Cercasi programma d’opposizione condiviso

I dati sull’occupazione e la crescita fanno giustizia dei proclami del governo: la crisi non si allenta e non stiamo meglio degli altri. Ma all’inerzia dell’esecutivo non si riesce a contrapporre un “programma dei cento giorni” su cui ci sia un largo accordo

Lieve calo della disoccupazione in agosto. Qualcuno ha voluto leggerlo come il segnale, tanto atteso, che la ripresina economica comincia a far sentire i suoi effetti anche sull’occupazione, fin qui inesorabilmente in calo. Ma non è così.

 

A dieci anni circa da quando l’Istat ha adottato gli standard europei per la rilevazione delle forze di lavoro, dovrebbe essere noto che questo dato da solo non può essere assolutamente preso come un termometro della situazione economico-produttiva. Il dato diffuso dall’Istat ci dice che in agosto meno persone hanno effettuato azioni di ricerca attiva di un lavoro rispetto al mese precedente. Per trarne un giudizio occorre quindi sapere, quanto meno, se sono diminuite perché hanno trovato un lavoro o perché hanno smesso di cercarlo.

 

Per questo banale motivo, il dato sulla disoccupazione non è mai stato preso in considerazione dall’Unione europea come parametro per giudicare lo stato di salute del mercato del lavoro. Tutti gli obiettivi che l’Europa si prefigge riguardano invece il tasso di occupazione, declinato nelle sue varie componenti (donne, giovani, anziani, ecc.). In più, il dato italiano sulla disoccupazione contiene un’anomalia che si chiama cassa integrazione, specificità italiana che permette di considerare occupate persone che nel resto del mondo sono censite tra i disoccupati o gli inattivi.

 

Inoltre il confronto andrebbe fatto, oltre che sul mese precedente, per cogliere le momentanee oscillazioni, anche sullo stesso mese dell’anno precedente, per cogliere la tendenza di più lungo periodo. Rispetto a dodici mesi prima l’occupazione è diminuita di 139.000 unità mentre i disoccupati sono aumentati di 71.000 unità, questa è la cruda realtà raccontata dal dato tendenziale. Rispetto al mese precedente invece l’occupazione è rimasta stabile (dopo un lungo periodo di calo costante), come effetto di un modesto aumento delle femmine e di una diminuzione dei maschi di pari entità, mentre diminuivano le donne disoccupate ben più di quanto non aumentassero le occupate. Il saldo, cioè l’andamento della popolazione attiva femminile, è dunque negativo anche nel confronto di breve periodo con il mese precedente: il lieve aumento dell’occupazione, evidentemente, non è riuscito ad arginare il fenomeno di scoraggiamento. Una parte delle donne che erano senza lavoro ha rinunciato a cercarlo.

 

Questa la realtà mostrata dai dati che l’Istat ha anticipato. Il ministro del Lavoro Sacconi non ha espresso la forte preoccupazione e l’impegno del suo dicastero per mettere in campo tutte le misure necessarie a frenare questa emorragia e a sostenere il sistema produttivo perché torni a creare posti di lavoro. Ha invece espresso soddisfazione (cauta, si intende): “un inequivocabile segnale positivo.” Si è così allineato alle smargiassate di un premier che non ha provato imbarazzo ad affermare che l’Italia ha un’economia talmente forte da essere seconda in Europa solo alla Germania.

 

Niente di più falso, purtroppo per l’Italia. Si trattasse solo del consueto eccesso di sparate propagandistiche, nel clima di permanente campagna elettorale che questo governo vorrebbe imporre agli italiani, pazienza. Il guaio è però che le sparate servono sempre meno a illudere i gonzi, che si illudono sempre meno, mentre fanno da copertura ideologica e culturale alla linea di non intervento adottata dal governo per tutto il lungo corso della crisi.

Se l’Italia arranca e nel biennio 2010 non riesce a esprimere neppure una ripresina, mentre le economie guida dell’Europa (per non parlare dei paesi “Brics”) fanno segnare risultati ragguardevoli, se solo i paesi “Pigs” (e l’Estonia) ci fanno compagnia (ma per Grecia e Spagna si comincia a vedere il sereno), qualcosa nella ricetta del premier che salva il mondo e del genio che guida la nostra economia non funziona. Quelli che vorrebbero essere i più furbi di tutti sono invece, come al solito, soltanto i più imbelli, chiusi in un provincialismo e in una miopia politica degne davvero del livello di un sindaco di paese delle valli pedemontane dove fa danni la propaganda leghista.

