Cgil, cent'anni da riformisti

A ripercorrere il secolo di storia del maggiore sindacato italiano è questa la caratteristica che più chiaramente emerge. Tanto da aver dato al sindacalismo italiano una evoluzione che in alcuni tratti fondamentali si riscontra solo nel nostro paese
Le celebrazioni per il centenario della CGIL rappresentano quest'anno un'occasione preziosa per ripensare alle travagliate vicende del sindacalismo italiano nel corso del secolo che ci lasciamo alle spalle, e con lo sguardo già rivolto alle sfida attuali e future che si prospettano sulla nostra agenda.

La storia lunga e complessa della CGIL si presta indubbiamente ad una pluralità di approcci interpretativi, rispetto ai quali ci pare tuttavia possibile rintracciare una cifra di riferimento, in grado di identificare la natura e la funzione di questa grande organizzazione di massa nel tessuto sociale e politico italiano. Tale cifra risiede, a nostro avviso, nell'orientamento sostanzialmente riformista che avrebbe ispirato la CGIL in pressoché tutte le grandi fasi di trasformazione che hanno attraversato il nostro paese. Una valutazione che intende esulare del tutto da qualunque eventuale proiezione ideologica di chi scrive ma che ci pare piuttosto desumibile sul piano della ricerca storica.

L'unità della classe lavoratrice e delle sue organizzazioni di rappresentanza, un'idea non banale ma strutturale delle riforme economiche e sociali, una tensione permanente sui temi della democrazia e della cittadinanza sociale del lavoro, sono i tratti maggiormente qualificanti di questa attitudine riformista della CGIL e dei gruppi dirigenti che si sono alternati alla sua guida.
 
L'obiettivo dell'unità sindacale della classe lavoratrice ha rappresentato un autentico leit motiv per generazioni di quadri di questa organizzazione. Una unità da perseguire e realizzare nella materialità dei rapporti sociali di produzione, laddove nella sovrastruttura politica si andavano determinando rotture laceranti tra le forze che ambivano a farsi interpreti del mondo del lavoro. L'esisto di questo generoso afflato è stato, nel secolo, chiaroscurale. Fra i successi può essere indubbiamente annoverato l'esser riusciti ad impedire la scissione del troncone socialista e quello comunista del movimento operaio. Un caso pressoché unico al mondo, frutto in ciò della peculiarità della tradizione politica socialista e comunista del nostro paese. Un socialismo non accomodante e a lungo proteso verso autentiche "riforme di struttura", ed un comunismo che, a dispetto della tara ultra-settaria delle sue origini bordighiste e dei successivi legami con l'URSS, saprà nei decenni posizionarsi per il suo sostanziale equilibrio programmatico e rivendicativo nella società italiana.
 
La divisione del mondo in blocchi alla fine della seconda guerra mondiale e, prima ancora, la rottura in seno all'Internazionale durante gli anni della prima grande guerra, produrranno ovunque guasti profondi, che tuttavia la CGIL sarà in grado di metabolizzare attraverso una tensione costante verso i contenuti concreti della sua politica ed un'attenzione spasmodica verso ciò che unisce, e non su ciò che divide, la classe lavoratrice. A tale esito ha certamente concorso l'intelligenza e l'autorevolezza umana e politica di tutti i grandi dirigenti della CGIL. Una duttilità ed una lungimiranza in grado di passare pressoché indenni, o con lievi perdite, a tutti tornanti storici del secondo '900.
 
Tale unità a sinistra non è invece bastata a scongiurare le scissioni di quei settori ispirati al cattolicesimo democratico o ad altri indirizzi, presenti ma minoritari nel nostro tessuto sociale e politico. Nel clima plumbeo della guerra fredda, nulla poteva ormai impedire che in quel fatale 1948 la virulenta contesa politica si arrestasse sulle soglie della fabbrica, preservando il movimento operaio italiano - fragilmente ricomposto dal patto unitario siglato a Roma nel '44 - da una frattura destinata a permanere nei decenni.
 
