Che cosa servirebbe al Lingotto per risalire la china

Sono venuti al pettine i nodi di anni di errori, il principale dei quali è stato il protezionismo che lo Stato ha accordato all'azienda invece di fare politica industriale

Qualche hanno fa (sarà stato il ’96 o il ’97), l’Ufficio Studi della Banca d’Italia, svolse una importante ricerca, coordinata da Fabrizio Barca, sulla storia e la struttura del capitale industriale e delle imprese italiane. Nello stesso periodo, in Italia si sviluppò una interessante discussione, soprattutto sulle pagine di dibattito del “Sole-24 Ore”, sul futuro del capitalismo d’impresa italiano, europeo, mondiale; al centro c’era il dibattito se il futuro sarebbe stato del “modello anglosassone”, oppure del “modello renano”. Molti, al fondo, erano convinti che i due “modelli”, nel futuro prossimo, si sarebbero avvicinati, valorizzando i vantaggi dell’uno e dell’altro, e minimizzandone i limiti.
In tutte queste analisi (eravamo negli anni in cui si stava chiudendo l’esperienza dell’IRI; contemporaneamente, si stavano chiudendo le storie tormentate di alcune tra le grandi imprese italiane che - insieme all’IRI, appunto - avevano fatto la storia industriale dell’ultimo mezzo secolo) il “modello” del capitalismo d’impresa italiano appariva particolarmente debole, nella sua struttura “familistica”; certo relativamente isolata nel capitalismo mondiale.

Molti decenni dell’opera e dei giochi di potere gestiti soprattutto da Mediobanca, hanno frenato l’evoluzione (possibile?) del capitalismo industriale italiano, riducendone le esperienze più importanti (le grandi imprese, appunto) ad intrecci di potere di un pugno di famiglie.

Come si sa, peraltro, spesso le famiglie non riproducono imprenditori di valore; molto spesso si salta una generazione (la famiglia Agnelli docet!); comunque, di per sé, spesso le famiglie sono interessate più al loro tornaconto diretto e ravvicinato che al benessere o al futuro di una grande impresa.

Qui si evidenziano contraddizioni di fondo: una grande impresa (ma, in fondo, anche una piccola) è il prodotto di molti fattori; dire solo “capitale e lavoro” è una sintesi un po’ schematica, che non dà la ragione completa della ricchezza e complessità della costruzione di un’opera colossale di questa natura. E’ certo, tuttavia, che, quando il capitale abdica alla sua funzione di sviluppo dell’impresa, ma pensa solo alla sua riproduzione ravvicinata, l’impresa va a rotoli.

Negli ultimi anni questi elementi sono stati al centro delle disavventure FIAT. Certo: il tutto è stato accelerato dall’arrivo sulla plancia di comando del fratello “poco-imprenditore”, forse più finanziere, comunque poco legato alla FIAT in quanto gioiello di famiglia.

I pasticci delle ultime settimane di dicembre sono la dimostrazione, se ce n’era bisogno, della assoluta separazione tra gli interessi della famiglia e quelli della grande impresa FIAT. E’ la conferma della voce che perdura da diversi anni, secondo la quale la Fiat sarebbe rimasta tale fino a che l'Avvocato Giovanni Agnelli fosse rimasto in vita e alla testa della società.

Dopodiché avrebbe cambiato proprietà, natura, posto e ruolo, in Italia e nel mondo. Oggi l'Avvocato (che rappresenta, forse, anche l'ultimo esponente di una tipologia di imprenditori e di famiglie che hanno segnato la storia industriale e la crescita del paese - in Italia e non solo - nel secolo scorso, in particolare nella sua seconda metà) non ha più il timone della FIAT (nonostante che possieda la quota maggioritaria delle azioni della famiglia).

