Che farà la sinistra nel dopo-Berlusconi?

Quella di Matteo Renzi è una vittoria annunciata: resta l’assoluta stranezza di un’organizzazione che fa eleggere il suo segretario anche da esterni, cosa che in Italia nessuna aveva mai fatto prima. E restano i forti dubbi sulla politica che ne conseguirà. Eppure le cose da fare sarebbero chiare

I prossimi giorni (ad oltre 5 anni dal fallimento di Lehman Brothers, che diede inizio alla crisi finanziaria mondiale, che si è scaricata sui lavoratori e pensionati e sui ceti più deboli ed esposti, lasciando immune il colpevole capitalismo finanziario) saranno segnati da due avvenimenti, che ritengo cruciali per il futuro:

 

Il prossimo 27 novembre, il Senato “dovrebbe” decidere con voto palese l’applicazione della legge “Severino” per il senatore Berlusconi, con la conseguente decadenza nonché l’interdizione dai pubblici uffici per i prossimi 6 anni. Siamo quindi, alla fase finale dell’ invadenza politica, che perdura da un ventennio, di Berlusconi (che sarà ingabbiato ai servizi sociali e “silenziato” per 1 anno, per effetto della sentenza definitiva di condanna); spiace solo che ciò sia stato determinato dalla magistratura, anziché dal Pd e dai progressisti. Basta ricordare che, sulle tanto vituperate “leggi ad personam”, soltanto la legge sulla “inappellabilità dei pubblici ministeri” è stata abolita, ma dalla Corte Costituzionale, non dalla maggioranza di centro-sinistra dell’epoca, nonostante i proclami e le dichiarazioni contro le “leggi ad personam”, condannate solo a parole, senza mai fare nulla).

 

Comunque è una buona notizia, anche se ci vorranno anni, o forse decenni, per liberarci dal “berlusconismo”: cioè la diffusa esaltazione dell’egoistico arricchimento individuale con qualsiasi mezzo (anche illecito) a scapito della collettività, che ha pervaso nel profondo la nostra società, con le clientele, il familismo, i corporativismi, evasione e corruzione, etc.; come dire: “fare i furbi, altrimenti si è coglioni”.

 

Il prossimo 8 dicembre si svolgeranno le votazioni per la scelta del segretario del Pd, a cui parteciperanno non solo gli iscritti, ma anche chi si dichiarerà “elettore”. Questa scelta rimane sbagliata ed incomprensibile; non sono “primarie di coalizione”, che è possibile che siano in qualche modo “aperte” (come peraltro successo anche alle ultime primarie nell’autunno dello scorso anno), ma è il Congresso di un partito. Non succede in nessuna organizzazione  (di partito, di sindacato, etc.); nemmeno nella Fiom (che è l’organizzazione più “movimentista” che ci sia, quando esalta continuamente la titolarità decisionale dei lavoratori – tutti, iscritti e non) si verifica che al proprio Congresso Landini venga eletto da altri che non siano unicamente gli iscritti alla stessa Fiom. E non può che essere così, altrimenti come sarebbe possibile evitare il rischio che il segretario (di sindacato o di partito) venga determinato da un’altra organizzazione concorrente che, inviando le proprie truppe come “elettori” a partecipare alle votazioni congressuali, ne possa condizionare il risultato, avendo tutto l’interesse a far eleggere il candidato meno sgradito o più condizionabile?

 

È quindi facilmente prevedibile che Matteo Renzi verrà eletto segretario del Pd “a furor di popolo”, anziché dalla maggioranza dei soli iscritti. Ed è proprio questa la cattiva notizia, ancor più che le regole congressuali che consegnano la scelta del segretario a tutti (destra compresa), scippandola agli iscritti. Un partito che dovrebbe essere progressista si troverà guidato da uno “yuppetto rampantino”, da un “liberista camuffato”, che si è ben guardato dal pronunciare parole tipo equità, solidarietà, lotta alle diseguaglianze, alla precarietà, alle clientele, al familismo, alle corporazioni, ad evasione, corruzione, etc.; cioè le parole d’ordine di un progressista. Infatti Renzi, oltre a gabellare per teorie avanzate e riformiste quelle liberiste di Pietro Ichino, si è limitato a dichiarare di voler “restituire agli italiani il gusto della bellezza”.

 

C’è anche chi si spinge ad ipotizzare che questa sarà la chiave per la ricostituzione della nuova Dc, cioè un nuovo Pd che aggreghi ciò che resta del centro e gli orfani berlusconiani, etc., sostenuti dal capitalismo finanziario (le avvisaglie ci sono state dalla famosa riunione tra Renzi ed alcuni finanzieri in autunno scorso). Non so se ciò accadrà; ma è un’eventualità niente affatto peregrina, anche se non di semplice realizzazione. Ritengo più semplicemente che con il “blairista” Renzi nulla cambierà (se non in pejus) per le diseguaglianze insopportabili (redditi, lavoro, accesso alle opportunità, nuovi disagi e nuove povertà, etc.), come successo in Inghilterra, dove non la Tatcher, bensì Toni Blair, anziché ridurle, le ha maggiormente amplificate.