Diversamente che in altri paesi industrializzati, altro ed alto era in Italia il grado di radicamento di una forza popolare e moderata in seno alla classe lavoratrice e nulla - neppure la grande sensibilità unitaria di Di Vittorio - avrebbe potuto ovviare ad una lacerazione tanto grave e profonda della società italiana. La CISL di Pastore era oltretutto portatrice di orientamenti molto diversi da quelli derivanti dalla tradizione maggioritaria e post-marxista del movimento operaio internazionale. Per oltre un quindicennio la CISL guarderà con grande attenzione al sindacalismo nord-americano di Gompers, dell'AFL e della CIO, per propugnare una centralità dell'azienda e delle condizioni di lavoro al suo interno, profondamente estraneo a quella idea di sindacato generale e di classe che, a sinistra, accomunava senza riserve le due anime maggioritarie della CGIL.

L'"aziendalismo", coi suoi peculiari corollari partecipazionisti e contrattualisti a livello di relazioni industriali, verrà sempre visto come fumo negli occhi dalla CGIL, e come tale stigmatizzato e avversato, anche quando porterà i tratti distintivi dello spontaneismo operaista della sinistra più radicale o azionista, in tante fabbriche del nord. L'esperienza delle commissioni interne e, più transitoriamente, dei consigli di gestione, fu per anni al centro di questo pesante restringimento di qualunque autonomia potesse provenire dall'ambiente sindacale di fabbrica. Nessuna contrattazione di secondo livello ed un completo esautoramento degli organismi decentrati nell'esercizio del diritto di sciopero.
 
Un orientamento iper-centralista con precisi riflessi di ordine endo-associativo, rinvenibili in un prolungato primato della confederazione sulle federazioni di categorie, e dei suoi terminali territoriali - le Camere del lavoro - sugli organismi aziendali di rappresentanza. Come è noto, occorrerà la sconfitta del '55 per avviare un mutamento di indirizzo, destinato a culminare nella stagione delle grandi lotte dell'autunno caldo e degli anni '70. Col senno di poi, e a rapporti di potere nel frattempo profondamente mutati, non sarà difficile denunciare i limiti obiettivi di quella strategia politica e rivendicativa della CGIL, negli anni della ricostruzione e della repressione anti-sindacale nei luoghi di lavoro. 
  
Fra le mille ambiguità congenite ai modellini della "cinghia di trasmissione" e del "collateralismo politico", il sindacato italiano è riuscito - nel corso dei decenni - a svincolarsi dalla morsa in cui, da presupposti diversi, volevano costringerlo le maggiori forze politiche. Un'autonomia sindacale dalla politica che, senza ignorare il valore di quest'ultima come luogo primario della rappresentanza generale, sappia costruire i presupposti per un allargamento del consenso e della partecipazione sociale, nonché un innalzamento complessivo del livello performativo di un sistema economico-produttivo.
 
Per due volte, agli inizi degli anni '70 e poi nuovamente - seppure con assai minor forza - a metà degli anni '90, l'obiettivo dell'unità organica è parso ad un passo dall'essere conseguito. In ragione di un complesso intreccio di fattori, esterni ed endogeni, politici e culturali, contingenti e di lunga durata, tale "sogno" non si è ancora realizzato. Ciò non ha tuttavia impedito di realizzare un confronto intersindacale plurale, anche aspro, ma sempre ricco e vitalizzante, dal quale tuttora ereditiamo un sindacato nazionale, capace di almeno tre cose: 1) tenere livelli di sindacalizzazione fra i più elevati del mondo industrializzato, senza peraltro beneficiare di alcun sostegno del genere di quelli goduti da altre organizzazioni (si pensi al sistema Ghent dei paesi nordici  o al sistema del closed/union shop a lungo vigente nei paesi anglosassoni); 2) rimanere soggetto politico, autorevole e riconosciuto, in tutte le fasi - anche recenti - che hanno segnato la modernizzazione del nostro paese; c) preservare una capacità di mobilitazione non comune, attestata dal successo delle iniziative di lotta.  
  