Ma, al di là dei giudizi diversi sui due fratelli, il limite della impresa "familistica" si è visto nel corso degli anni, rispetto a diversi appuntamenti, in genere mancati dalla FIAT. I (molti!) tentativi di nuove alleanze internazionali, da parte della FIAT, se rispondevano, già a partire da alcuni decenni fa, a una giusta intuizione rispetto alle tendenze internazionali in corso (alla riduzione probabile dei protagonisti nel mercato mondiale, alla necessità di spostare verso l'alto l'asse delle "classi" centrali del prodotto da offrire sul mercato, alla dimensione della produzione e dell'impresa, ecc.), non giunsero mai in porto. Al centro del problema c'era sempre la difficoltà della famiglia, che era disposta a realizzare tali accordi, a patto di continuare a controllare la nuova impresa risultante. Su questo punto saltarono molte delle possibili intese; molte altre sul piano delle risorse finanziarie.

Giovanni Agnelli ha sempre affermato che una grande azienda come la FIAT non poteva che essere filo-governativa, qualunque tipo di governo si trovasse di fronte. Contemporaneamente la FIAT è sempre riuscita a convincere gli italiani che "...quello che era buono per la FIAT era buono per l'Italia...".

Se si approfondisce l'effettiva subalternità delle politiche industriali dei governi, rispetto alla FIAT, negli scorsi decenni, si coglie quanto si è sbagliato (anche nella sinistra, largamente intesa!) ad "accompagnare" lo sviluppo della FIAT, così come veniva strategicamente concepito dalla proprietà. Qualche esempio.

1 - la politica delle infrastrutture è sempre stata di accompagnamento alla FIAT; basti pensare alle strade e autostrade, come strumento del tutto prioritario, anche per il trasporto merci, soprattutto nel Nord e nel centro (dove erano concentrati gli interessi FIAT);

2 - solo oggi si versano lacrime di coccodrillo (anche da sinistra) sulla vendita di Alfa Romeo a FIAT, invece che a Ford, "per difendere l'auto italiana"; così ogni speranza di una concorrenza sul mercato nazionale, con tutti gli stimoli che questa poteva dare ad un maggior rinnovamento della FIAT, è naufragata;

3 - ma, vorrei dire, la questione centrale, forse, è stata quella di aver favorito in tutti i modi, anche con il ritardo nel superamento delle barriere all'importazione previsto dalla Comunità Europea, un consolidamento "protetto" della FIAT sul mercato nazionale, quando già la battaglia si giocava sulla presenza internazionale; anche nella battaglia dei numeri delle vendite in Europa, anche nel periodo in cui (e fu per molti anni!) l'azienda torinese era prima in Europa, o testa a testa con Volkswagen, lo squilibrio tra la percentuale di vendita in Italia, rispetto al resto dei paesi europei, nascondeva una debolezza strutturale e strategica profonda, che oggi svela tutta la sua potenzialità di disastro.

In realtà, oltre all'Italia, una presenza consistente la FIAT l'aveva (e, ancor oggi ce l'ha) il Polonia e in altri paesi dell'Est. Non è un caso che FIAT non è mai riuscita a darsi una strategia di sviluppo nelle vetture di cilindrata medio-grande: perché, in fondo, le vetture medio/grandi erano richieste con maggior lentezza dal mercato italiano.

Infine una delle maggiori difficoltà, indotte dal controllo familistico della FIAT, e dalla antiquata struttura finanziaria del paese, è stata certamente nel passato, ma in questi ultimi decenni con più gravi conseguenze, la sotto-capitalizzazione della FIAT stessa.

In primo luogo questo è causa della divisione dei compiti e del potere tra le due componenti della famiglia: l'una governa l'IFI, l'altra la FIAT; l'IFI, in quanto finanziaria, si è dedicata a differenziare gli investimenti in molti settori: da quello alimentare, a quello puramente finanziario; la FIAT, a sua volta, si divide in tante società, con mercati e interessi diversi.

Tutto questo, forse, era interesse della famiglia (puntare a guadagnare presto); in parte conseguenza dell'immagine antica della FIAT stessa ("...terra, mare, cielo..."). Non era l'interesse della FIAT; in particolar modo della FIAT Auto.

