenza, allora si deve riconoscere anche che siamo di fronte alla negazione stessa del progressismo proprio della sinistra, ossia dell'assunto secondo il quale il cambiamento è la condizione per poter conquistare una elevazione delle condizioni di vita della gente (contro l'assunto del conservatorismo secondo il quale la soluzione dei problemi sta nel tornare indietro). Il progressismo può anche accettare che le ragioni delle imprese prevalgano su quelle del benessere materiale e civile delle persone, ma solo se questa prevalenza è temporanea e strumentale ad una ripresa del progresso della condizione umana, non viceversa come la globalizzazione, questa globalizzazione, di fatto sta determinando in Europa ed in particolare in Italia imponendo ad ampie fasce di popolazione di star peggio con il fine di non stare ancora peggio.


La asserzione di una priorità delle ragioni dell'impresa su quelle del benessere della gente è contestata dai liberisti, i quali argomentano che liberalizzazioni e globalizzazione hanno consentito l'offerta di beni manifatturati e servizi a condizioni prima impensabili, rendendo accessibili consumi a chi prima non se li poteva permettere. Che i processi di liberalizzazione abbiano determinato la offerta di beni e servizi a prezzi un tempo impensabili - si pensi agli arredi di Ikea o alle tariffe delle linee aeree low cost - è cosa che è sotto gli occhi di tutti. Attenzione però a non confondere una faccia della medaglia, la faccia "buona", con la medaglia intera. C'è anche un'altra faccia, ed è data dall'arretramento delle condizioni dei lavoratori dovuto al tentativo delle imprese tradizionali di resistere alla concorrenza di quei beni e servizi offerti a prezzi un tempo impensabili.

Questo arretramento si misura non solo e non tanto nel potere d'acquisto col quale viene remunerata una unità di lavoro - che comunque diminuisce com'è implicito nel calo della produttività che si accompagna all'aumento della occupazione - quanto nella precarietà crescente della condizione dei lavoratori. Il reddito medio di chi risulta occupato, infatti, non si è solo ridotto in termini di potere d'acquisto, si è anche deteriorato qualitativamente poiché, anche quando attinge un livello monetario accettabile, e persino quando deriva da un contratto a tempo indeterminato, non è affidabile, non consente di programmare la propria vita, spesso non è considerato per la concessione di un mutuo per l'acquisto della casa. Di conseguenza, induce comportamenti propri di chi percepisce redditi più bassi, concorrendo così ad alimentare la spirale della stagnazione della domanda.

Il mobile di Ikea costa poco, certo, ma vale anche meno il lavoro di chi quel mobile deve comprare: è da vedere se il rapporto è più conveniente per il consumatore, o non per il produttore di quegli arredi. I punti vendita di Ikea sono sempre affollati, girano alla grande: sono pieni di prodotti a basso prezzo perché fatti realizzare nell'est-Europa o ancora più lontano, ma anche quella moltitudine di frequentatori ed acquirenti è fatta in massima parte da gente che ha redditi bassi e lavoro precario a motivo della globalizzazione, ossia a motivo della esigenza che il sistema produttivo nazionale ha di sostenere la concorrenza dei Paesi dell'est-Europa o anche più lontani.

Il cane, così, si morde la coda, tanto è vero che la presenza di Ikea, del made in China, o delle compagnie low cost non sembra generare equità sociale, serenità, fiducia nel futuro. Il reddito nazionale seppur di poco cresce, non c'è recessione, ma la grande maggioranza si comporta come se ci fosse. Ecco allora che, seppure ad una analisi superficiale possa sembrare il contrario, a ben guardare la globalizzazione una coloritura politica ce l'ha, ed è inequivocabilmente di destra.

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Il contrasto ad una globalizzazione così intesa e ad una strategia che, pretendendo di competere con i Paesi emergenti sul loro stesso terreno, si risolve nella prospettiva di un disperante arretramento delle condizioni dei lavoratori verso livelli da Paesi emergenti, è, dovrebbe essere, un compito primario di ogni forza politica che intenda tradurre in un progetto politico il suo dichiarato orientamento a sinistra.

