Che lavoro è senza sviluppo?

Dalla Conferenza nazionale del Pd a Genova è emersa una posizione unitaria che pone questo tema al centro della politica del partito. Oggi il problema non è più la flessibilità, ma la qualità del sistema produttivo, senza migliorare la quale ristagnano la produttività e la crescita. Due sole tipologie di contratto: e quelli a tempo determinato non devono costare meno

L'operazione politica che il Pd si proponeva con la Conferenza nazionale sul lavoro di Genova si può dire pienamente riuscita. E' una buona notizia. Innanzi tutto perché il tema del lavoro è stato posto al centro dell'agenda politica. Dopo le lunghe discussioni, alquanto stucchevoli, sul partito laburista, piuttosto che socialdemocratico, o (liberal-?)democratico, o riformista, è stata assunta una posizione semplice e chiara: il lavoro non è tutto, non riassume in sé l'essere umano, ma ha un valore fondamentale ed è un tema centrale per il progetto politico del partito. Di un partito collocato nell'alveo della sinistra democratica nel mondo e che si candida a governare il paese e a tirarlo fuori dai guai.

 

Questo il punto di partenza. Ma come affrontare il tema posto al centro? Il dibattito è stato ricco, per niente di circostanza, si sono sentite tante voci in uno sforzo collettivo di arricchire la riflessione e le proposte. Il documento di base aveva il pregio di proporre alcune scelte di fondo, anche qui, con chiarezza e semplicità. Alcune, tra tutte, mi sembra meritino particolare attenzione.

 

Lo spazio maggiore nei commenti è stato occupato dal tema della rappresentanza e della democrazia nei luoghi di lavoro. I tre segretari confederali hanno avvertito l'importanza dell'evento ed hanno accettato la sfida del Pd portando alla conferenza le loro ragioni. La sfida richiedeva risposte impegnative che sono giunte solo a metà. Anche qui, però, si è andati al nocciolo della questione sfrondando il dibattito dal tema (piuttosto bizantino, nonostante l'apparente centralità, avallata dalla cronaca sindacale recente) del rapporto tra contratto nazionale e aziendale. A questo riguardo si è ribadito che un contratto nazionale è indispensabile e che il contratto aziendale deve essere potenziato senza che possa vanificare quello nazionale. Come si vede, affermazioni su cui è difficile essere in disaccordo.

 

Al centro si è però posta un'altra questione, ristabilendo la giusta gerarchia dei temi. Viene prima infatti l'attuazione del principio costituzionale della rappresentanza negoziale su base certa, verificabile ed esigibile così da stabilire una volta per tutte, al riparo dalle tentazioni “deregolatrici”, la validità erga omnes dei contratti collettivi. E' fuori discussione che gran parte delle questioni che si agitano attorno al ruolo dei contratti aziendali perderebbero molta della loro pregnanza una volta che quel principio costituzionale fosse definitivamente attuato. Il Pd lo ha detto con chiarezza.

 

Per onestà si deve dire che un tema affiorato nel dibattito preparatorio, come conseguenza inevitabile dell'impostazione adottata, si è preferito lasciarlo in ombra in conferenza: che l'attuazione del principio costituzionale non può essere considerato nella disponibilità esclusiva delle rappresentanze d interessi, trascurando il loro ruolo di parte. Si è preferito, diciamo per motivi diplomatici, affidare ancora ai sindacati (dei lavoratori e datoriali) questa responsabilità, ritenendo che si possa far leva sull'accordo unitario del 2008 per un percorso in nome della sussidiarietà orizzontale. C'è da augurarsi che il tema di un intervento sostitutivo della politica non si ponga affatto e che la soluzione giunga nei tempi pressanti che sono richiesti.

 

Seconda questione di fondo, il rapporto lavoro - sviluppo: per rilanciare il lavoro (la sua quantità e la sua qualità) occorre dare un'impronta diversa all'economia e allo sviluppo, in quantità e in qualità.

 

Può sembrare banale, ma è una svolta. Più o meno da una quindicina d'anni la barra del timone era stata posizionata, anche per effetto degli orientamenti comunitari, sul tema dell'offerta di lavoro, del mercato del lavoro e delle sue inefficienze. E' stato giusto, era un passaggio indispensabile. Il nostro mercato del lavoro è il meno inclusivo, il più discriminatorio (non esclude in egual misura ma in modo selettivo a danno delle donne, degli anziani, dei giovani, dei meridionali) e al tempo stesso il più inefficiente (non si può certo dire che risponda alla regola della persona giusta al posto giusto). Ancora a metà degli anni '90 in Italia le politiche del lavoro erano un tema sconosciuto, affidato allo Stato centrale che svolgeva a malapena compiti amministrativi di controllo (blando e del tutto inefficace).

 

Da allora le regole sono state cambiate, i poteri sono stati decentrati. Qualcosa si è fatto (ancora molto poco e in modo diseguale, a macchia di leopardo), resta ancora molto da fare ma riguarda più l'amministrazione che la politica.