Da qui derivano due gravi conseguenze: la prima è quella di aver distolto l'attenzione e le risorse dal "core-business" (l'auto, appunto); la seconda è quella di non avere risorse sufficienti per i nuovi, necessari investimenti, proprio negli anni in cui si giocavano partite colossali, a livello internazionale, fatte di grandi concentrazioni, di grandi innovazioni (nel prodotto, come nel modello d’impresa; nell'abbreviazione dei tempi di progettazione e lancio di un nuovo modello; nel processo industriale; nella rete commerciale; nelle relazioni sindacali). Queste "partite" e queste innovazioni richiedevano, infatti, l'impegno di grandi risorse, oltre che un forte rinnovamento nella cultura dei managers.

Con risorse, managers, relazioni sindacali, immaginazione, in Europa, altre aziende in grave crisi qualche anno fa (dalla Volkswagen, alla Renault, alla Peugeot) si sono riprese brillantemente.

Per la FIAT, oggi, è molto difficile una forte ripresa che le consenta di rientrare come una protagonista tra le grandi case produttrici: non perché il suo gruppo di tecnici non sappia fare automobili e motori; piuttosto perché troppo debole, antiquata, pesante, appare sia l’organizzazione della proprietà, sia l’organizzazione d’impresa; troppo antichi e ancora derivati dal modello dell’”esercito sabaudo” appaiono i rapporti con sindacati e lavoratori; troppo fragile appare la struttura finanziaria e il retroterra di risorse disponibili a nuovi investimenti (anche se le voci delle ultime settimane tendono a delineare la possibilità che la struttura proprietaria si possa allargare almeno ad altri protagonisti); perché resta troppo limitata la gamma di modelli offerta; perché troppo limitata appare la presenza sui mercati del primo mondo (Comunità europea, USA ed, eventualmente, Giappone), poco rilevante (o irrilevante) la presenza nel più grande mercato di espansione dei paesi in via di sviluppo (la Cina). Soprattutto perché non è semplice risalire la china in un mercato globalizzato, a concorrenza piena.

Politica industriale! Questa comincia dalle forme proprietarie, dalle vie di finanziamento, dalle politiche di relazioni industriali! Troppi guasti insieme, non risolti in questi anni, nemmeno progettati a sufficienza (neanche a sinistra; neanche dal sindacato) con il respiro sufficiente ad entrare nel terzo millennio e nel secolo della globalizzazione. Entra lo Stato nel capitale? Sarebbe giusto discuterne laicamente, senza i blocchi ideologici pro o contro. Personalmente credo che è possibile; forse utile; l’importante è a che scopo; se è chiaro a che cosa deve servire.

Nel caso della Germania e della Volkswagen è stato fondamentale; intanto perché ha garantito una quantità di risorse sufficiente per un progetto di rilancio dell’impresa; soprattutto, però, perché ha certo influenzato scelte strategiche utili all’interesse nazionale e perché queste fossero gestite d’accordo con i sindacati e con soluzioni sociali sostenibili e partecipate: nuovo modello sociale e nuovo modello d’impresa sono state la base del rilancio della Volkswagen. Possono essere anche le condizioni per il rilancio della FIAT?

Sul piano delle politiche di prodotto, non voglio dire niente sull’auto ad idrogeno e su altre proposte di peso analogo; tutte interessanti come proposte a medio/lungo termine e che necessitano una quantità ingente di risorse da investire in R&S.

Voglio invece citare un’ipotesi che sembra stimolante, che sta girando in alcuni ambienti e su cui credo valga la pena riflettere.

Nella sostanza si dice: la FIAT (e Torino) ha una lunga esperienza e professionalità nelle costruzioni meccaniche. Forse è più debole dal punto di vista delle politiche commerciali e, ormai, anche sul prodotto finito. E’ su questa base che alcuni sostengono che, in realtà, il futuro della FIAT nel mercato dell’automobile può diventare quello della fornitrice della parte meccanica a molte imprese automobilistiche europee e, forse, non solo. Da quest’ottica bisogna capire se la GM può essere un aiuto o una difficoltà. In ogni caso l’idea nasce dalla valorizzazione della “professionalità d’eccellenza” che la Fiat possiede.

Venerdì, 17. Gennaio 2003
 

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