Finora la sinistra ha affrontato l'argomento con imbarazzo, un po' - come si è detto - con politiche di sostegno delle imprese (le recenti controproposte sul fisco ne sono un esempio), un po' portando il suo mattone al processo di precarizzazione (il cosiddetto Pacchetto Treu), e un po' con l'utopia di vagheggiare qualche dose di protezionismo da attivare nei confronti dei Paesi che non rispettano elementari diritti civili, ad esempio utilizzando lavoro minorile, o che copiano o contraffanno prodotti occidentali. Bisogna riconoscere che è un po' poco per rovesciare il carattere di destra che questa globalizzazione ha assunto, per ripristinare la fiducia in un futuro migliore e così mobilitare le forze disposte ad impegnarsi per costruirlo.

È evidente la necessità, l'urgenza, di un progetto più innovativo; un progetto che punti a recuperare il senso iniziale della globalizzazione, con un progresso dei Paesi emergenti mosso dal loro interno, e non dipendente dalla iniziativa delle imprese dei Paesi evoluti (cosa, questa, sulla quale una iniziativa italiana potrebbe ben poco, ma che deve costituire comunque un riferimento), e con la sostituzione delle attività conquistate dai Paesi emergenti con attività di livello più alto, più innovativo, più specialistico e, dunque, meno esposto alla concorrenza dei Paesi a basso costo. Il problema non sta tanto nella sua definizione, la cui correttezza è comunque un indispensabile punto di partenza, ma nella individuazione di una soluzione efficace e praticabile.

La definizione è semplice perché emerge da un recupero del senso originario della globalizzazione: non la semplice delocalizzazione (ossia fare altrove ciò che attualmente si fa in Italia), ma la cessazione delle attività che possono essere svolte con costi più bassi dai Paesi emergenti per sostituirle con altre più specialistiche, più esclusive, a maggiore valore aggiunto. È opportuno fermarsi su questo punto perché occorre non solo accettare, ma addirittura auspicare la perdita di manifatturazioni mature che, in quanto tali, non sono in grado di generare quel valore aggiunto più elevato che serve per "finanziare" la fiducia in un futuro migliore e, quindi, per far virare verso sinistra una globalizzazione indiscutibilmente di destra; che serve in definitiva per rendere l'intero processo coerente con la cultura, le tradizioni, i valori dell'Europa sostituendo il benessere e la serenità della gente agli interessi delle imprese come obiettivo finale al quale lo stesso processo deve essere volto.

Trattenere, agevolare, contrattare la permanenza in Italia di manifatturazioni che possono essere svolte in Paesi a basso costo significa procedere verso le condizioni economiche e civili di quei Paesi. Trattenerle per il principio del "meglio di niente" crea illusioni, ritarda il compimento di una storia nella quale ormai sta comunque scritta la esclusione di quelle produzioni dai Paesi evoluti ad elevato e diffuso benessere come il nostro.

Questa è la definizione della strategia sulla quale una forza della sinistra dovrebbe impostare la propria concezione del futuro per chiedervi il consenso popolare e ribaltare, tra l'altro, sulla destra l'accusa di conservatorismo alla quale si espone opponendosi ad ogni soluzione che comporti una riduzione del benessere. Espresso in termini meno analitici per poter assumere la necessaria forza di impatto, questo può diventare il tema sul quale la sinistra può ritrovare una propria identità tipica, emblematica, centrale, in contrapposizione alla politica dichiarata o comunque realizzata dalla destra. Si tratta di tradurre questa strategia in indirizzi operativi, ed a questo fine le direttrici ipotizzabili sono almeno due.

La prima è l'aumento della dimensione media delle imprese. Ci sono voluti anni, ma finalmente è un dato acquisito che la piccola impresa, prezioso patrimonio nello sviluppo dei passati decenni, è un limite quando lo sviluppo futuro sia affidato ai massicci e costanti investimenti da effettuare nella ricerca, nella innovazione, nella specializzazione, nella esclusività dei prodotti italiani da offrire al mondo insieme a validi motivi per comprarli. In quanto preliminare ad ogni progetto di futuro, la crescita della dimensione media delle imprese non può non costituire un obiettivo politico prioritario. Tra l'altro, la produttività del lavoro nelle grandi imprese è quasi doppia rispetto alle piccole.

