Cattolici, ma non andremo a San Giovanni

Una lettera aperta di giovani impegnati nel mondo ecclesiale per spiegare perché non aderiscono al "family day"

In molti domenica scorsa abbiamo provato un sincero disagio a trovare nel foglietto parrocchiale o a sentire nelle omelie l'invito a partecipare al "family day" -nome piuttosto triste tra l'altro- del 12 maggio. Manifestazione che assume i chiari connotati di una battaglia politica in cui la gerarchia ecclesiastica assume un ruolo diretto: "I nostri vescovi invitano a partecipare a…". Certi slogan "Piu' famiglia" hanno evidentemente maggiormente a che fare con la pubblicità del Mulino Bianco che con il Vangelo di questa domenica, quello del "comandamento nuovo".

 Non si sopportano davvero più gli eccessi polemici di queste settimane, le lamentazioni fondamentaliste dei soliti laicisti anticlericali, così come la pastorale dello slogan o peggio, la ricerca dell'evento mediatico e dello scontro, del noi e del voi…l'eccessivo interventismo della dei nostri Pastori nel dibattito politico. Non neghiamo il diritto dei Vescovi di esprimere un parere ed illuminare le nostre coscienze, ma ci spaventa il tentativo anche implicito di superare la Mediazione politica e culturale, ponendo indicazioni vincolanti sul comportamento dei deputati cattolici, che hanno il dovere costituzionale e conciliare di rispondere alla propria coscienza e lavorare per tutti i   cittadini, non per dare corpo legislativo ad un proprio credo.  Mediare nel campo della "politica" che è il mondo del possibile, è il metodo di lavoro, la "Laicità" che ci hanno insegnato i padri costituenti, ma che è anche uno dei principi basilari affermati nel Concilio Vaticano II.  

Vi è la sensazione di una diffusa tristezza nel Popolo di Dio, di una incredibile debolezza ecclesiale e soprattutto di un vuoto etico, non quello dei dico o delle unioni di fatto che dir si voglia, ma quello di chi ha smesso di credere alla forza evangelica della Testimonianza…del Lievito, dell'Amore, dell'incontro dialettico con l'Altro e si rifugia in una manifestazione d'orgoglio identitario, in preda alla paura di soccombere, più che guidati dalla Speranza (meno male che non è stato chiamato "family pride".. ci sarebbe stato da ridere) di illuminare e migliorare il Mondo .

Siamo tutti consapevoli della crisi che la nostra società attraversa, della mancanza di punti di riferimento, di grandi spinte ideali, di grandi speranze, della drammatica liquidità che caratterizza tutte le forme di relazione. Viviamo in un mondo che esalta la competizione, il successo, l'affermazione e troppo spesso dimentica la straordinaria esperienza della comunione, della condivisione. Viviamo un tempo in cui l'egoismo cronico domina i rapporti. L'egocentrismo e l'insicurezza in cui cresciamo fa si' che il numero e la velocità delle esperienze conti più del senso, della ragione profonda delle stesse. La paura di scegliere prevale allora sulla gioia della Scelta, che è anche rinuncia, perché è dono totale, unico ed irrepetibile all'altro.

Ci sorgono, però,  spontanee alcune domande…

E' davvero il riconoscimento pubblico delle coppie di fatto a mettere in crisi la fedeltà, l'impegno, la scelta di un Amore duraturo, non "liquido" direbbe Bauman, non flessibile, non precario, non rescrivibile, la scelta della Famiglia? …o non è piuttosto il tipo di società che abbiamo creato, il modello di consumo su cui la nostra società si è plasmata negli ultimi anni, l'impossibilità per i giovani di costruire un progetto di vita a tempo indeterminato?

Un problema strutturale, un problema culturale si risolve davvero con una battaglia politica contro quella o questa legge, con la minaccia di scomuniche o le indicazioni vincolanti ai parlamentari credenti? Non rischiamo forse di inasprire lo scontro, di rafforzare il muro di incomunicabilità che si è creato tra credenti e non credenti?

