Chi declina e chi no

I morsi della crisi si sono fatti sentire sul reddito delle famiglie (-2,8%) e sui consumi (-1,9). Ma queste sono medie, e mentre varie ricerche dicono che la diseguaglianza è in forte aumento, molti marchi del lusso hanno mostrato ottimi bilanci sostenuti dagli acquisti di circa milioni di persone. Forse per questo il tema della povertà è rimosso dal dibattito pubblico

Secondo i dati forniti dall’Istat, nel 2009 le famiglie italiane sono diventate più povere. Infatti il loro reddito è sceso in media del 2,8 per cento. Mentre il potere d’acquisto, in termini reali, è calato di 2,6 punti percentuali rispetto ad un anno prima. Calano di conseguenza anche i consumi (inclusi quelli alimentari) che in un anno sono diminuiti dell’1,9 per cento.

Le medie però raccontano sempre solo una metà della storia. L’altra metà è che non per tutti è andata così male. In effetti, con la crescita o la crisi, “piove sempre sul bagnato”. I dati lo confermano. Sulla base dei calcoli della Banca d’Italia il reddito reale dei lavoratori dipendenti in quindici anni (dal 1993 al 2008) è cresciuto in tutto del 4 per cento. Mentre nello stesso periodo il reddito di imprenditori, liberi professionisti, commercianti ed artigiani è aumentato di quasi il 30 per cento. Non stupisce quindi che nel 2009, come informa uno studio della Cia (la Confederazione degli agricoltori), il 40 per cento delle famiglie abbia dovuto tagliare il carrello della spesa alimentare nel quale ora viene riposto meno vino, pesce, carne bovina, olio d’oliva. Addirittura il 60 per cento ha dovuto cambiare menù, optando (nel 35 per cento dei casi) per prodotti di qualità inferiore. Rincorrendo sistematicamente le promozioni degli hard-discount, le cui vendite in un anno sono infatti cresciute di oltre il 15 per cento.

Accanto alle numerose famiglie che hanno tirato la cinghia, a volte senza nemmeno riuscire a farcela ad arrivare a fine mese, ci sono quelle che hanno potuto tranquillamente continuare a dissipare in consumi di lusso. O, come preferiscono definirli i promotori del ramo, “prodotti d’eccellenza per la persona”. Così, malgrado il 2009 sia stato per molti un anno di crisi nera, la Tod’s di Della Valle ha chiuso con un aumento del fatturato in Italia del 5,5 per cento. Ancora meglio sta andando per il gruppo proprietario dei marchi di orologi più “prestigiosi”: da Bréguet a Longines, da Omega a Tiffany che, tra gennaio e febbraio di quest’anno, ha messo a segno un aumento in Italia del 30 per cento dei pezzi venduti e del 26 per cento degli incassi. A marzo poi, rispetto al marzo 2009, anche senza incentivi alla rottamazione, le immatricolazioni di  Audi sono cresciute del 5,61 per cento,  quelle di Bmw del 2,80 per cento, quelle di Mercedes del 9,23 per cento. Si può dire, in definitiva, che un discreto numero di persone e famiglie di crisi ha solo vagamente sentito parlare.

Ma quanti sono questi fortunati? Secondo la Banca d’Italia le famiglie dei dirigenti e direttivi sono quasi un milione e 700 mila, quelle degli imprenditori e liberi professionisti oltre un milione e 300 mila, quelle di commercianti ed artigiani quasi un milione 700 mila. Il totale fa oltre 4 milioni, su un totale di 24 milioni di famiglie italiane. Non tutte ovviamente possono essere iscritte d’ufficio nelle liste dei ricchi. Ma il grosso sì. I due terzi dei dirigenti e direttivi, il 56 per cento degli imprenditori e dei liberi professionisti, un terzo di commercianti ed artigiani rientra, sempre secondo i calcoli di Banca d’Italia, nel 20 per cento dei fortunati con i redditi più alti del paese. In buona sostanza, al vertice della classifica dei redditi, ci sono 800 mila famiglie di dirigenti e direttivi, 700 mila famiglie di imprenditori e liberi professionisti, 600 mila famiglie di  commercianti ed artigiani. Il totale supera i 2 milioni. Cioè circa 5 milioni di persone che avrebbero potuto allegramente intonare il noto motivetto, in voga negli anni ’30 del secolo scorso: “Ma cos’è questa crisi?”.

A pagare il prezzo più alto sono stati naturalmente quanti hanno perso il lavoro (poco meno di 400 mila nel solo 2009), quanti sono a rischio di perderlo e, per ora, tenuti in coma farmaceutico con la cassa integrazione, quanti, soprattutto donne e giovani, non riescono a trovarlo. E’ una situazione di gravissimo allarme economico e sociale. Tanto più che in Italia il tasso di occupazione è strutturalmente assai più basso rispetto a quello dei principali paesi europei. Oltre tutto c’è da dire che, anche se l’economia miracolosamente  riuscisse a ripartire, non è scontato che la situazione dell’occupazione migliori. In questa eventualità molte famiglie e persone resterebbero in condizioni di estrema vulnerabilità. Infatti oggi in Europa la migliore assicurazione contro la povertà è vivere in una famiglia in cui entrambi i coniugi lavorano e riescono dunque a portare a casa due stipendi.