 

Il problema è che con il passare del tempo, in special modo dal 2001, si è persa di vista la qualità del sistema produttivo che il lavoro doveva crearlo (e richiederlo). Peggio: si è fatta passare per riforma del mercato del lavoro (per eliminare le “rigidità al margine”) una serie di interventi per abbassarne il costo. Ne è derivato, come conseguenza inevitabile – è una legge elementare dell'economia, non essendosi prodotta una modifica del modo di produrre (in termini tecnici, essendo restata invariata la funzione di produzione) – un abbassamento della qualità, cioè della produttività, cioè della competitività.

 

La novità quindi sta nella scelta di dare la priorità ad una politica in grado di orientare le scelte degli imprenditori verso l'innovazione, verso una migliore qualità del lavoro come base per una maggiore competitività. Una scelta che la parte del mondo produttivo più attiva sul mercato internazionale ha compiuto spontaneamente, bellamente ignorata dalla politica, in perfetta solitudine senza creare sistema. Il Pd si candida a interpretare quella linea e a sostenerla, nella convinzione che solo così si creerà lavoro stabile, perché di buona qualità.

 

Infine, il tema della precarietà. Si è già detto che a proposito di flessibilità è stata raccontata una grande menzogna. L'“adattabilità” richiesta dalla dottrina comune europea è stata presa a pretesto per introdurre una flessibilità di tutt'altro genere, l'abbassamento del costo del lavoro “al margine”, quello di minor valore. Per correggere gli effetti di questa menzogna è richiesto un intervento alla radice. Occorre ristabilire le condizioni economiche che devono presiedere alla flessibilità della produzione. Se l'obiettivo è quello –  velocità di risposta ai mutamenti del mercato anziché abbattimento del costo del lavoro a parità di prestazione – si deve tornare a considerare che l'adattabilità della produzione, in quanto comporta maggiore impegno e maggiori oneri per il lavoratore, deve trovare un corrispettivo in una maggiore remunerazione: non in una minore, come invece è avvenuto. Occorre perciò modificare il sistema delle convenienze in direzione contraria a quanto fatto negli ultimi dieci anni.

 

A ben vedere, si tratta di riprendere la rotta della metà degli anni '90, quando il primo intervento di flessibilizzazione (nel senso dell'adattabilità e non della precarizzazione) si era concretizzato nell'introduzione anche in Italia del lavoro temporaneo (poi ri-denominato “somministrazione). La legge comportava un onere per le imprese che ricorrevano a quella forma di lavoro a termine mediamente superiore del 25-30% e prevedeva, oltre a un significativo accantonamento di fondi per la formazione, il riconoscimento della medesima retribuzione di fatto (tutto compreso, qualifica, paga base e accessorio) di un lavoratore stabile nella medesima prestazione. Quel principio è andato perduto dal 2001. Il Pd torna a rilanciarlo, concretamente, come linea guida per tutti gli interventi in materia di politiche retributive.

 

Un'ultima considerazione sul partito. Il voto finale è stato unanime ma la stampa ha dato rilievo al dibattito che serpeggiava attorno al tema specifico del contratto unico, proposto da alcune autorevoli personalità del partito (parlamentari nonché studiosi). Un documento su questo tema è stato infine ritirato e la proposta resta agli atti quale possibile “arricchimento”. Non si è trattato solo di un'unità di facciata, nel senso che anche in questo caso si è giunti a condividere una scelta di fondo sul giusto ordine in cui porre le questioni. Se al centro c'è la qualità dello sviluppo e se si torna a promuovere una remunerazione maggiore – non minore – dell'adattabilità, la questione del riordino delle tipologie perde molta della sua importanza.

 

Vi è stato un accordo unanime sul fatto che due debbano essere le forme di contratto di lavoro subordinato: a tempo indeterminato (la forma normale) e determinato. Anche la somministrazione sta dentro questo schema e configura una particolarità del rapporto commerciale tra datore di lavoro e agenzia, non la sostanza del rapporto di lavoro con il dipendente, che resta in una delle due categorie. Si dà poi un caso particolare di contratto a tempo determinato che è quello di apprendistato, in quanto contratto a contenuto formativo. Tutto il resto, tutta la pletora di invenzioni che si sono accumulate nel tempo, al di là del fatto che lasciano in gran parte il tempo che trovano, servono solo a creare cortine fumogene sulla sostanza del rapporto di lavoro. Viceversa, la fonte inesauribile di precarietà sta nel ricorso a forme spurie o elusive di rapporti di lavoro autonomo, che lavoro autonomo non sono. La scelta a questo proposito vuole essere rigida e rigorosa, andando alla sostanza. Retribuzione, contribuzione e diritti, in questi casi, devono essere allineati al lavoro subordinato. In questa cornice, il grado di autonomia, ovvero di subordinazione, della prestazione è questione secondaria che riguarda il rapporto individuale senza ledere alcuno degli aspetti fondamentali del rapporto di lavoro.

Sullo sfondo del dibattito c'era però, inutile nasconderlo, un ritorno di fiamma del tema insider outsider con riferimento all'articolo 18. Semplicemente, non lo si è considerato né rilevante né attuale.

Lunedì, 27. Giugno 2011
 

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