Chi semina Hamas raccoglie la guerra

La crescita di questa organizzazione deve non poco agli Stati Uniti, ai loro alleati e allo stesso Israele. Troppo semplicistico addossarle tutte le colpe, senza considerare i guasti di una "realpolitik" insensata, di gravi errori da entrambe le parti, delle determinazione di Tel Aviv a non riconoscere dignità all'interlocutore

Un coro unanime. Il ministro Frattini, politici di maggioranza ed opposizione (quella in parlamento ), diversi opinionisti dei maggiori quotidiani, sostengono che “tutta la colpa è di Hamas“. È la replica di un film già visto a proposito dell’Afganistan dopo l’11 Settembre 2001. Si scoprì che i talebani erano il male più o meno assoluto. Sembravano saltati fuori dal nulla, non avere una storia, non avere una base sociale. Per fortuna vi fu chi cominciò a porsi e a porre qualche interrogativo. Mi ricordo un articolo sul NYT: “D’accordo, ma allora perché li abbiamo aiutati? Il costo della realpolitik”. In termini diversi lo stesso si ripete in Palestina. Lo dimostra la storia di Hamas.

 

I gruppi fondamentalisti islamici compaiono nella società e sulla scena politica palestinese nei primi anni ‘80. Cospicui finanziamenti dall’Arabia Saudita servirono ai predecessori di Hamas per costruire scuole, cliniche sanitarie, servizi sociali gestiti da religiosi wahabiti (la corrente integrista dell’islam, religione di Stato in Arabia Saudita ).

Il parallelo con l’Afganistan è evidente. Le madrassa, scuole coraniche dove si sono formati i leader talebani, sono proliferate in Pakistan e Afganistan grazie ai soldi sauditi. Lo scopo era abbattere il regime comunista a Kabul “usando” i talebani e tutti i jihadisti accorsi in Afganistan. Gli USA erano d’accordo.

 

Per la società palestinese di allora la comparsa di gruppi islamismi di volontariato civile era una novità . Lo scopo non dichiarato era però politico. Indebolire l’OLP, in particolare la sua ala sinistra, laica e marxisteggiante molto invisa alle dittature arabe.

 

Quale fu la politica di Israele? Mentre all’OLP era impedita ogni attività politica nei territori occupati, ai gruppi islamici radicali era concessa la pubblicazione di giornali, l’organizzazione di meeting, persino avere una loro radio. Un esempio tra molti: nel 1981 l’esercito israeliano, che non aveva alcuna esitazione a reprimere manifestazioni di strada dell’OLP, lasciò mano libera ad un gruppo di estremisti islamici nel saccheggio di un ospedale per donne a Gaza che offriva consultazioni per planning familiare.

 

Hamas fu fondata nel 1987 dallo sceicco Ahmed Yassin liberato dagli israeliani dopo venti anni di prigione. Gli fu concessa ampia libertà di parola, la diffusione di materiale antiebraico, il lancio di slogan violenti per l’eliminazione di Israele con la lotta armata. Nel frattempo attivisti non violenti come il cristiano Mubarak Awad, un sostenitore delle pratiche gandhiane, venivano allontanati da Gaza.

 

La politica USA non fu molto differente. Sino al 1993 ufficiali americani si incontrarono periodicamente negli uffici consolari in Gerusalemme con leader di Hamas. Non si conoscono i contenuti di questi colloqui. Sta di fatto che l’organizzazione poteva contare su sempre maggiori spazi d’azione e finanziamenti esterni. Ma come togliere a Fatah il consenso politico ?

 

Un enorme impulso alla popolarità di Hamas fu dato dalla espulsione di 400 attivisti di associazioni islamiche nell’autunno 1992. La maggior parte degli espulsi era impegnato in attività sociali. Solo un piccolo numero implicato in atti di violenza. Il consiglio di sicurezza dell’ONU condannò l’espulsione e ne chiese l’immediato rientro. La presidenza Clinton, tuttavia, bloccò l’applicazione della risoluzione. Il risultato: gli esiliati divennero eroi e martiri, la popolarità di Hamas crebbe enormemente tra la popolazione di Gaza così come il suo peso politico.

 

Comunque nel 1993, anno degli accordi di Oslo, le indagini d’opinione davano ad Hamas il sostegno del 15% della popolazione. Il fallimento di Oslo e l’intensificazione della colonizzazione della Cisgiordania ( mai cessata anche durante e dopo i colloqui e l’accordo di pace ) fecero progressivamente aumentare il consenso ad Hamas o meglio lo tolsero all’Autorità palestinese e a al Fatah di Yasser Arafat.

 

La vicenda è nota. Corruzione e malgoverno fecero pendere progressivamente la bilancia dei consensi verso Hamas visto dalla popolazione come onesto e legato ai problemi basilari della popolazione. Il colpo finale fu dato dalla politica di delegittimazione sistematica dell’Autorità palestinese, definita terrorista, da parte del governo israeliano.