 

Diseguaglianze aumentate nell’ultimo decennio e peggiorate nel recente triennio (siamo l’unico paese Ocse ancora in recessione), continuando a mantenere il posizionamento dell’Italia negli ultimi posti in tutte le classifiche economiche: siamo il paese più diseguale (misurato con l’indice di Gini): infatti il 10% delle famiglie detiene quasi il 50% della ricchezza nazionale, incrementato con la crisi. A fronte di ciò il 91% del gettito Irpef proviene da redditi da lavoro e da pensione; il nostro tasso di occupazione è al 56% contro il 65% europeo ed il 75% nel nord Europa;  la disoccupazione giovanile è al 40,5% contro il 24% europeo; il part-time è al 15% contro il 30% europeo ed il 49% dell’Olanda; abbiamo l’orario annuo più lungo a 1774 ore, contro 1571 ore per l´Europa, 1476 ore per la Francia, 1406 ore per la Germania, con la produttività più elevata proprio nei paesi ad orario più corto, gli stessi a più alto sviluppo ed a più alto Pil pro-capite (avendo capito che le diseguaglianze sociali portano alla povertà collettiva);  e potremmo continuare . . .

 

In questo desolante quadro socio-economico, anziché prefigurare un futuro da “poveri, ma belli”, bisognerebbe domandarsi se è possibile immaginare e costruire un modello di società ispirata ad una governance equa e solidale dell’economia, capace di coniugare mercato e democrazia, sviluppo economico ed eguaglianza; cioè, un sistema capitalistico socialmente responsabile in grado di unire le libertà economiche con la solidarietà sociale (come il «modello sociale nord-europeo»). Per questo, mi rifiuto di credere che non ci sia altro capitalismo che quello “cialtrone e straccione” (come Federico Rampini definisce quello italiano), che evade, corrompe, truffa, annienta il merito ed abbandona chi ha bisogno, etc.; l’esperienza nord-europea rappresenta una solida testimonianza alternativa. Questa è la vera sfida epocale (per non dire storica) di fronte a noi, soprattutto alle nuove generazioni che, spero vivamente, possano tentare di riequilibrare i rapporti e le diseguaglianze, anzichè adeguarsi alla normalità del dominio neo-liberista avido e refrattario a regole e controlli.

 

Evitando la trappola subliminale di farci convincere dell’inutilità della politica (come tentano di abbindolarci/manipolarci anche quelli che da un video o da un blog proclamano: “adesso ci penso io!”);  tesi funzionale unicamente all’obiettivo di togliere di mezzo la democrazia ed i diritti umani, quali ultimi baluardi da rimuovere per garantire lunga vita al sistema neo-liberista dell’ingiustizia e dell’ineluttabilità delle scelte di austerità per quasi tutti (meno i ricchi, che così ricaveranno profitti più alti senza intralci).

 

Perciò serve una “buona politica”. Il punto è che non si può parlare di crescita e sviluppo se non si opera un profondo riequilibrio sociale con le sole politiche possibili: redistribuzione dei redditi con un fisco più progressivo ed efficace contro evasione ed elusione, spostando il carico fiscale da lavoratori e pensionati, ai grandi patrimoni ed alle rendite (ad es. con un prelievo dello 0,5% si avrebbero ben 24 mld di euro/anno, pari a 10.000 euro/medi/anno per ogni famiglia ricca, che non verrebbe di certo impoverita per questo - per loro - minimo importo, ma darebbe un contributo meritorio e solidale al paese, anche per il futuro dei loro come dei nostri figli), nonché ai consumi di lusso, non quelli rispondenti a reali bisogni; riduzione/ripartizione dell’orario di lavoro per creare lavoro stabile (vedi Olanda, Francia, Germania); sburocratizzazione, snellimento ed efficienza dell’apparato della pubblica amministrazione; eguaglianza nelle opportunità (di accesso all’istruzione, a dei servizi sociali universali ed efficienti, etc.); riforme pro-concorrenza anche contro il sistema clientelare delle appartenenze corporative e/o familiari.

 

Non sono proposte scandalose; questo non è estremismo, ma è l’unico “cambiamento radicale” che serve per uscire dalla crisi e ricostruire una società dal benessere diffuso. 


(Flavio Pellis – già segretario generale AReS – Associazione Riformismo e Solidarietà)

Martedì, 26. Novembre 2013
 

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