Ci  preoccupa vedere tanti giovani preti dismettere l'abito Conciliare della Parola e dell' Ascolto e parlare sempre più di magistero e sempre meno di Cristo, sempre più del Family Day e sempre meno del Vangelo della Domenica, sempre più alle due pecore rimaste nell'ovile e sempre meno alle tante pecorelle smarrite. Non è forse Gesù che ci ha insegnato a smantellare i nostri arroccamenti, i nostri pregiudizi e a far prevalere la fecondità della Buona Notizia sulla presunta forza del precetto e della legge?

Da cristiani siamo preoccupati non  tanto della rilevanza politica   o giuridica del Magistero, quanto  dell'anoressia spirituale della Società in cui viviamo. Non tanto della nostra capacità di  affermare ex lege   i "nostri valori", ma di comunicare la straordinaria Bellezza del matrimonio, la grandezza della Buona Notizia . Vorremo una Chiesa capace di parlare a questo mondo e a questo tempo.

Vorremo che trasparisse dalle nostre vite la Felicità che produce la relazione gratuita, l'energia, il fuoco dell'Amore   che  sa superare anche la delusione umana, i dolori e le angosce che due persone possono procurarsi, come ricordo' a molti di noi Giovanni Paolo II quella magica notte a Tor Vergata. La gioia di ricominciare anche quando tutto sembra perduto. E' li' che avvertiamo il nostro relativismo nell'incapacità di essere tempio   trasfigurato di un Amore che non risponde alle logiche meritrici del prezzo o della vendetta, ma incarna il Perdono.


Certo "la fede non è un bagaglio lieve" come diceva il teologo Pierre Riches ai suoi giovani. Vivere una fede in modo pieno significa "non avere mai tesi a priori o accettate ciecamente . Continuare a ragionarci sopra criticamente, cercando di capire la ragion d'essere di ciò che propone la fede e, se del caso, rivedere la propria tesi".   E' per questo che ci  preoccupa chi cerca la Certezza nelle radici e non la Verità nel confronto, nella discussione, nei frutti, come ha detto il rabbino di Francia (ma anche secondo lo spirito della nostra Corte Costituzionale): "compito della laicità non è costruire degli spazi svuotati dal religioso, ma offrire uno spazio in cui tutti, credenti e non credenti, possono trattare di ciò che è accettabile e di ciò che non lo è" . Ci preoccupa chi pensa di ridurre la Verità ad un copyright, una proprietà intellettuale. Chi cerca di vendere certezze e non di educare alla sfida della Ragione e alla scoperta delle Verità dell'Altro. Ci preoccupa seriamente la riduzione della fede a contenuto morale, religione civile, patrimonio identitario e residualmente difensivo, lo sbandieramento della propria verità che è la negazione della prassi evangelica.

La fede si rivolge al trascendente, "all'assoluto", la democrazia è manifestazione del "relativo". La laicità quindi è uno strumento irrinunciabile, in particolare nel nostro tempo, per cercare di rendere conciliabile questa apparente contraddizione, elemento di libertà e fermento di incontro in ambito religioso, sociale, civile e politico. La fede che i nostri padri spirituali ci hanno aiutato  a scoprire  non è  un presepe in una scuola, non è un crocifisso in un tribunale nè tanto meno uno slogan in una manifestazione.   La nostra  fede non è tradizione popolare. Sono persone, volti,  dubbi e speranze, di testimonianza  ed appassionata ricerca dell'Assoluto di fronte al quale leggi, manifestazioni, slogan rivestono un valore relativo. E' per questo che sabato non scenderemo in piazza.

Osea Giuntella, Francesco Lauria, Dario Continenza

www.larete.ilcannocchiale.it

Sabato, 12. Maggio 2007
 

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