La strategia della CGIL ha avuto il limite, e al contempo il merito, di postulare sempre il primato dell'interesse nazionale su ogni istanza di parte e, con esso, un pieno sviluppo delle forze produttive, entrambi assunti - non senza qualche schematismo - come condizioni ineludibili e preliminari sulla via della modernizzazione. Il corollario di questa strategia, ampiamente condivisa con la ledearship togliattiana del PCI, fu un'attenzione programmatica tutta rivolta alle grandi riforme economiche e sociali, da attuare attraverso un inveramento di quella Costituzione che tanta energia e speranza aveva suscitato nelle élite intellettuali e nelle masse lavoratrici. La lotta operaia nel sociale, nel vivo della produzione, andava dunque razionalizzata e ricondotta entro gli argini di una strategia di democratizzazione politica dell'economia, intesa non come strumento di mutamento dei rapporti di produzione, quanto come controllo statale esterno sull'impresa capitalistica.
 
Per anni, nella sinistra italiana, la via "politica" prevarrà su quella "sindacale" e la conquista dello Stato da parte della classe, cioè del partito, verrà intesa e perseguita come la condizione primaria per realizzare rapporti di lavoro "più giusti". Alla CISL da un lato e ai settori della nuova sinistra sindacale dall'altro il merito, negli anni '60, di avere incrinato, fin quasi ad un rovesciamento "pansindacalista", lo schematismo politicista di quell'orientamento. Il Piano del lavoro del '49, e la richiesta di uno Statuto dei lavoratori, sin dal Congresso del '52, rappresenteranno per la CGIL gli approdi più significativi di quella prima stagione del dopoguerra. La programmazione economica rappresenta il fil rouge che attraversa - dal primo centrosinistra all'unità nazionale - gli anni '60 e 70. Il risanamento economico e l'ingresso in Europa, gli anni '80 e '90.
Il lavoro nelle sue condizioni materiali di svolgimento, nell'organizzazione militare e disumana della fabbrica taylor-fordista, rimarrà insufficientemente indagato ed occorrerà attendere il sindacato dei consigli, con la sua pratica degli obiettivi sul terreno della salute e dell'organizzazione del lavoro nei reparti, per avere una svolta anche su questo terreno.

Alla strategia delle riforme sociali e della programmazione economica il sindacato era pronto a dare il suo contributo, attraverso un rigido contenimento rivendicativo delle spinte più radicali della sua base sociale, e l'adozione di un indirizzo di forte stampo "produttivista" nei luoghi di lavoro. Alla classe operaia veniva richiesta una autolimitazione cosciente della lotta di classe (Lanzardo), laddove le diffuse e spontanee pratiche di insubordinazione e di conflitto nelle grandi officine venivano denunciate come espressioni di settarismo, di classismo deteriore. Discutendo di Di Vittorio, Lama dirà: "La preoccupazione dell'impopolarità non ci ha mai impedito di assumere posizioni anche nette, drastiche, quando ritenevamo che queste posizioni fossero indispensabili e che da queste posizioni potesse dipendere in qualche modo l'interesse e della classe nel suo complesso e più in generale del paese (..) Ogni altra questione anche sacrosanta, persino la difesa degli interessi immediati e materiali dei lavoratori, non poteva non collocarsi in una posizione subordinata rispetto a questa scelta principale" (1977). La cosiddetta "svolta dell'EUR", sollecitata proprio da un dirigente come Lama, di schietta formazione riformista, costituisce il passaggio che con maggiore evidenza si riannoda idealmente alla fase della ricostruzione. Un filo rosso, ma non massimalista, al quale si può a buon diritto ascrivere tutta la stagione concertativa degli anni '90.

Quanto più forte ha  spirato sul paese il vento della crisi e della disgregazione, tanto più il sindacato italiano - a cominciare dalla sua organizzazione più forte - ha risposto all'appello con un senso di responsabilità e dell'interesse generale che è invece troppo spesso mancato ad altri grandi protagonisti della vita politica ed economica nazionale; il sistema delle imprese e l'attore pubblico.
 