Lo strumento col quale perseguirlo non può che essere quello offerto dalla fiscalità; una fiscalità che in qualche modo penalizzi la piccola dimensione per premiare la grande, i pochi dipendenti piuttosto che molti (ad esempio con una defiscalizzazione progressiva), le proprietà poco articolate o comunque quelle nelle quali il maggiore azionista superi una determinata quota (limite aggirabile, questo, ma tutto sta ad incominciare con un chiaro segnale politico per la separazione del patrimonio delle imprese dal patrimonio delle famiglie). Ci vuole la disponibilità ad affrontare la contrarietà dei piccoli imprenditori che, invece, tutte le forze politiche hanno sempre blandito costituendo una non indifferente forza elettorale. Ma questa è la prima ed innovativa riforma che deve essere tentata per restituire una colorazione positiva al futuro ed impegnare le forze attive su un progetto nel quale credere. Del resto, anche le moltitudini di piccoli imprenditori su quale alternativa di futuro possono contare?

La seconda è il recupero del ruolo dello Stato nell'economia. Può essere una rivoluzione della cultura di questi ultimi decenni, ma non dovrebbe costituire una remora per un programma di sinistra. Nell'Europa continentale (altra cosa sono l'Inghilterra e l'Irlanda) il "meno Stato" ha dimostrato di non funzionare. L'analisi è complessa, ma si può riassumere nella scarsa propensione a correre i rischi imprenditoriali sempre più rilevanti che la globalizzazione dei mercati comporta. Nei grandi Paesi europei, infatti, la presenza del capitale pubblico nelle manifatturazioni che richiedono imprese di grandi dimensioni è rilevante.

Questa rilevanza è evidente in Francia e in Germania; nei Paesi del Nord Europa lo è meno, ma c'è ugualmente nella forma di una forte influenza pubblica sulla gestione dei maggiori gruppi privati. Nell'uno e nell'altro caso si realizza una sorta di socializzazione del rischio che consente di poter destinare ingenti risorse nella ricerca e mantenere così competitive le esportazioni. La Germania, pur con un sistema non meno rigido del nostro, uno stato sociale non meno costoso, un costo del lavoro certamente non inferiore ed una fiscalità non certo più ridotta, è diventata il primo esportatore del mondo in anni nei quali qui in Italia si accampava l'alibi della stagnazione europea per giustificare la stagnazione, e si accampava l'alibi dell'apprezzamento dell'euro per giustificare la perdita di competitività delle esportazioni. Anche negli Stati Uniti, ed in parte anche in Inghilterra, il ruolo dello Stato nel sostegno delle attività produttive è assai rilevante attraverso le enormi spese militari che finanziano la ricerca ed, attraverso questa, consentono il mantenimento del primato tecnologico che a sua volta assicura il mantenimento del primato industriale.

In Italia, invece, a dispetto delle quote non indifferenti che Stato ed enti locali possiedono ancora nel capitale di imprese produttive, il ruolo pubblico è scarso e quel poco nel quale si concreta si esaurisce in interventi per il salvataggio di gruppi in dissesto. Anche la spesa pubblica per la ricerca è notoriamente esigua. La promozione di innovazione attraverso la domanda pubblica è pressoché nulla. L'iniziativa che lo Stato produceva attraverso le partecipazioni statali non è stata sostituita da quella dell'imprenditoria privata, e tra i pochissimi poli manifatturieri, che reggono bene il loro mercato e che sono tecnologicamente aggiornati,  spiccano Fincantieri, Alenia, Agusta, Aermacchi: aziende di caratura mondiale il cui successo si deve alla iniziativa pubblica.

Occorre riconoscere che la "ritirata dello Stato" dal sistema produttivo è stata doppiamente disastrosa: lo è stata perché si è risolta con la dispersione di attività pur valide (si pensi alla vicenda degli acciai speciali di Terni) che costituivano, al di là della loro consistenza economica, competenze, professionalità, scuole che, senza più imprese, si sono disperse (e nel nostro tempo, se un Paese esce da un settore è assai difficile che possa rientrarvi; cosa da annotare con riferimento al caso Fiat); e lo sono perché le privatizzazioni hanno distratto risorse agli investimenti necessari per evitare il declino di industrie affermate come Fiat Auto o Pirelli.