Da noi c’è poi un secondo problema che riguarda non solo la disponibilità, ma anche il livello del reddito. Gli italiani guadagnano poco. La retribuzione media di un lavoratore dipendente scapolo è inferiore di un 20 – 30 per cento rispetto a quella di un lavoratore francese, tedesco, inglese. Ed il divario cresce se si confronta la situazione degli occupati con familiari a carico. Il basso livello delle retribuzioni riflette l’inefficacia contrattuale, ma anche l’inefficienza del sistema paese che si ripercuote sul sistema produttivo. Ma dipende pure dalla totale inadeguatezza del nostro welfare. Nei paesi con i quali ci confrontiamo i redditi da lavoro sono sorretti da trasferimenti monetari e crediti d’imposta volti a contrastare la povertà. Su questo terreno da noi non è stato fatto nulla di serio e di organico. La società non si sbriciola  solo perché almeno in parte può ancora contare su una rete di solidarietà parentali che in qualche modo riesce a rimediare. Al costo però di una crescente immobilità sociale. Non è un caso che, solo in Italia tra tutti i paesi sviluppati, oltre la metà degli occupati si ritrova nella stessa qualifica professionale del padre.

Insomma la condizione del lavoro è una delle cause del declino italiano. Certo non è la sola. Il declino economico e sociale è legato al declino culturale. Non si investe nella scuola e non si investe nella ricerca. Non deve quindi stupire che la società si stia sclerotizzando. Nei gruppi dirigenti gli “over 65” sono aumentati negli ultimi due decenni fino a raggiungere il 36 per cento. Il 49 per cento dei leader italiani ha più di 71 anni. Nei consigli di amministrazione dei grandi gruppi pubblici non c’è una donna. Una donna è entrata per la prima volta nel direttorio della Banca d’Italia solo alla fine del 2008.

Tra le cause del progressivo declino c’è anche il costante decadimento della moralità pubblica che ha ormai superato ogni livello di guardia. Il reato viene indulgentemente considerato peccato. E dal peccato ciascuno si autoassolve. Le regole pubbliche sono state spesso piegate alle esigenze del malaffare. La Bertolasocrazia è diventata un costume diffuso. Perché  ogni intervento pubblico si trasforma in emergenza ed ogni emergenza ha il suo commissario: dal terremoto e le frane al G8, dai mondiali di nuoto al campionato ciclistico, dal Giubileo all’esposizione universale, dalle carceri alla sanità di alcune regioni. E gli eventi della più svariata natura sono commissariati per poter spendere denaro pubblico senza “pastoie”. I commissari possono così individuare le aree, derogare alle norme urbanistiche e da quelle degli espropri, scegliere: i progettisti, gli appaltatori, i direttori dei lavori.

Cosa abbia prodotto questo modello è ormai noto a tutti: aumento incontrollato dei costi, corruzione di politici e alti funzionari dello Stato (costituiti in “cricca” famelica con imprenditori senza scrupoli), nepotismo, familismo amorale, aggiramento di ogni regola di concorrenza tra imprese. Soprattutto ha accresciuto le spese, incrementato il debito, impoverito il paese,  sottratto risorse alla protezione sociale, aumentato le diseguaglianze.

Numerosi studi e ricerche hanno ampiamente dimostrato che le diseguaglianze di reddito e territoriali costituiscono il fattore cruciale, anche se non esclusivo, del declino italiano. Sorprende che la questione sia completamente assente dal dibattito politico. Ma, tenuto conto dei rapporti di forza politici, probabilmente non è così casuale. In ogni caso è evidente che anche questa afasia è una delle ragioni che spiegano il declino italiano. In questo quadro persone e famiglie in condizioni di povertà, o anche soltanto di crescente disagio economico, sono senza difese. Le sofferenze si aggravano senza che succeda nulla che possa far sperare in una inversione di tendenza.

Dal 2002 l’Istat ha reso disponibili i dati regionali sulla povertà. La prima cosa che balza agli occhi è la disparità territoriale del fenomeno. Dal Piemonte al Lazio (cioè in tutte le regioni del Centro-Nord) la povertà ha una incidenza minore rispetto al dato nazionale. Diversamente in tutte le regioni del Sud l’incidenza è nettamente superiore. Il divario tra le regioni del Nord e quelle del Sud varia dai 16 ai 20 punti e la povertà del Sud è di 4-5 volte maggiore rispetto a quella del Nord. In Sicilia è povera quasi una famiglia su tre, mentre in Lombardia è povero solo il 5 per cento delle famiglie residenti. Gli indicatori relativi al disagio materiale, così come per l’incidenza della povertà, aumentano inesorabilmente quando si supera il Lazio per inoltrarsi nel Mezzogiorno. Se poi, al posto dei dati Istat, si dovesse applicare l’indicatore europeo di povertà il divario del Sud risulterebbe, anziché di 5, di 7 volte maggiore. Tant’è vero che mentre l’incidenza della povertà relativa in Lombardia si  ferma al 7,3 per cento, in Sicilia raggiunge il 46,6 per cento.