La distruzione della sede in Ramallah e di molte infrastrutture nei territori ne è solo l’immagine esteriore.

 

Con la delegittimazione dell’Autorità palestinese fu sistematicamente distrutta l’economia: impossibilità di spostamenti, chiusura delle frontiera per i lavoratori migranti palestinesi verso Israele (sostituiti da asiatici ), distruzione delle capacità produttive: ho visto rase al suolo una fabbrica di sapone in Nablus e una di materassi a Gaza. Crisi economica vuol dire penuria di elementi base per ampie fasce della popolazione e i servizi di Hamas divennero imprescindibili a molti  per sopravvivere.

 

E’ in questo periodo che l’ala militare di Hamas, che è organizzazione complessa con diverse tendenze, viene alla ribalta. Si intensificano gli atti di terrorismo immorali, illegali e controproducenti ma sempre meno condannabili agli occhi di una popolazione frustrata nelle speranze, umiliata e nell’indigenza. L’intensificarsi di esecuzioni mirate delle squadre speciali con raid ed anche elicotteri da parte delle forze di sicurezza israeliane intensificavano questo stato d’animo. Yassin, liberato nell’87, fu ucciso sulla sua sedia a rotelle (era disabile dalla giovinezza). La fabbrica dei martiri funzionava a pieno ritmo.

 

Il massimo del paradosso della politica di Bush arriva dopo il 2004, anno della morte di Arafat. La teoria della presidenza americana era che lo svolgimento di libere elezioni avrebbe indebolito le forze estremiste. “Non abbiamo niente da perdere”, mi disse un commerciante alla porta di Damasco a Gerusalemme. “Inoltre gli israeliani non intendono negoziare con Abbas”.

 

Le elezioni si svolgono nel gennaio 2006 e Hamas prende il 44% dei voti. Non quindi la maggioranza assoluta, ma il frazionamento delle forze laiche e democratiche gli consente di avere la maggioranza in Parlamento e il diritto di designare il primo ministro. Ironicamente la figura del primo ministro non esisteva nella Costituzione originale dell’Autorità palestinese. Fu costituita nel 2003 sotto pressione degli USA che desideravano avere un contropotere alla presidenza di Arafat. Conseguenza, mentre il risultato elettorale permise a Abbas di conservare la Presidenza, lo costrinse a dividere il potere con Ismail Haniya, il primo ministro di Hamas.

 

Le vicende politiche successive sono, credo, note ai chi legge: formazione di un governo di unità, sanzioni economiche, lancio di razzi kassam da parte dei palestinesi e raid aerei israeliani. Morte di civili. Ritiro unilaterale da Gaza delle colonie e conseguente assedio economico… Rottura del governo di unità e conflitto armato tra Fatah e Hamas, colloqui, tregua sino alla tragedia di oggi. Mi soffermo unicamente sul ruolo avuto dalla politica USA e non solo, in questo periodo.

 

L’immediata reazione dell’Amministrazione Bush al risultato elettorale fu di premere nei confronti di Abbas per impedire un governo di unità nazionale. L’amministrazione americana fece inoltre pressione sui governi europei e il Canada perché fossero adottate sanzioni economiche. La conseguenza fu il completo tracollo della già carente economia palestinese legando l’Autorità palestinese a dipendere quasi totalmente dall’aiuto esterno. L’impatto delle sanzioni fu devastante e permise al regime iraniano di inserirsi nel vuoto creato attraverso massicci aiuti finanziari. In precedenza non vi erano rapporti tra Hamas (sunnita ) e la Repubblica islamica d’Iran (sciita ).

 

Il peggioramento delle condizioni di vita, in particolare nella striscia di Gaza, ha prodotto una situazione sociale esplosiva. Un tasso di disoccupazione oltre il 50% soprattutto giovanile ha creato una base di reclutamento per i gruppi estremisti militanti. Un dirigente di Fathah mi ha scritto: “Per molti entrare in un gruppo d’azione è la sola maniera per avere qualche soldo”. Poliziotti palestinesi che dovrebbero garantire l’ordine, non pagati dal governo, hanno aderito clandestinamente a Hamas come secondo lavoro applicando una “doppia lealtà”.

 

La popolazione di Gaza è formata prevalentemente da rifugiati della guerra di 60 anni fa e dai loro discendenti. Affollati entro140 miglia quadrate, in estrema povertà e indigenza, senza lavoro, con tagli di luce e gas quasi quotidiani e spesso anche dell’acqua. “I cani hanno di nuovo tolto l’acqua”, gridava un ragazzino in inglese a Gaza. Non sorprende che in queste situazioni possa alimentarsi una cultura del tanto peggio-tanto meglio, che trovi linfa l’estremismo politico e anche la violenza tra clan per il controllo di risorse scarse. Ma nello scoppio del conflitto tra i palestinesi Israele e gli USA ci hanno messo del loro.