Ciò determinerà uno scarto deludente fra disponibilità allo scambio politico e l'esiguità dei suoi risultati concreti, che agevolerà in più occasioni la denuncia dei settori più radicali verso l'indirizzo riformista della CGIL. Una dialettica costante, dentro e a ridosso dell'organizzazione, riflesso inevitabile del confronto interno, anche aspro, fra le varie anime della sinistra e di quella comunista in particolare.

Una dialettica che la classe dirigente della CGIL ha saputo metabolizzare attraverso il riconoscimento di un delicato pluralismo interno ed un esercizio strenuo del confronto e dell'ibridazione reciproca. Tutto il sindacalismo italiano, in vero, e prima ancora la classe lavoratrice che lo ha composto e sostenuto, ha mostrato questa grande capacità. Nessuno, in questa lunga e articolata vicenda, può dire di detenere il monopolio esclusivo dell'innovazione. Il valore di certe intuizioni non può mai essere assunto e valutato, prescindendo dal contesto generale nel quale esse maturano e vengono suggerite.
 
Ad esempio, il contrattualismo ed il partecipazionismo aziendalista della CISL - pur foriero di feconde elaborazioni nei decenni che seguiranno - giungeva intempestivo e fuorviante negli anni dell'immediato dopoguerra, in cui rischiava di avallare un ulteriore aggravamento del già frastagliato e squilibrato sistema produttivo e sociale del paese. Un rischio, quello della deriva corporativa e aziendalista del rivendicazionismo operaio e sindacale, perennemente in cima alle preoccupazioni di un sindacato come la CGIL, sempre proteso verso una dimensione generale e confederale della sua rappresentanza associativa e negoziale.
 
Basti qui considerare tre ambiti tematici cruciali, quali quelli della partecipazione, della rappresentanza nei luoghi di lavoro, della contrattazione collettiva. Dal disegno Morandi sui Consigli di gestione alle tesi panzieriane sul controllo operaio, dal Piano di impresa alle più recenti elaborazioni in tema di codeterminazione, la CGIL ha sempre assunto il tema della partecipazione dei lavoratori nell'impresa fuori da ogni equivoca suggestione organicistica ed una tensione progettuale capace di saldare sempre le vicende di ogni singola azienda nell'ambito del complesso sistema economico e sociale che la ricomprende.

Una analoga ispirazione può essere riscontrata in tema di rappresentanza. Oggi come ieri. Nel passaggio dalle vecchie Commissioni interne ai Consigli di fabbrica, e poi ancora da questi alle attuali Rsu, l'obiettivo è sempre stato quello di un canale unico ed "anfibio", espressione di tutti i lavoratori ma anche momento di sintesi, da certificare secondo procedure democratiche e trasparenti, che il sindacato esprime sul luogo di lavoro.

E infine sulla contrattazione collettiva, dove il riconoscimento del primato del contratto nazionale assurge al ruolo di autentico tessuto connettivo di un sistema produttivo e sociale altrimenti condannato - a causa delle sue tare antiche e strutturali - ad una concorrenza nefasta sul terreno del diritto della concorrenza, non meno che su quello del diritto del lavoro. Da qui il duplice nesso, con una programmazione nazionale da perseguire attraverso una reale concertazione tripartita dello sviluppo industriale e della politica dei redditi, ed un coinvolgimento democratico di tutti i lavoratori nella verifica del consenso e nella formazione dei processi decisionali.

Su ciascuno di questi dirimenti terreni, la CGIL offre oggi al paese un patrimonio di idee e di esperienze sufficientemente rodato, del quale non si potrà prescindere per determinare quegli avanzamenti sulla via del progresso sociale e della democrazia, da cento anni cuciti - a caratteri dorati - sui drappi rossi delle sua bandiere. 
Giovedì, 16. Marzo 2006
 

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