 

La crisi dunque morde. L’Italia come paese non ne esce. Il sistema produttivo non crea abbastanza ricchezza e una distribuzione distorta, grazie a una politica sbagliata, alimenta le disparità e dà luogo a un crescente impoverimento. Le conseguenze sull’occupazione sono particolarmente pesanti: la ripresina non ha avuto neanche più l’effetto di creare posti di lavoro, sia pure di bassa qualità. Il nuovo rallentamento che si profila a breve renderà la situazione ancora più allarmante.

 

La crisi della maggioranza è soprattutto qui. La caduta di consensi, il tracollo dell’immagine, possono anche manifestarsi, nella rappresentazione tragicomica della politichetta raccontata, su questioni di contorno; le gerarchie vaticane possono anche ridurla a scontro di personalismi. La realtà dei fatti è che il bilancio di questo governo è di nuovo, dopo quello del 2001-2005 condannato dagli elettori (soprattutto nelle regionali del 2005, quelle del 13 a 2), un totale fallimento.

 

Eppure - non è stato certo Veltroni il primo a scoprirlo - l’alternativa non convince, non prende corpo. Perché dà un’immagine di divisione, dicono in molti. Finché ci si accontenterà di questa spiegazione, che detta così è poco più che una baggianata, di elettori se ne convinceranno sempre meno. In realtà, se ci fosse un nucleo di idee forza nessuno si stupirebbe né delle voci dissonanti né del fatto che alcuni punti dell’agenda siano lasciati ad una valutazione più articolata.

 

Proviamo a ripensare alla caduta del secondo Prodi (per tacere di quella del primo). Lasciò il campo per le divisioni sul “fine-vita” (ricordate il  caso Englaro e la folgorazione di Mastella a San Pietro?) e sul giudizio su Bassolino (la mondezza è stato solo lo scaltro espediente per far emergere il problema dello “stile di governo” di quella regione, su cui oggi sembra giganteggiare un Caldoro). Con tutto il rispetto per i temi etico-religiosi e per la personalità dell’ex governatore campano, non è su questi temi che cade un governo e si interrompe una legislatura. Come sarebbero andate le cose se vi fosse stata unità di intenti, che so, sul programma di sostegno all’innovazione di Bersani e Nicolais, o sulla lotta all’evasione di Visco e Padoa Schioppa o sull’accordo di concertazione di Damiano o sul peacekeeping di D’Alema e Parisi, cioè sui principali atti di governo? Ovvero sulle priorità rispetto a quello che ancora restava da fare (nuova politica del lavoro per il contrasto della precarietà, tanto per dire, e poi giustizia, legge elettorale, conflitto di interessi)? Non si può legittimamente ritenere che se l’unità avesse poggiato su una solida convinzione comune a una larga parte dello schieramento, non avrebbero pesato più di tanto le obiezioni di qualche frangia, né sarebbero diventate dirompenti le divisioni su altri temi come quelli legati alla sensibilità religiosa? Se non altro perché un forte gruppo dirigente convinto delle idee e della bontà delle azioni messe in atto avrebbe dimostrato ben poco timore delle urne e sfidato sia i dubbiosi del proprio schieramento sia i fanatici talebani dello schieramento opposto.

 

Quel nocciolo coerente e condiviso – con convinzione – invece mancava; così come mancava il “gruppo di testa” coeso per portarlo avanti. Ora che il problema si ripropone vanno fatti i conti fino in fondo con questo nodo.

 

Gli elettori si aspettano un “programma dei cento giorni” chiaro e comprensibile. Questa era stata la trovata del “contratto con gli italiani” di Berlusconi, questo era invece mancato al centro-sinistra nel 2006 quando il programma enciclopedia creò le basi perché ognuno vi leggesse quel che preferiva per distinguersi dagli altri.

 

La domanda da un milione di euro (o, meglio, da cinque milioni di voti, quanti sono quelli che il centro-sinistra dovrebbe conquistare tra gli incerti e tra i delusi, dell’una come dell’altra parte) è che cosa impedisce di arrivarci.

 

La discussione sul leader è, a questo riguardo, totalmente fuorviante. Se per leader si deve intendere qualcuno in grado di costruire la sintesi che non c’è e di proporla in modo convincente (vedi Obama negli USA), è chiaro che si tratta di qualcuno che nessuno ha ancora visto all’opera perché altrimenti, considerati i curricula e le età degli aspiranti leader, avrebbe già avuto modo di imporsi. Se invece si intende qualcuno che, una volta costruita la sintesi, dia la garanzia di portarla avanti, credo che ci sia perfino l’imbarazzo della scelta. Ma allora si torna alla domanda che inchioda alle sue responsabilità tutto il “gruppo di testa”: che cosa impedisce di stabilire una sintesi, un nocciolo coerente e condiviso con convinzione da un gruppo sufficientemente largo, qualificato e coeso?

 

La mia personale opinione è che non si sia cercata a sufficienza la risposta a questo quesito.
Domenica, 17. Ottobre 2010
 

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