Mentre il governo di unità era ancora in piedi, con ministeri chiave in mano a Fatah, personalità laiche e stimate come Mustafa Bargouthi in incarichi di rilievo, l’esclusione dell’ala radicale di Hamas e si tentavano i primi approcci con il governo israeliano, l’amministrazione Bush decideva di cavalcare la divisione tra palestinesi ordinando a Israele di trasportare per nave munizioni ai gruppi di Fatah per organizzare un colpo di Stato. I leader militari israeliani in un primo tempo resistettero all’idea, temendo che le armi sarebbero poi finite in mano ad Hamas, ma, come scrive Ury Avnery, “il nostro Governo obbedì agli ordini, come al solito”. Che Fatah ricevesse armi da Israele mentre Hamas combatteva l’esercito israeliano portò molti palestinesi – anche quelli che non sostengono Hamas – a vedere in Fatah dei collaborazionisti. Questo fu inoltre il fattore principale utilizzato da Hamas per lanciare “l’azione preventiva” (nel suo linguaggio ) contro Fatah. E le armi finirono in mano all’organizzazione islamista.

 

Gli USA inoltre sostennero con forza Mohammed Dahlan, capo delle forze di sicurezza a Gaza che, nonostante la qualifica di “moderato” e “pragmatico” assegnatagli dagli ufficiali americani, si è reso responsabile di detenzioni abusive, torture ed esecuzioni sommarie di avversari politici e militanti islamisti. Un personaggio oscuro e detestato da molti cittadini della striscia. Le sue azioni hanno lanciato su Fatah un largo discredito.

 

Sul ruolo degli USA nello scontro Hamas–Fatah si è espresso chiaramente Alvaro de Soto, ex coordinatore speciale ONU per il processo di pace nel Medio Oriente. Poco prima del colpo di Stato di Hamas, in un rapporto interno de Soto scrive: “Gli americani hanno chiaramente incoraggiato uno scontro tra Fatah e Hamas” e “hanno lavorato per isolare Hamas, indebolirla, sostenendo Fatah con il loro riconoscimento e la fornitura di armi”. Ironia tragica: venti anni fa gli USA sostenevano Hamas contro Fatah: oggi è l’opposto. Si invertono i fattori, ma il prodotto non cambia.

 

Il resto è nelle vicende tragiche degli ultimi mesi. L’assedio di Gaza, con le conseguenze che abbiamo descritto in altro articolo, il proseguimento delle esecuzioni mirate, altri coloni in Cisgiordania, il lancio di razzi kassam su villaggi israeliani, l’operazione “piombo fuso” di questi giorni preparata da tempo.

 

Il risultato di queste politiche è chiaro. Chi cerca la pace è indebolito e la spirale di violenza, odio, morte cresce. E molti politici usano Israele e Gaza per scopi di politica interna.

 

Le forze moderate, per vincere contro gli estremismi, devono poter dare al loro popolo prima di tutto ciò di cui ha bisogno: nel caso specifico, la fine dell’assedio a Gaza, la fine della colonizzazione della Cisgiordania (un rapporto ONU di due anni fa scrive che si è ormai ad una situazione che rende impossibile “di fatto” la creazione di un’entità palestinese in questo territorio). Tuttavia sembra che gli attuali leader israeliani, con il sostegno sinora dell’amministrazione americana (il ministro Frattini fa solo il chierichetto agli ultimi giorni di Bush) rendano impossibile la realizzazione di queste condizioni minime.

Un commentatore politico israeliano, Gershon Baskin, in un articolo del “Jerusalem Post” due giorni prima della vittoria elettorale di Hamas scrisse: “La determinazione di non negoziare di Israele e il suo unilateralismo hanno rafforzato Hamas e indebolito l’autorità e la credibilità di Abbas, che era già stata compromessa da azioni distruttive contro l’Autorità palestinese”.

 

Dopo la presa di potere armata di Gaza da parte di Hamas, uno dei giornalisti israeliani più rispettati, Roni Shaker, scrisse il 15 Giugno su “Yediot Ahronoth”: “Gli USA e Israele hanno decisamente contribuito a questo fallimento”.

 

C’è chi, come Advery, giunge alla conclusione che questo obiettivo sia percepito in piena consapevolezza, voluto: “I nostri governi hanno lavorato per anni per distruggere Fatah per evitare le conseguenze imprescindibili di un accordo: la fine dell’occupazione e il ritiro dalla Cisgiordania”, e M.J. Rosenberg dell’“Israel Policy Center” aggiunge: “il fatto è che la destra trae vantaggio dagli estremisti palestinesi perché si può contrattare solo con i moderati e questi più deboli sono, meglio è”.

 

E intanto il massacro continua.

 

Articolo scritto anche per www.paralleli.org

Lunedì, 19. Gennaio 2009
 

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