Chi tira a fondo la competitività

Uno studio dimostra che il problema non è tanto nell'industria, quanto nei settori protetti da cui questa è costretta ad acquistare i servizi. La crescita dei prezzi in questi settori, messa a confronto con quella tedesca, spiega con evidenza i motivi della nostra peggiore performance
La consapevolezza dei limiti della struttura produttiva nel nostro paese è di lunga data. Già negli anni sessanta si poneva da un lato la questione di superare i problemi posti allo sviluppo di lungo periodo da una struttura produttiva caratterizzata da vaste aree di "arretratezza" e, dall'altro, la necessità di una politica di intervento capace di creare un momento di discontinuità, un salto qualitativo nell'evoluzione del sistema produttivo italiano. La politica di intervento, si diceva, doveva porsi due obiettivi: migliorare la competitività del settore esposto alla concorrenza internazionale; ridimensionare le aree definite di "rendita", caratterizzate da inefficienza e comportamenti inflazionistici.

La politica di svalutazione competitiva del cambio, iniziata nel 1973 e proseguita per oltre un ventennio, ha nascosto a lungo questi problemi che sono tuttavia riemersi, in tutta la loro crudezza, quando l'euro è diventato la moneta di una gran parte dei paesi europei. L'indice più evidente delle contraddizioni presenti nel sistema produttivo italiano è l'andamento della bilancia commerciale che segnala un lento ma costante deterioramento della capacità competitiva del paese, in larga parte spiegato dall'incapacità del settore esposto di contenere la crescita dei prezzi al passo con quella dei  concorrenti. Dal 1997, anno di rientro nello SME, i prezzi dell'industria manifatturiera italiana sono cresciuti di più di quelli tedeschi di quasi un punto percentuale all'anno (8 punti percentuali nell'intero periodo).

Sono dati questi che da soli testimoniano le difficoltà presenti dell'industria italiana e, soprattutto, possono permetterci di capire quale sarà lo scenario dei prossimi anni se non si riuscirà ad intervenire su queste situazioni attraverso politiche di riforma adeguate; a parità di qualità, ogni aumento dei prezzi superiore rispetto a quello dei paesi concorrenti implica infatti una perdita di competitività.

Un confronto istruttivo con la Germania
Anche se, come si è detto, é opinione condivisa che la dinamica dei prezzi industriali sia espressione di inefficienze che riguardano sia il settore esposto, sia quelle parti del sistema meno esposte alla concorrenza internazionale, sono pochi gli studi che hanno cercato di misurare l'importanza sulla competitività del settore esposto delle cosiddette aree di "rendita".

In queste pagine utilizziamo l'indice di Fuà e Sylos Labini in "Idee per la Programmazione" (1963) e cioè l'andamento dei prezzi relativi tra l'industria ed i diversi settori del terziario. Il confronto è fatto con la Germania.

I comparti presi in considerazione sono il settore finanziario, quello del commercio, quello degli "altri servizi" (all'interno del quale sono incluse le professioni), il settore dell'elettricità, gas ed acqua, ed infine il settore dei trasporti e delle telecomunicazioni.
L'arco di tempo considerato va dal 1989 al 2004. I valori contenuti nella tabella (vedi qui: per tornare al testo clicca "indietro" sul browser) ci indicano quanto i prezzi di ciascun settore sono cresciuti ogni anno in media in più (o in meno) rispetto a quelli dell'industria manifatturiera.
 
In pressoché tutti i settori presi in considerazione, l'indice relativo all'Italia assume valori superiori a quelli che si possono rilevare per la Germania. In altre parole, i prezzi dei settori presi in considerazione, con la sola eccezione del commercio, crescono rispetto a quelli dell'industria manifatturiera di più in Italia che in Germania. Le differenze sono molto rilevanti fino al 1996; poi vanno attenuandosi, restando tuttavia significative. Più in particolare, dopo il 1990, in quasi tutti i settori, il tasso annuo di crescita dei prezzi dei settori esaminati - relativamente all'industria - risulta essere in Italia più alto rispetto a quello medio tedesco di una percentuale che va da un punto e mezzo a quasi cinque punti.