Si tratta di un divario che non  ha corrispondenti in Europa. Neppure nei paesi caratterizzati da storiche fratture territoriali. Come il Belgio (dove, tra Fiandre e Vallonia, la forbice è compresa tra L’8,3 ed il 18,0 per cento). O la Spagna (dove si passa  da una povertà relativa del 6,7 per cento in Catalogna, al 27,3 dell’Andalusia). Oppure in Germania, dove tra Berlino e la Sassonia corre una differenza di appena tre punti percentuali (12 contro 15 per cento). Addirittura ancora meno marcati sono i differenziali in altri paesi. In Svezia, per fare un solo esempio, i livelli di povertà relativa non sono sostanzialmente diversi se si tratta di Stoccolma (7,7 per cento) o delle città del Nord del paese (7,9 per cento). In sostanza, nessun paese europeo è economicamente e socialmente diviso in due come l’Italia.

Sarebbe perciò utile che nel quadro delle celebrazioni per i 150 anni dell’ “Unità d’Italia” venisse promossa una qualche iniziativa per cercare di capire le ragioni di questo disastro e perché l’Italia costituisca un “unicum europeo”. Ma è meglio non farci conto. Per intanto limitiamoci quindi a qualche considerazione sui fatti. Normalmente un governo ha a disposizione tre modalità di intervento per ridurre le diseguaglianze e la povertà. Il sistema di tassazione progressiva; i trasferimenti sociali a favore dei poveri; l’erogazione dei servizi sociali. Le prime due opzioni hanno una rilevanza economica per il loro potenziale di redistribuzione. A questo proposito, l’International Labour Organization,  esaminando i dati è giunto alla conclusione che le politiche italiane non sono state in grado (ammesso che se lo siano proposto) di ridurre l’aumento delle diseguaglianze. E questo è accaduto essenzialmente per due motivi: la perdita di progressività del sistema fiscale (le imposte indirette, che per loro natura sono regressive, sono diventate la fonte maggiore delle entrate tributarie) e la mancata compensazione con un incremento dei trasferimenti sociali. I dati dimostrano infatti  che i paesi con una spesa maggiore per i trasferimenti sociali sono quelli in cui le diseguaglianze sono minori.

Si devono inoltre esaminare gli effetti di alcuni interventi di tax benefit introdotte (con un certo clamore mediatico) nell’ultimo anno e cioè: la social card, il bonus famiglia, il bonus elettrico (a cui si può aggiungere l’eliminazione dell’Ici per la prima casa varata dal governo Prodi, che il governo Berlusconi si è premurato di estendere anche alle prime case dei ricchi). Dall’esame emerge (Baldini e Ciani, 2009) che queste misure hanno determinato una riduzione irrilevante (0,38 per cento) della percentuale di quanti si trovavano in una condizione di povertà “assoluta”.

Si deve infine analizzare l’effetto delle politiche tax benefit rispetto alla povertà ed alla occupazione con particolare riferimento alle famiglie con bambini. Per farlo occorre confrontare i tassi di povertà rispetto al reddito disponibile “prima” e “dopo” le tasse ed i trasferimenti, ipotizzando che la differenza (pur con tutti i limiti che l’esercizio comporta) possa essere interpretata  come “efficacia” del sistema tax benefit. A questo proposito uno studio (Whiteford e Adema, 2007) confronta gli effetti dei trasferimenti pubblici e della tassazione delle famiglie sulla povertà in alcuni paesi Ocse. La conclusione a cui giunge lo studio è particolarmente illuminante. Mediamente questi effetti fanno uscire dalla condizione di povertà relativa il 40 per cento delle famiglie povere con bambini. La forbice però è estremamente ampia. Varia infatti: da più 70 per cento in Danimarca, Belgio, Francia; a circa 45 per cento in Germania e Regno Unito; per scendere ad un trascurabile 2,8 per cento in Portogallo ed 1,7 per cento in Italia.

Questi dati, a cui potrebbero esserne aggiunti svariati altri, ci dicono essenzialmente una cosa: in Italia il tema della povertà è stato rimosso dal dibattito pubblico ed in ogni caso non è una priorità della politica attuale. Succede così che il problema delle persone e delle famiglie in difficoltà non venga considerato un fattore decisivo della coesione sociale ed un indicatore del declino del paese, ma semplicemente un problema per le persone e le famiglie. In questa situazione il preannunciato passaggio al “federalismo fiscale”, per ora oscuro nelle modalità di attuazione e soprattutto negli esiti, non induce ad ottimismo. Sappiamo, come suggerisce la filosofia, che è sempre possibile una “eterogenesi dei fini”. Ma, per restare con i piedi per terra, non possiamo dimenticare che la richiesta di federalismo fiscale è nata, più che dalla volontà di ridurre le diseguaglianze, dall’intento di giustificarle. Se non addirittura di estenderle. Stante questi chiari di  luna, e fatti gli scongiuri del caso, purtroppo invece di un auspicabile rallentamento del declino italiano, appare addirittura più probabile una sua accelerazione.

Martedì, 4. Maggio 2010
 

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