A questo genere di tesi c'è una obiezione diventata quasi un luogo comune: la politica è corrotta e l'iniziativa pubblica nell'economia finisce per risolversi in uno spreco di risorse. Non mancano, però, le contro-obiezioni. Da tangentopoli sono passati più di dieci anni. In questo tempo si è stabilita anche in Italia una democrazia dell'alternanza che costituisce un terreno assai più arido della democrazia bloccata per la corruzione, per la commistione tra affari e politica, per gestioni piegate agli interessi dei partiti; comunque l'ingegneria finanziaria ha prodotto una infinità di formule per mantenere ispirate a criteri privatistici attività promosse dall'iniziativa pubblica.

Sono molte le attività nelle quali ci sono competenze con grande potenziale di crescita, vanno dal biotech alle nanotecnologie, dai materiali speciali ai mezzi di trasporto su rotaia, dalla motoristica (diesel, idrogeno, motori ibridi) alla nautica, dal recupero dei marchi storici del motociclismo agli arredi di alta qualità: questo per dire in quanti settori l'Italia ha già professionalità, competenze, capacità progettuali, ma manca di slancio imprenditoriale. Il vero spreco e di non metterle a frutto e di lasciare, inerti, che deperiscano o che se ne impossessino aziende straniere.

Altra obiezione anch'essa scontata: le risorse. Nel Paese non manca una ricchezza che non chiede altro che essere investita in progetti credibili, resi poco rischiosi da un forte impegno pubblico (si è già accennato alla socializzazione del rischio) e con la prospettiva di avere i lavoratori compartecipi del progetto, e dunque disponibili anche a subire condizioni inizialmente sacrificate, ma con la garanzia di partecipare equamente al dividendo che potrà venire dalla riuscita del progetto.

C'è poi una politica di bilancio che può volgere al servizio di una siffatta politica una parte consistente degli attuali trasferimenti alle imprese (dirottandoli dalle imprese che per i motivi detti non hanno futuro). E c'è, infine, la politica fiscale. La contribuzione fiscale va ribadita come la materializzazione del patto di cittadinanza, di appartenenza alla comunità nazionale, di partecipazione alla costruzione del suo futuro e, nel caso specifico, al ristabilimento delle capacità di produrre il volume di risorse necessario innanzitutto per evitare una contrazione del benessere e della equità distributiva, quindi per riprendere un percorso di progresso per il quale valga impegnarsi; un percorso, quindi, in grado di prospettare ai figli una condizione migliore di quella dei padri.

Un programma delle forze politiche in varia misura orientate a sinistra non può eludere il tema della disponibilità di risorse per prospettare un futuro migliore del presente, per restituire alla gente motivi di fiducia, di impegno, di partecipazione ad un progetto di elevazione del Paese e della sua dignità anche in tempi di globalizzazione e di confronto competitivo con Paesi e genti molto più indietro sulla strada del progresso e del benessere. Come negli anni '90 si riuscì a dirigere tutte le forse del Paese verso un risanamento finanziario, monetario ed istituzionale che riscosse l'ammirazione del mondo, così ora occorre costruire su quel risultato un modello di sviluppo più evoluto.

Il risultato del risanamento e della adozione della moneta unica è rimasto monco perché il centro-destra non lo ha sviluppato ed, anzi, ha svilito e svilisce il ruolo delle istituzioni nell'offrire una cornice di interesse generale all'attività ed all'impegno di persone, imprese, sindacati, associazioni, organizzazioni rappresentative, di tutti quanti hanno un ruolo economico, sociale, politico. Contro la gratificazione immediata, ma senza un progetto per il futuro, che il centro destra va offrendo, il centro-sinistra deve poter offrire un futuro nel quale poter credere o almeno poter sperare. Se non saranno le forse di centro-sinistra a recuperare il senso dell'appartenenza ad una comunità nazionale ed a proporre un progetto di crescita nel quale tutti si possano riconoscere in quanto appartenenti a quella comunità, chi altro, ed in quale spazio politico, lo potrà mai fare?

Mercoledì, 5. Gennaio 2005
 

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