Il quadro che emerge dalla Tavola 1 ci dice in sostanza che: 
- le "ragioni di scambio" tra l'industria ed alcuni tra i settori meno esposti alla concorrenza sono peggiorate in maniera significativa per tutti i 15 anni che si sono potuti studiare; 
- la tendenza al peggioramento non trova un riscontro sistematico in Germania; 
- è difficile considerare questa tendenza al peggioramento esaurita, nonostante un qualche rallentamento nel deterioramento delle "ragioni di scambio". Un segnale positivo può essere l'andamento dei prezzi nel commercio. Un segnale di tipo opposto ci viene dagli "altri servizi" dove il differenziale, sia rispetto all'industria che rispetto a quanto accade in Germania, non sembra tendere in maniera significativa alla riduzione.
 
La misura in cui il settore esposto, in sostanza l'industria manifatturiera, perde competitività per l'inefficienza di altri settori emerge con chiarezza dalla Tavola 2 (vedi qui: per tornare al testo clicca "indietro" sul browser) dove si è riportata la struttura degli acquisti dagli altri settori dell'industria italiana dal 1995 al 2001, quale risulta dalle tavole input output.

Nella parte alta della tabella è riportato il peso dei cinque settori sul totale degli input del settore industriale, calcolato a prezzi correnti. Nel 1995 questi settori, nel loro insieme, costituivano il 18 per cento circa degli input del settore industriale. Sette anni dopo la percentuale, calcolata sempre a prezzi correnti, era aumentata di quattro punti passando a poco meno del 22 per cento. In sostanza gli acquisti da parte dell'industria nei cinque settori considerati hanno avuto un peso crescente sul totale degli acquisti fatti dal settore industriale.

Dai risultati presentati nella prima tabella sappiamo che una parte di questo aumento è legata ad un puro effetto prezzi. La parte centrale della Tavola 2, nella quale le percentuali sono calcolate a prezzi costanti (sia per i singoli settori che per il totale dell'industria manifatturiera) ci fa capire che circa un terzo dei quattro punti di aumento è legato alla maggior crescita dei prezzi nei settori presi in considerazione rispetto a quelli industriali.

Per capire tuttavia l'impatto che la politica dei prezzi dei settori non esposti ha sulla dinamica dei prezzi industriali abbiamo costruito la terza parte della Tavola 2, nella quale gli input a prezzi costanti calcolati nella parte precedente della tabella vengono moltiplicati per i prezzi del paese che abbiamo preso a riferimento, cioè la Germania. In sostanza i risultati ci dicono quale sarebbe stato l'aumento del peso degli input dei servizi per l'industria manifatturiera italiana se questa avesse acquistato non dai settori dei servizi italiani, ma da quelli tedeschi.
 
I risultati sono particolarmente significativi. Nel 2001 la percentuale risulta essere infatti più bassa di quella del 1995. Se si considera il fatto che dal 1995 al 2001 i prezzi dell'industria manifatturiera italiana sono cresciuti di circa cinque punti in più rispetto a quelli tedeschi e che il peso degli input dai settori considerati è più basso di quattro punti se il calcolo è fatto utilizzando i prezzi tedeschi piuttosto che quelli italiani, quanto emerso dalla Tavola 2 sembra indicarci che una parte consistente del differenziale tra i prezzi dell'industria italiana e quella tedesca è espressione di problemi che attengono più a settori che a questo punto con ragione possiamo definire di rendita, che a problemi dell'industria stessa.

Le conseguenze che si possono trarre dal punto di vista della politica economica sono evidenti. Nessuna politica industriale riuscirà nei suoi obiettivi, nessuna politica della competitività potrà avere risultati se non si interviene in maniera decisa su questi settori con una politica di concorrenza. In modo deciso, ma anche in tempi rapidi se si tiene conto del contesto di moneta unica in cui opera l'industria italiana.

Venerdì, 21. Aprile 2006
 

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